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8.9.19

Il ruolo degli intellettuali. Tabucchi insegna: chi studia si impegni per il bene comune (Salvatore Settis)


Il testo che segue, di Salvatore Settis, prestigioso archeologo e storico dell'Arte in prima linea nella difesa del patrimonio artistico e culturale italiano, è la prefazione al libro di Antonio Tabucchi Gli Zingari e il Rinascimento. Vivere da Rom a Firenze pubblicato per la prima volta nel 1999 e ristampato qualche mese fa (2019) dalle Edizioni Piagge di Firenze. Parla solo marginalmente dello scritto di Tabucchi e piuttosto si sofferma sulla sua figura intellettuale, che gli appare tuttora un esempio da seguire. (S.L.L.)

Nessuno dubiterà che il tema dell’impegno degli intellettuali nella vita civile del nostro Paese fu tra quelli più cari ad Antonio Tabucchi, come è documentato nei numerosi articoli che pubblicò, mentre intanto s’impegnava lui stesso, anche con estrema decisione e durezza, in battaglie civili su temi difficili e controversi.
Della forza d’impatto di Antonio è esempio significativo il breve scritto che qui si ripubblica, Gli Zingari e il Rinascimento. Vivere da Rom a Firenze (1999), dove egli condanna senza appello la suprema volgarità di certa industria culturale fiorentina, che facendo leva sul Rinascimento ne frantuma e commercializza gli ideali, ignorando intanto il messaggio centrale di ogni umanesimo, l’integrale rispetto per l’uomo. I Rom ai confini della città, i meccanismi di rigetto, lo strisciante disprezzo, l’abitudine a chiudere gli occhi rimuovendo dall’orizzonte i poveri e i diseredati: abitudini e pratiche che suscitavano in Antonio uno sdegno senza confini. Questa sua “mossa”, da grande intellettuale, di obbligarci a pensare al Rinascimento guardando un campo Rom, e viceversa, ricorda il gesto altrettanto radicale di un grande storico della cultura, Aby Warburg, che sul finire del secolo XIX provò a intendere il Rinascimento fiorentino attraverso la danza del serpente e le ceramiche decorate dagli Indiani Hopi dell’Arizona. Una tale radicalità lascia solo due alternative: voltare vilmente le spalle, o fermarsi a pensare. Può permettersi di essere così radicale chi non abbia solo ricchezza culturale, ma (qualità molto più importante) libertà interiore. Come Tabucchi.
Ricordo di aver parlato con lui, in particolare, dell’eclisse dell’intellettuale impegnato in Italia. Gli “intellettuali impegnati” abbondarono a lungo da noi, quando poteva darsi per scontato che i problemi della società dovessero trovare nei partiti (soprattutto di sinistra) una camera di decantazione, una “macchina per l’interpretazione” in cui tutto venisse analizzato dagli intellettuali di mestiere. In quei decenni non c’era lista elettorale che non si cercasse di arricchire di un qualche nome più o meno in vista, intellettuali «prestati alla politica», si diceva, che spesso accettavano l’elezione come «indipendenti di sinistra», e scalpitavano a ogni richiamo alla disciplina di partito. Da anni non è più così. Oggi, con poche eccezioni, gli intellettuali si impegnano qualche volta su temi etici (per esempio l’eutanasia), molto meno sul terreno della politica, diventato insidiosissimo. I partiti non li cercano, in Parlamento non ce n’è quasi più, e nessuno lo trova strano. Perché una mutazione tanto profonda, in soli vent’anni?
Per citare solo una delle ragioni di questa trasformazione, vorrei qui evocare il tramonto della cultura del bene comune, un tema che ha in Italia una storia lunghissima. Partendo dal bonum commune di tanti statuti delle città medievali e dalla publica utilitas spesso richiamata dai giuristi, dai filosofi e dai teologi, si puntò per secoli a tramandare di generazione in generazione un sistema di valori civili, un costume diffuso che valesse più di ogni costrizione mediante le norme, insegnando a riconoscere la priorità del bene comune, subordinando ad esso ogni interesse del singolo, quando col bene comune sia in contrasto.
Ma l’idea di bene comune, con la sua dimensione al tempo stesso etica e politica, comporta un forte senso di responsabilità intergenerazionale. Comporta la piena consapevolezza che bisogna lavorare oggi per le generazioni future. È qui che l’“intellettuale impegnato” dovrebbe far sentire la propria voce, mostrando, come Antonio Tabucchi ha saputo fare senza sconti per nessuno, la necessità e i vantaggi di uno sguardo lungimirante. Il suo impegno ci dà l’esempio di una singolare eloquenza, quella dell’intellettuale che adopera come un’arma la lingua letteraria e la conoscenza storica. Antonio non è mai caduto, come tanti intellettuali, nella tentazione di reagire alle difficoltà del presente chiudendosi in un dignitoso silenzio. Non ha taciuto, credo di poter dire, perché temeva che anche il silenzio può rivelare complicità inconfessabili. Non ha mai cercato di entrare in nessuna “stanza dei bottoni”, perché gli fu estranea ogni ambizione di potere: gli bastava il potere della scrittura, la forza della libertà di parola, la dignità del cittadino.
Se mai c’è un futuro in Italia per la figura ormai antica dell’intellettuale impegnato, è sulla linea indicata nei fatti da Antonio che dobbiamo cercarlo. Perché la generale eclissi dell’intellettuale impegnato, anzi la sua lenta estinzione, può esser forse capovolta in vantaggio. Questa eclissi toglie status, ma anche arroganza, a un gruppo sociale che in Italia fu anche troppo avvezzo a guardare gli altri dall’alto in basso: ciò che Antonio non ha fatto mai. La sfortuna degli intellettuali nell’Italia di oggi ha questo di positivo, che li restituisce a quello che sono (o siamo): cittadini fra i cittadini.
Questa è dunque la domanda, a cui nelle pagine di Antonio possiamo cercare una risposta forte e vibrante: è possibile l’impegno civile di un cittadino che (anziché ad altri lavori) si dedichi alla ricerca o alla letteratura? O diremo che ogni intellettuale deve limitarsi alla propria specializzazione, lasciando i temi di attualità ai politici di mestiere?
La risposta a questa domanda che la vita di Antonio, e non solo la sua scrittura, ci suggerisce, è molto semplice: bisogna rivendicare, ed esercitare pienamente, il diritto di parola non dell’intellettuale, bensì del cittadino; o meglio, dell’intellettuale in quanto cittadino. Perché «politica» è o dovrebbe essere, per la stessa genealogia della parola, il libero discorso fra cittadini, che abbia per tema gli interessi e il futuro della comunità, della polis.
Nel degrado dei valori e dei comportamenti che appesta il tempo presente, è sempre più urgente che i cittadini si impegnino in una riflessione alta, non macchiata da personali interessi e meditata, sui grandi temi civili del nostro tempo, e li affrontino armati di conoscenze professionali, ma anche animati da un forte senso del bene comune, cuore della nostra Costituzione.
Di fronte alla crisi della politica, oggi anche troppo evidente, è dunque ai cittadini che deve tornare la parola d’iniziativa. Questa è (credo) la grande e precoce lezione di Antonio Tabucchi nei suoi scritti e nelle sue battaglie civili: un intellettuale che non si è mai proposto come un cittadino “speciale”, più savio e più autorevole degli altri. Che, al contrario, ha saputo vigorosamente parlare da cittadino ai cittadini, utilizzando con umiltà e con rigore il suo acume nel giudicare il mondo, le sue straordinarie abilità nel raccontarlo.


