8.9.19

Il ruolo degli intellettuali. Tabucchi insegna: chi studia si impegni per il bene comune (Salvatore Settis)


Il testo che segue, di Salvatore Settis, prestigioso archeologo e storico dell'Arte in prima linea nella difesa del patrimonio artistico e culturale italiano, è la prefazione al libro di Antonio Tabucchi Gli Zingari e il Rinascimento. Vivere da Rom a Firenze pubblicato per la prima volta nel 1999 e ristampato qualche mese fa (2019) dalle Edizioni Piagge di Firenze. Parla solo marginalmente dello scritto di Tabucchi e piuttosto si sofferma sulla sua figura intellettuale, che gli appare tuttora un esempio da seguire. (S.L.L.)

Nessuno dubiterà che il tema dell’impegno degli intellettuali nella vita civile del nostro Paese fu tra quelli più cari ad Antonio Tabucchi, come è documentato nei numerosi articoli che pubblicò, mentre intanto s’impegnava lui stesso, anche con estrema decisione e durezza, in battaglie civili su temi difficili e controversi.
Della forza d’impatto di Antonio è esempio significativo il breve scritto che qui si ripubblica, Gli Zingari e il Rinascimento. Vivere da Rom a Firenze (1999), dove egli condanna senza appello la suprema volgarità di certa industria culturale fiorentina, che facendo leva sul Rinascimento ne frantuma e commercializza gli ideali, ignorando intanto il messaggio centrale di ogni umanesimo, l’integrale rispetto per l’uomo. I Rom ai confini della città, i meccanismi di rigetto, lo strisciante disprezzo, l’abitudine a chiudere gli occhi rimuovendo dall’orizzonte i poveri e i diseredati: abitudini e pratiche che suscitavano in Antonio uno sdegno senza confini. Questa sua “mossa”, da grande intellettuale, di obbligarci a pensare al Rinascimento guardando un campo Rom, e viceversa, ricorda il gesto altrettanto radicale di un grande storico della cultura, Aby Warburg, che sul finire del secolo XIX provò a intendere il Rinascimento fiorentino attraverso la danza del serpente e le ceramiche decorate dagli Indiani Hopi dell’Arizona. Una tale radicalità lascia solo due alternative: voltare vilmente le spalle, o fermarsi a pensare. Può permettersi di essere così radicale chi non abbia solo ricchezza culturale, ma (qualità molto più importante) libertà interiore. Come Tabucchi.
Ricordo di aver parlato con lui, in particolare, dell’eclisse dell’intellettuale impegnato in Italia. Gli “intellettuali impegnati” abbondarono a lungo da noi, quando poteva darsi per scontato che i problemi della società dovessero trovare nei partiti (soprattutto di sinistra) una camera di decantazione, una “macchina per l’interpretazione” in cui tutto venisse analizzato dagli intellettuali di mestiere. In quei decenni non c’era lista elettorale che non si cercasse di arricchire di un qualche nome più o meno in vista, intellettuali «prestati alla politica», si diceva, che spesso accettavano l’elezione come «indipendenti di sinistra», e scalpitavano a ogni richiamo alla disciplina di partito. Da anni non è più così. Oggi, con poche eccezioni, gli intellettuali si impegnano qualche volta su temi etici (per esempio l’eutanasia), molto meno sul terreno della politica, diventato insidiosissimo. I partiti non li cercano, in Parlamento non ce n’è quasi più, e nessuno lo trova strano. Perché una mutazione tanto profonda, in soli vent’anni?
Per citare solo una delle ragioni di questa trasformazione, vorrei qui evocare il tramonto della cultura del bene comune, un tema che ha in Italia una storia lunghissima. Partendo dal bonum commune di tanti statuti delle città medievali e dalla publica utilitas spesso richiamata dai giuristi, dai filosofi e dai teologi, si puntò per secoli a tramandare di generazione in generazione un sistema di valori civili, un costume diffuso che valesse più di ogni costrizione mediante le norme, insegnando a riconoscere la priorità del bene comune, subordinando ad esso ogni interesse del singolo, quando col bene comune sia in contrasto.
Ma l’idea di bene comune, con la sua dimensione al tempo stesso etica e politica, comporta un forte senso di responsabilità intergenerazionale. Comporta la piena consapevolezza che bisogna lavorare oggi per le generazioni future. È qui che l’“intellettuale impegnato” dovrebbe far sentire la propria voce, mostrando, come Antonio Tabucchi ha saputo fare senza sconti per nessuno, la necessità e i vantaggi di uno sguardo lungimirante. Il suo impegno ci dà l’esempio di una singolare eloquenza, quella dell’intellettuale che adopera come un’arma la lingua letteraria e la conoscenza storica. Antonio non è mai caduto, come tanti intellettuali, nella tentazione di reagire alle difficoltà del presente chiudendosi in un dignitoso silenzio. Non ha taciuto, credo di poter dire, perché temeva che anche il silenzio può rivelare complicità inconfessabili. Non ha mai cercato di entrare in nessuna “stanza dei bottoni”, perché gli fu estranea ogni ambizione di potere: gli bastava il potere della scrittura, la forza della libertà di parola, la dignità del cittadino.
Se mai c’è un futuro in Italia per la figura ormai antica dell’intellettuale impegnato, è sulla linea indicata nei fatti da Antonio che dobbiamo cercarlo. Perché la generale eclissi dell’intellettuale impegnato, anzi la sua lenta estinzione, può esser forse capovolta in vantaggio. Questa eclissi toglie status, ma anche arroganza, a un gruppo sociale che in Italia fu anche troppo avvezzo a guardare gli altri dall’alto in basso: ciò che Antonio non ha fatto mai. La sfortuna degli intellettuali nell’Italia di oggi ha questo di positivo, che li restituisce a quello che sono (o siamo): cittadini fra i cittadini.
Questa è dunque la domanda, a cui nelle pagine di Antonio possiamo cercare una risposta forte e vibrante: è possibile l’impegno civile di un cittadino che (anziché ad altri lavori) si dedichi alla ricerca o alla letteratura? O diremo che ogni intellettuale deve limitarsi alla propria specializzazione, lasciando i temi di attualità ai politici di mestiere?
La risposta a questa domanda che la vita di Antonio, e non solo la sua scrittura, ci suggerisce, è molto semplice: bisogna rivendicare, ed esercitare pienamente, il diritto di parola non dell’intellettuale, bensì del cittadino; o meglio, dell’intellettuale in quanto cittadino. Perché «politica» è o dovrebbe essere, per la stessa genealogia della parola, il libero discorso fra cittadini, che abbia per tema gli interessi e il futuro della comunità, della polis.
Nel degrado dei valori e dei comportamenti che appesta il tempo presente, è sempre più urgente che i cittadini si impegnino in una riflessione alta, non macchiata da personali interessi e meditata, sui grandi temi civili del nostro tempo, e li affrontino armati di conoscenze professionali, ma anche animati da un forte senso del bene comune, cuore della nostra Costituzione.
Di fronte alla crisi della politica, oggi anche troppo evidente, è dunque ai cittadini che deve tornare la parola d’iniziativa. Questa è (credo) la grande e precoce lezione di Antonio Tabucchi nei suoi scritti e nelle sue battaglie civili: un intellettuale che non si è mai proposto come un cittadino “speciale”, più savio e più autorevole degli altri. Che, al contrario, ha saputo vigorosamente parlare da cittadino ai cittadini, utilizzando con umiltà e con rigore il suo acume nel giudicare il mondo, le sue straordinarie abilità nel raccontarlo.


Il Sole 24 Ore, 18 agosto 2019

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