Il Sole 24 Ore, 18 agosto 2019

4.9.19

I greci ci hanno lasciato in eredità una sola religione: la letteratura (Antonio Scurati)



L’eroe è una cosa trascinata 
dietro un carro nella polvere
Chi è un eroe? O meglio: che cos’è un eroe?
Un eroe è una cosa trascinata dietro un carro nella polvere.
Così Simone Weil, in piena Seconda Guerra Mondiale, concludeva la sua riflessione sull’Iliade pensata come poema della forza. Nella visione della Weil, anche gli eroi di Omero, anche i formidabili campioni che si batterono per dieci anni contro uomini e dei sulla piana di Ilio, per quanti nemici potessero aver abbattuto con la loro forza indomabile, per quanti ostacoli potessero aver travolto con la loro energia traboccante, un istante dopo esser stati sfiorati da quella stessa forza, da quella medesima energia, divenivano una cosa trascinata dietro un carro nella polvere.
Ed è, perciò, comunque da lì, dall’epica omerica, che si dovrà partire se si vorrà tornare a chiedersi, anche in un’epoca apparentemente post-eroica come la nostra, chi è o che cos’è un eroe?
Questa domanda per me, nella mia oramai piuttosto lunga carriera di uomo e di scrittore, ha sempre coinciso, e coincide ancora, con l’altra domanda fondamentale, quella che ci interroga sull’avvenire dei classici. Che futuro hanno le opere del passato che il passato avrebbe consegnato all’eternità? Esisterà ancora nell’avvenire un «passato che non passa»? «Scrivete per quelli che verranno. Soltanto loro saranno degni di comprendervi, abbastanza forti da vendicarvi». Così urlava nel mezzo dell’Ottocento romantico l’eroe di Foscolo. Lo comprendiamo ancora? Lo vendicheremo? Quella della posterità letteraria è un’idea morta al presente, e al futuro?
Nella nostra supponenza di viventi – provvisoriamente viventi – tendiamo ad attribuirci la facoltà sprezzante di dimenticare, la primogenitura nell’oblio. Ma ci sbagliamo, poveri sciocchi. Se i classici non dovessero avere nessun futuro, non saremmo noi ad aver dimenticato, ma tutto il passato ad averci dimenticati. In altre parole, saremmo soli al mondo. Come orfani. Come gattini ciechi chiusi dentro un sacco destinato alla corrente del fiume.

Che funzione ha l’epica omerica 
nella modernità post-eroica?
Detto in modo ancora più schietto: per come la vedo io, l’avvenire dei classici è essenzialmente legato alla sopravvivenza dell’epica. La narrazione epica è, infatti, canto delle origini sin dall’origine, di un tempo trascorso da sempre, separato da noi da una distanza incolmabile, una distanza non temporale ma di valore, valore assoluto – come ci insegnava Bachtin; la lingua dell’epica è, per questo motivo, l’unica lingua capace di trasformare la cronaca delle nostre vite di poveri morenti in mito.
Per comprendere tutto ciò, dovete seguirmi sugli spalti di Troia, le antiche e imprendibili mura che circondavano la città di Ilio nel XIII secolo avanti Cristo. Siamo, in verità, nel terzo canto dell’Iliade di Omero, siamo nel decimo anno di una guerra interminabile, più vecchia del mondo e non ancora finita.
Siamo, dunque, nel Terzo Canto del poema e il vecchio, saggio Re Priamo, padre spirituale di tutti i Troiani, ha chiamato la bellissima Elena a sedersi accanto a lui sugli spalti delle mura, a prendere posto nel consesso degli anziani patriarchi della città assediata dall’esercito degli Achei. Elena recalcitra. Sa di non essere amata da quei vecchi perché è a causa sua che i loro figli sono morti e moriranno per difendere la città dagli assalitori. È lei, infatti, che ha scatenato la guerra abbandonando il Re greco Menelao per seguire il giovane principe troiano Paride. Ma Elena, pur malvolentieri, accoglie l’invito di Priamo, suo nuovo signore. Soltanto lei, infatti, può soddisfare il desiderio del Re: Priamo vuole che Elena riconosca e nomini i più celebri tra i guerrieri greci che stanno prendendo posizione nello schieramento nemico in fondo alla piana. E soltanto l’ex moglie del Re greco Menelao può farlo. Solo lei, la fedifraga, la bellissima, la dannata, solo lei può avvistare e riconoscere i nemici perché ha vissuto nella loro casa, dormito nei loro letti. Allora Elena, sfidando ogni verosimiglianza ottica, comincia a nominare e a descrivere i campioni achei, riconoscendoli per un dettaglio dell’armatura o della persona.
Fino a questo momento, nell’Iliade non sono ancora state raccontate scene di battaglia. È soltanto ora che la battaglia può avere inizio per i lettori del poema. Soltanto dopo che Omero, per bocca di Elena, ha avvistato, e descritto individualmente, uno dopo l’altro, i più valorosi eroi greci, si può cominciare a uccidere e a morire.
Perché questa tecnica narrativa dell’avvistamento dall’alto delle mura è essenziale alla concezione eroica dell’epica omerica, al punto da dover precedere il racconto delle imprese in battaglia? L’essenza segreta dell’epica antica sta tutta racchiusa nella risposta a questa domanda. E la risposta è che per la cultura antica l’eroismo è, innanzitutto, una qualità della luce: la gloria è un’onda di luce piena che investe l’individuo eroico facendolo splendere agli occhi dei suoi contemporanei e, attraverso il racconto delle sue gesta, trasmesse di generazione in generazione, anche agli occhi dei posteri. Affinché ciò possa accadere, il guerriero a caccia di gloria deve entrare nella zona di piena visibilità, deve guadagnare, si potrebbe dire, il centro della scena. Soltanto lì, sotto l’occhio dei riflettori – diremmo noi oggi – le sue imprese e, soprattutto, la sua morte, l’impresa più gloriosa per un guerriero, potranno distinguersi rispetto a ciò che accade al centro della mischia indistinta, dove si uccide e si muore oscuramente. L’occhio di Elena è l’occhio di Omero, e l’occhio dei riflettori è l’occhio dei posteri.
Ma perché questo sanguinoso desiderio di luce, perché la vita dei fondatori della cultura occidentale culminava nella carneficina? Per capirlo dobbiamo guardare nell’abisso dischiuso sotto i loro piedi, dobbiamo gettare un rapido sguardo alla loro teoria della mortalità. Tutta questa immane costruzione culturale dell’epica poggia sulle fondamenta di una metafisica triste.
Tutto ciò accadeva, infatti, perché gli antichi Greci non concepivano una vita trascendente che attendesse l’individuo dopo la morte. L’unico «al di là» che conoscevano, l’Ade, era pensato come un luogo oscuro e infelice, infelice perché oscuro, dove le ombre di quelli che un tempo erano stati uomini palpitanti di vita, private del corpo che sente, patisce, gioisce, esulta, soffre, sanguina e muore, si aggiravano per l’eternità senza più storia. L’Ade era l’inferno di una cattiva eternità, popolato di ombre prive di storia perché senza luce, e prive di luce perché senza storia.
Per questo motivo, nella visione dei Greci, l’unica autentica immortalità nella quale gli uomini potessero sperare era quella fornita loro dalla gloria imperitura del loro nome, tramandato nei racconti dei posteri. Ma per guadagnarsi fama immortale, per potersi fare polpa di mito, l’uomo mortale doveva distinguere la propria individualità dalle legioni anonime dei suoi simili sprofondati in esistenze ingloriose, negli angoli bui della storia, nei coni d’ombra della memoria. Secondo questa concezione, non esisteva virtù che non si traducesse in comportamenti esteriori perfettamente visibili. L’individuo era tutto nella sua azione e l’azione era sempre, al tempo stesso, un’accettazione e un’insurrezione contro il destino umano. L’antico eroe omerico era l’individuo che, dopo aver abbracciato la consapevolezza di essere atteso da un destino di morte, da un’ineluttabile discesa tra le ombre dell’Ade, si ribellava a quel destino cercando la piena luce della gloria in una morte splendida e memorabile.

Se i classici non hanno futuro 
restiamo soli in questo mondo
Come dire: l’eroe è colui il quale, al pari di ogni altro mortale, sarà trascinato dietro un carro nella polvere come cosa inanimata, e di lì scenderà nella tenebra della morte. Ma, prima di farlo, fosse anche per un solo istante, quell’individuo, a differenza di tutti gli altri, avrebbe brillato. Un istante che sarebbe durato nell’eternità del mito.
Per i Greci l’uomo era brotòs, colui che muore, che sta morendo in ogni istante della sua vita. E allora, se l’unica forma d’immortalità concessa all’uomo è l’immortalità narrativa, perché la leggenda abbia inizio la sua vita deve compiersi. Il mythos è, insomma, l’unico logos appropriato a «colui che muore», l’arte che presiede al racconto di una storia è la sola logica del morente; da ogni altro punto di vista che non sia quello del narratore di una storia, per il quale la fine coincide con l’inizio, l’esistenza umana è insensata. Il canto dell’Aedo è l’unica possibile forma di senso dell’esistenza umana gravata da un destino di morte definitivo. Ciò che noi oggi chiamiamo «letteratura» è, insomma, l’unica religione che i Greci ci abbiano lasciato in eredità. L’unica nostra fede di miscredenti senza fedi trascendenti.

Tuttolibri La Stampa, 27 luglio 2019

3.9.19

La meraviglia dell’amicizia virile (Alessandro Piperno)

Michel Montaigne

Prima o poi può capitare a chiunque di imbattersi nella moglie di un amico in atteggiamenti licenziosi con un altro. Eccola lì – il tavolo più in disparte di un locale fuoriporta – scambiarsi tenerezze con uno sconosciuto! Al primo impulso di andare a salutare, goderti sadicamente il suo imbarazzo – le tempie paonazze, il balbettio di patetiche scuse – ne segue un altro di segno opposto: pagare il conto, filare via furtivi e riflettere sul da farsi.
A me accadde anni fa. Che choc vedere la ragazza di uno dei miei più cari amici – la coppia più affiatata del nostro gruppo – avvinghiata a un tizio in un cinema d’essai. Mi comportai nel modo che ancora oggi giudico il più appropriato. Non dissi niente, tenni quel segreto per me (fino ad ora, almeno). Dopotutto che diritto avevo di intromettermi? Chi mi assicurava di non essermi sbagliato? E qualora ci avessi visto giusto, chi mi diceva che la coppia più affiatata del nostro gruppo non lo fosse proprio in virtù della spregiudicatezza sessuale, un’indulgenza sapiente e reciproca? Del resto, non ho mai giudicato gli adulteri con severità. La monogamia è un oltraggio alla natura così sconsiderato che mai e poi mai mi sarei eletto a censore delle scappatelle altrui.
Ho fatto bene? Chi può dirlo! Se i due oggi sono sposati, hanno un paio di figli e veleggiano verso la maturità con un certo garbo, non lo devono anche un po’ alla mia discrezione? Non so se la signora nel frattempo ha rotto con il suo amante o se l’abbia sostituito, non so se il mio amico è al corrente di questa o altre infedeltà. So che l’amicizia pone dilemmi morali di questo tipo. Se l’amico in questione mi sta leggendo e sospetta che è suo il matrimonio di cui vado cianciando potrebbe giudicare il mio riserbo di allora non meno riprovevole della franchezza odierna (a mezzo stampa, per di più). Potrebbe pensare di essere stato tradito due volte: prima dalla malafede della moglie poi dalla reticenza di uno dei suoi più vecchi amici. La gente non è indulgente né con gli omertosi né con gli ipocriti. Mi chiedo: esiste in certi casi una deontologia comportamentale?
Amicizie virili È difficile spiegare cos’è l’amicizia virile a chi non l’abbia mai vissuta. Per me che ho radicate difficoltà a confrontarmi con l’altro sesso, è un diversivo spensierato, un’oasi alle fruste faccende quotidiane. Le cene, il cazzeggio, la Lazio (allo stadio, in tv, fa lo stesso), le lunghe sedute a Subbuteo o alla PlayStation, il bicchiere della staffa, le diatribe sui massimi sistemi filosofici, le dispute su quel libro che proprio non ti ha convinto e su quello che non riesci a scrivere, i sogni di gloria, le disfide ideologiche, le balle, il pettegolezzo, la maldicenza, le figure di merda, le confessioni più vergognose... Per non dire dei viaggi senza meta, i gesti di benevolenza reciproca, ma anche le prese in giro spietate (cojonella, la chiamiamo a Roma). Tutto questo è impagabile, insostituibile. L’ultimo sorso di adolescenza a disposizione di un adulto. Ho più di un amico che esulta (senza darlo a vedere) quando la moglie va in vacanza come nel famoso film con Marilyn Monroe, e mica perché così potrà darsi alla pazza gioia, ma per dedicare un po’ di tempo agli amici, tornare ragazzo almeno per il weekend. E allora via con il turpiloquio, con la selvatichezza, con la libertà.
Adoro l’ultima scena de L’educazione sentimentale quando Frédéric Moreau e Deslauriers, rinvangando i bei tempi andati, si commuovono su quella volta che andarono al bordello insieme. Frédéric esclama: «È la cosa più bella che ci sia capitata» e Deslauriers non può che convenirne.
Dio sa se li capisco. Mica perché sia un frequentatore di bordelli, ma perché immagino che anche a me tra qualche anno capiterà di rimpiangere il cameratismo, la complicità, i simposi con i pochi amici di una vita.
In un passo famoso di Antropologia pragmatica Kant scrive: «La specie di benessere che sembra meglio accordarsi con l’umanità è un buon pranzo in buona (e, se è possibile, anche varia) compagnia, della quale Chesterfield dice che non deve essere al di sotto del numero delle Grazie, né al di sopra di quello delle Muse». In poche parole, meno di nove e più di tre. E trovo che Chesterfield esageri per eccesso. Il numero perfetto a tavola è quattro, come i Cavalieri dell’Apocalisse.
Solo i misantropi danno valore all’amicizia? Non deve sorprendere che un orso nichilista come Flaubert e un abitudinario incline alla solitudine come Kant tenessero in così alta considerazione amicizie e convivi. Chi se non colui che ha seri problemi a frequentare il prossimo può apprezzare i pochi simili con cui sta bene? Nulla è più raro al mondo che una persona abitualmente sopportabile, pensava Leopardi. E come al solito aveva ragione. Ecco cos’è un amico: un raro esemplare di persona abitualmente sopportabile. Pochi ma buoni, questo è il motto.
Perché era lui; perché ero io Il che spiega perché lo scrittore che meglio ha saputo descrivere l’insostituibilità dell’amicizia, i suoi incanti, l’empatia, è anche colui passato alla storia per la scelta di chiudersi nella sua torre d’avorio, trascurando ogni altra faccenda, a meditare e a scrivere per il resto dei suoi giorni: parlo di Michel Montaigne naturalmente. Il suo amico del cuore si chiamava Étienne de La Boétie e per via della morte prematura di quest’ultimo la loro amicizia durò poco più di un lustro. Montaigne passò i decenni che gli rimanevano da vivere a rimpiangerlo, parlandone sempre con toni più consoni all’amore forse, che all’amicizia, tanto da autorizzare in qualcuno il sospetto di omosessualità. Mai un legame fu più franco, profondo, elettivo. Nel saggio Dell’amicizia, Montaigne scrive infatti: «Se mi si chiede di dire perché l’amavo, sento che questo non si può esprimere che rispondendo: Perché era lui; perché ero io». Conoscete una definizione più efficace e più struggente dell’amore e dell’amicizia? Perché amiamo qualcuno? Perché gli siamo così devoti? Semplice: perché noi siamo noi e loro sono loro. Cos’altro c’è da dire o da spiegare?
In un saggio più tardo, Montaigne, tornando sull’argomento, chiarisce ancora meglio il suo punto di vista. Parlando delle poche cose per cui la vita è degna di essere vissuta (donne, amicizie, libri), confessa di essere un buon conversatore ma di aborrire le amicizie frivole. Le vere grandi amicizie si contano sulle dita di una mano. Sta ancora pensando a La Boétie naturalmente. È per colpa di quell’amico morto da molti anni, quel compagno che lo ha in qualche modo viziato, che Montaigne ha perso interesse per tutti gli altri. Le amicizie, quelle vere e profonde, si basano solo sull’elezione e sull’affinità. Come si vede: solo gli isolati credono davvero nell’amicizia.

Chi aveva ragione tra Montaigne e La Rochefoucauld
Al contrario sono i mondani, gli estroversi, chi conta migliaia di amici su Facebook, chi non si perde un cocktail o una prima al cinema, a non tenere in gran conto l’amicizia, un po’ come i libertini per cui una donna vale l’altra.
E mi viene subito in mente un altro dei Gran Signori delle lettere francesi. Vissuto quasi un secolo dopo Montaigne, il duca di La Rochefoucauld frequentava assiduamente il salotto di Madame de Sablé, circolo parigino tra i più rinomati ed esclusivi nei formidabili anni della Reggenza. Intrecciò amicizie profonde – straordinariamente proficue per la letteratura occidentale – con Madame de La Fayette e Madame de Sévigné. Che trio incredibile! Il duca era bello, ricco, audace, un conversatore strepitoso, divertente e disincantato a un tempo. Oltre alle stupende Memorie gli dobbiamo le famose Massime. Dato il contesto, non ci sorprende che in una di esse scriva: «Per raro che sia il vero amore, è meno raro della vera amicizia». Assai più sorpresa ci suscita questa, altrettanto famosa: «Nelle avversità dei nostri migliori amici noi scopriamo sempre qualcosa che non ci dispiace». La Rochefoucauld mette il dito sulla piaga purulenta dell’amicizia, svela l’oscuro doppiofondo di qualsiasi sodalizio.
Per intenderci, provate a immaginare una telefonata con il vostro più caro amico. Ecco che, dopo il solito cazzeggio, vi annuncia: «Senti, ho una cosa da confessarti». «Tipo?». «Una cosa grossa». «Dai, non tenermi sulle spine». «Hai presente il vincitore della lotteria di Capodanno, quello che non si fa trovare? Il possessore del biglietto da dieci milioni di euro». «Be’, è il tuo benzinaio? La tua colf?». «No, sono io». «Dai, non scherzare». «Parlo seriamente».
Ditemi se non è un’ottima ragione per mettere alla prova la tenuta di una lunga consolidata amicizia. Dovremmo essere contenti per lui, il nostro amico è diventato milionario. Eppure in quel momento lo vorremmo morto. Facciamo di tutto per dissimulare questi impulsi biechi ma è più forte di noi. Siamo sconvolti. Non a caso Oscar Wilde, a suo modo un moralista classico non meno geniale di La Rochefoucauld, diceva: «Ognuno può compatire le sofferenze di un amico, ma è necessaria una natura davvero gentile per simpatizzare con i successi di un amico». Nessuna amicizia è mai davvero limpida. Ecco perché non c’è niente di meglio che parlare male di un amico. Ci piace ammirarlo, ma talvolta ci piace anche disprezzarlo. In fondo è invecchiato peggio di me, ci cogliamo ogni tanto a pensare. E ne proviamo conforto. Ma se muore, o se in qualche altro modo viene meno, lascia una voragine profonda, non un dolore che toglie il fiato, ma una specie di malinconia soffusa e immedicabile.
Insomma, credere o non credere nell’amicizia? Credere o non credere nella sua purezza e onestà? Chi aveva ragione, Montaigne o La Rochefoucauld? A chi dare retta, al solitario o al mondano?

La Lettura – Corriere della sera, 28 gennaio 2018

Brecht. La valigia sempre in mano (Luigi Forte)


Cinquant'anni fa moriva Bertolt Brecht. Per la precisione, il 14 agosto 1956, poco prima di mezzanotte. Nei giorni precedenti aveva dovuto interrompere per un malore le prove del Galilei nel suo prestigioso teatro di Berlino Est, il Berliner Ensemble. Era ormai uno scrittore di fama internazionale, guardato con sospetto a Ovest e osannato a Est. In tempi di guerra fredda gli uni gli rimproveravano il suo caparbio marxismo, mentre gli altri, nel regime di Walter Ulbricht, esaltavano il genio dell'arte socialista.
In realtà il bavarese Brecht, nato ad Augsburg nel 1898, non aveva mai smesso di sentirsi un emigrante, insofferente a qualsiasi forma di rigida ortodossia. In una poesia del 1949 confessò: «Di ritorno da quindici anni d'esilio / son venuto ad abitare in una bella casa,/ (...) Sull'armadio / coi manoscritti c'è ancora sempre/la mia valigia».
Come molti altri, il povero B.B. percorse il difficile cammino dell’esilio portandosi dietro tutte le grandi contraddizioni della storia tedesca del primo Novecento. Negli Anni Venti era stato l'enfant prodige del teatro tedesco, il nuovo drammaturgo di cui tutti parlavano, Non si può pensare alla cultura della Repubblica di Weimar senza L'opera da tre soldi né al declino di quella drammatica esperienza politica senza i song e le ballate brechtiane musicate da Kurt Weill. Tutto ciò appartiene ormai al museo della modernità che riflette fra le luci della ribalta la totale impotenza di una prestigiosa classe intellettuale.
Brecht non ebbe difficoltà a capire che aria tirava: il giorno dopo l'incendio del Reichstag, il 28 febbraio 1933, partì per Praga con la moglie Helene Weigel e il figlio Stefan. Abbandonava la Germania che avrebbe rivisto solo nel 1948, distrutta e sfigurata, per diventare un esiliato: senza patria, senza lingua né identità. Non è un caso che proprio intorno alla straziata icona della Madre Germania ruoti un'ampia riflessione che fa di Brecht, forse proprio grazie alla sua lungimiranza politica, ben oltre i confine nazionali, un «poeta tedesco» a tutto tondo, in una tradizione illuministica che va da Lessing a Marx.
Da Svendborg, Lidingo, Helsinki, «più spesso cambiando Paese che scarpe», egli non smette di scagliarsi contro Hitler e il nazismo con satire, epigrafi, invettive. Di fronte alla lotta si rafforza la sua vocazione pedagogica e il lirico Brecht mobilita il linguaggio, lo condensa in formule che viaggiano attraverso l'etere trasmesse da radio clandestine. E lo piega verso la satira più feroce con testi teatrali come La resistibile ascesa di Arturo Ui e Terrore e miseria del Terzo Reich. Ma, come mostrano anche gli anni del suo esilio americano, i suoi lavori per lo più rimangono nel cassetto. «Insegnare senza allievi/ - recita un suo verso - scrivere senza fama/ è difficile». E non bastano i riconoscimenti che gli giungono da più parti, al suo rientro in Europa, a superare l'esperienza di privazione che fu l'esilio, quella cesura irreversibile, che gli fece dire in una delle liriche più note, A coloro che verranno, che in tempi tanto bui «discorrere d'alberi è quasi un delitto».
Nel dopoguerra il filosofo Adorno gli rimproverò di non aver salvato l'autonomia dell'arte inquinandola con la politica. Certo, schierandosi egli non poté evitare che la parola degenerasse enfaticamente nei toni dell'apologia. Anzi, il poeta vestì i panni del mentore, del vate, perfino del tribuno. Un'esperienza che fa di Brecht uno scrittore molto legato alla sua epoca. I suoi problemi, in gran parte, non sono più i nostri e i pochi decenni che ci separano dalla sua morte sembrano secoli. La fine delle ideologie ha sfocato perfino le sue ambiguità politiche. Non poche negli ultimi anni trascorsi nella ex Rdt, quando cercò invano di conciliare la libertà delle masse socialiste con lo stalinismo del partito. La distanza ha reso caduca una parte delle sue opera, sollecitando, anche a teatro, il recupero delle sue prime pièces, anarcoidi e antiborghesi, come Baal o Nella giungla delle città, in cui egli gioca con la letteratura quasi con vocazione postmoderna.
Del resto già Max Frisch insinuò, a suo tempo, che il Maestro aveva raggiunto l'innocuità di un classico. E Durrenmatt, a metà degli Anni Settanta, rincarò la dose, affermando che Brecht era affascinato dal dogmatismo, tendeva a installarsi in un sistema, senza avvertire i cambiamenti che si andavano preparando, anche per chi continuava a credere nel futuro di una società senza classi.
Col tempo le critiche hanno investito un po' tutto il pianeta Brecht: a cominciare dal suo cinico maschilismo che seppe sfruttare collaboratrici e amanti di grande livello intellettuale come, ad esempio, Elisabeth Hauptmann, Grete Steffin, Ruth Berlau. È pur vero, inoltre, che il suo modo di riflettere sulla condizione umana, specie sulla scena, risulta un po' troppo semplicistico e schematico. Brecht non conosce chiaroscuri, zone d'ombra ed è mosso da eccessivo zelo pedagogico. Ma oggi al suo teatro epico si preferisce, come dimostra l'interesse di Moni Ovadia per Le storie del signor Keuner, il Brecht aneddotico, gnomico, «cinese». Oggi ritorna alla ribalta anche la sua poesia, un immenso, affascinante diario lirico che il Maestro ha proiettato fra le contraddizioni del mondo. L'ha scritta pensando a modelli facilmente fruibili, utilizzando spesso forme del passato, ma con una sensibilità orientata verso la futura società dei mass media. Basti pensare alle Poesie di Svendborg scritte in parte per la radio o al nesso fra testo e immagine nell'Abici della guerra.
Ce qualcosa dunque nel Brecht lirico che resiste al tempo o si modella sul nostro problematico presente. Come l'idea di un nuovo soggetto antropologico, fluido e leggero, ma persistente nel flusso caotico delle metropoli e nei terremoti della storia. È ciò che racconta il Libro di lettura per gli abitanti delle città. Brecht cerca nuovi spazi per un individuo che si confronta con la modernità e con il progresso senza sacrificare l'idea della mutabilità del mondo. Una lezione di dialettica che conserva intatto il suo valore e ben si concilia - nella splendida poesia Il cambio della ruota - con il dubbio e un'urgenza che ha il volto della vecchia utopia. Senza arroganza, ma con il tocco lieve e ironico del saggio che suggeriva: «Non ho bisogno di una lapide senza tomba / ma, se voi ne avete bisogno, / vorrei ci fosse scritto:/ ha fatto proposte. Noi /le abbiamo approvate. / Una simile iscrizione / onorerebbe tutti quanti».

“Tuttolibri La Stampa”, 12 agosto 2006

2.9.19

Victor Hugo. Dai corsivi di Fortebraccio (Mario Melloni


Mario Melloni, che fu con il nome di Fortebraccio corsivista de “l'Unità”, amatissimo dai suoi lettori, soleva inserire nei suoi “pezzi” storie e aneddoti tratti dalle fonti più svariate e raccontati in bello stile. Questo ricorda uno scrittore ottocentesco al tempo molto popolare e caro alle sinistre democratiche e socialiste. (S.L.L.)


Nel 1871, dopo il lungo esilio, Victor Hugo fu eletto deputato. Un giorno egli teneva davanti a un’assemblea attentissima uno dei suoi infiammati discorsi. Ed ecco che dal folto degli uditori si alzò una vocetta stridula a interromperlo. Il grande uomo si fermò, e, secondo l’uso, disse: «Monsieur, nommez-vous», nominatevi, dite chi siete. Ma nessuno raccolse l’invito. 
Allora Victor Hugo riprese a parlare, e ancora, per una seconda e una terza volta, la solita vocetta fessa e anonima si fece sentire, finché l’oratore, perduta la pazienza, ripetè rabbiosamente l’invito a nominarsi. 
Ed ecco che finalmente dal folto dell’uditorio si alzò un nome: «Bourbichon». «Bourbichon? — disse il celeberrimo romanziere stupito. — Bourbichon? Je n’espérait pas tant», io non speravo tanto.

l'Unità, 30 aprile 1982

1.9.19

La nera signora Deledda (Giulio Cattaneo)



Fra i libri di famiglia negli anni Venti e Trenta era difficile che mancasse almeno un romanzo di Grazia Deledda, Canne al vento o L’incendio nell’oliveto. La Deledda era poco più di un nome, non si sapeva niente o quasi della sua vita, al confronto, non diciamo dell'avventuroso D’Annunzio, ma anche di altri scrittori italiani come Fogazzaro o la Serao. Del resto la biografia della Deledda è molto scarna: il dato più rilevante è la pubblicazione di una cinquantina di libri da Nell’azzurro del 1890 alla postuma Cosima.
Nata a Nuoro nel 1871 da famiglia benestante, studiò irregolarmente, poco e male frequentando i classici italiani e formandosi sulle opere di scrittori contemporanei alla moda. A sedici anni cominciò a pubblicare su giornali sardi e poi su riviste «continentali» attirandosi ingiurie e sarcasmi da parte dei suoi conterranei. Dopo il matrimonio, nel 1900 si stabilì a Roma dove morì il 16 agosto del '36. Dieci anni prima aveva vinto il premio Nobel per il quale era in lizza anche la Serao.
Nell’89 era uscito Mastro don Gesualdo del Verga e nel '94 I Viceré di De Roberto: per una esordiente che aveva cominciato a scrivere dall'adolescenza il più naturale riferimento letterario era rappresentato dal verismo o meglio dal romanzo di ambiente regionale, anche se ormai gli stessi narratori veristi cedevano al «misticismo nevrastenico del secolo agonizzante», riflettendolo in opere vagamente spiritualiste, dalla Serao al De Roberto.
Quanto a D'Annunzio, aveva abbandonato da tempo l’Abruzzo primordiale e selvaggio di Terra vergine e delle Novelle di San Pantaleone per tornarvi più tardi, ma dandogli un colore antico e leggendario, con La figlia di Jorio e La fiaccola sotto il moggio che, secondo Cecchi, possono aver
contribuito “all' “impostazione” della Deledda. Ma, sempre secondo Cecchi [… ] «riferimenti culturali e confronti stilistici rischierebbero di riuscire esteriori e forzati». «La sua prediletta frequentazione della Bibbia, di Omero, dei romanzieri russi, del Manzoni e del Verga, stanno nella sua esperienza più come un fatto vissuto che come un fatto letterario».

Come veli di lutto
La Deledda nominava D’Annunzio nei suoi romanzi, accennando al suo «mondo incantato e malefico, una plaga dolce e ardente piena di fiori velenosi e di frutti proibiti». Fanno pensare a D’Annunzio le tre sorelle di Canne al vento (1913), assai più rusticali delle Vergini delle rocce con la scena di donna Noemi che cuce sotto il volo delle rondini. L'evoluzione dell’opera della Deledda è tutta interna e da un romanzo come Elias Portolu (1903), che più si colloca sulla scia della narrativa verista, ma ancora al di sotto della letteratura, si arriva ad una lenta ma sempre più scaltrita conquista della letteratura, evidente nella resa di scorci di paese, di interni, di paesaggi, ancora generici in Elias Portolu, ma più tardi di uno scabro e a volte acceso rilievo pittorico, anche se frammisti ad analogie convenzionali.
Quello che può richiamare il D ' Annunzio della Figlia di Jorio, sia pure a distanza, è un complesso di mitologia sarda, di saga, di «mondo magico» dove il cristianesimo è radicato su un fondo pagano, pervaso di superstizioni e stregonerie, fra scongiuri e atti rituali da poemi omerici come il versare dal bicchiere «le ultime gocce», «poiché la terra vuole la sua parte in tutte le cose che l'uomo consuma». «Egli scuoteva il campanello davanti ad ogni porta per avvertire la gente che cassava il Signore, i cani abbaiavano e il rumore dei telai cessava».
Le storie sono sempre basate sulla tentazione, sul peccato, gli scrupoli e i rimorsi. Il giovane inamorato della fidanzata e poi moglie del fratello che finisce per farsi prete ma senza vera purificazione, il prete travolto dalla passione, la zia attratta dal nipote, la donna ricca dal bandito. Contrasti violenti e malintesi in vicende infantili risolte spesso in modo meccanico con un espediente, un ripiego convenzionale.
Caratteristico della Deledda è il colore cupo, nero dei suoi romanzi, lo sguardo funebre che avvolge figure e luoghi. «Sembrava un bimbo, un bimbo morto», «il corsetto ben ripiegato con le maniche distese e i bottoni d’argento abbandonati uno su l’altro, e la tunica anch'essa ben distesa, coi gheroni riuniti, il nastro rosso in fondo, le danno l'idea di una Marianna morta, distesa entro la bara pronta alla sepoltura», «il paese e le valli e i monti, fatti di marmo dalla neve gelata, più bianchi ancora sotto la luce di un cielo pallido, le parvero un grande cimitero», «i rialzi di terreno coperti di puleggio davan l'idea di cadaveri violacei in decomposizione stesi lungo la strada», le rondini passavano come «croci nere», i capelli neri delle donne erano sciolti «come veli di lutto».
Non mancano i paesaggi sereni, i colori, come dice Cecchi, «di campagne bagnate e soleggiate», ma l'illusione è breve e «al cadere della notte anche su di lei il dolore come l'inverno sulla terra rigettava il suo cappuccio nero». Le passioni, descritte nei primi romanzi con una certa enfasi, finiscono per essere rese con più concisa esattezza. Sorprende sempre la ricchezza delle immagini dove a volte si traduce l'intensità di una emozione più che in analisi prolisse: «la serva di zio Remundu, immobile, gialla e ieratica sullo sfondo nero della porta», le donne «alte, sottili, fasciate di orbace coi grembiuli ricamati di geroglifici gialli e verdi e i cappucci di scarlatto, e pareva venissero da lontano, dall'antico Egitto». [...]
Mancava alla Deledda il senso del comico e questo risulta anche più dalle novelle di Chiaroscuro (1912) dove è qualche spunto buffo, ma senza capacità di divertire. I racconti sono in gran parte scadenti con l'eccezione della Festa del Cristo e pochissimi altri. Da una scrittura dozzinale, anche in Elias Portolu, la Deledda arrivò ad uno stile, nei momenti migliori, sfumato e «cangiante», sia pure fra imperfezioni e impurità. La sua opera non è comunque un frutto in ritardo sull'albero spoglio del verismo, ma appartiene decisamente al Novecento nella tendenza all'introspezione e ad una prosa liricheggiante e di impressioni immediate. Anche se uscì dalla allucinata e mortuaria Sardegna, l’autrice tornò alla narrativa di ambiente regionale come in Annalena Bilsini (1927) che si svolge in un luogo della Valpadana raccontando storie di tentazione e di peccato non più irrimediabili e mescolate a vicende fortunate. Con Annalena Bilsini si entra nell’era fascista e lo si mette in evidenza con due richiami favorevoli a Mussolini.

Realtà fiabesca
La Deledda si era formata fra adolescenza e giovinezza sui romanzi di appendice, alternando «rosei bozzetti» a truculenze da melodramma, aveva sfiorato le esperienze più disparate, la rappresentazione di impianto realistico, ma senza vero interesse sociale, i tremori dell'irrequieto spiritualismo fino alla narrazione fitta di simboli, con involuzioni e recuperi. I suoi romanzi degli anni Venti sono chiaramente contemporanei di quelli di Tozzi anche se privi di elementi comuni: segno che la scrittrice aveva camminato col nuovo secolo. Uno dei suoi cartteri più appariscenti è la disposizione a raccontare favole vestendo la realtà di apparenze fiabesche: «e sulle querce nere le foglie gialle scintillavano come monete d'oro».

“la Repubblica”, 14 agosto 1986

31.8.19

Un compagno. Per Camilleri, intellettuale militante (Romano Luperini)



Quando viene meno una persona che ha lasciato una traccia profonda nella nostra vita, la mente corre sempre al primo incontro, quasi esso già contenga in nuce il rapporto successivo e la ragione di quella traccia.
Ho conosciuto Camilleri una dozzina di anni fa. In occasione non ricordo di quale importante ricorrenza dell’Università di Siena, dove insegnavo, il rettore aveva invitato me e un altro collega a una sorta di intervista in pubblico allo scrittore, cui egli si sarebbe sottoposto dopo aver fatto una breve introduzione. La sala era stracolma di studenti e di docenti che ridevano e applaudivano, elettrizzati dall’umorismo polemico di Camilleri, che parlò non da scrittore ma da intellettuale e da militante, soffermandosi con una ironia elegante, eppure per niente spocchiosa, sulla situazione politica allora egemonizzata da Berlusconi. Quando venne il proprio turno, il collega gli fece domande di carattere stilistico e sull’uso del dialetto siciliano, che poco avevano a che fare col contenuto politico della sua introduzione. Mi colpì che si rivolgesse a lui in modo cerimonioso, chiamandolo “maestro” e dandogli del lei. Poi toccò a me, e mi venne invece spontaneo dargli del tu e porgli domande di carattere politico. Camilleri mi rispose subito con un piglio assai più animato e vivace, dandomi a sua volta del tu. In un certo senso ci eravamo riconosciuti (sto per usare, lo so, una parola fuori corso) come compagni. Poi a cena volle sedere accanto a me e mi invitò a casa sua, a Roma, in via Asiago, vicino a una sede della RAI (quella del terzo programma, mi pare). Lo andai a trovare, conobbi la moglie e la segretaria, personaggio importante e decisivo anche per la sua vita di scrittore. Una volta gli portai il mio primo romanzo, L’età estrema, ancora inedito e lui volle pubblicarlo da Sellerio. Un’altra lo invitai a collaborare a un mio manuale, trascrivendo in italiano moderno e magari anche in siciliano un paio di novelle di Boccaccio, fra cui quella di Andreuccio da Perugia: cosa che fece con entusiasmo e senza alcun compenso. Ma per la scuola collaborò con me anche in altri modi: ebbi occasione, per esempio, di farlo partecipare a un dibattito a Roma alla fine di un seminario con gli insegnanti, e anche questa volta accettò con entusiasmo.
Perché questi dettagli autobiografici? Per una testimonianza anzitutto, ma poi anche perché tutti oggi parlano dell’autore di Montalbano, del brillante intrattenitore, sempre in testa alla lista dei best seller, ma nessuno dei suoi romanzi storici artisticamente e politicamente assai più impegnati (ricordo, soprattutto, Il re di Girgenti, in cui forte è l’influenza di Pirandello, di De Roberto e di Sciascia) e nessuno, ma proprio nessuno, del suo contributo alla politica, al mondo della scuola, alla causa degli immigrati, come militante non di un partito, ma di una sinistra intesa come possibilità di impegno e prospettiva ideale.
Camilleri non è stato solo un brillante intrattenitore, capace, grazie alle sue straordinarie doti inventive (nel linguaggio, ricco, vario, infiltrato sempre da una vena dialettale, e nelle trame delle sue storie, ricche di imprevisti), di catturare con abilità l’attenzione di ogni lettore: è stato anche un fine letterato, degno erede di una grande tradizione siciliana, e un intellettuale militante. Ha compiuto il prodigio di essere nel contempo uno scrittore autenticamente popolare, un artista vero e l’ultimo intellettuale, capace di parlare non solo di letteratura, ma del mondo, l’unico sopravvissuto dopo la morte di Sciascia e di Pasolini. E una cosa purtroppo è certa: con lui muore una possibilità di essere scrittori e intellettuali insieme, con lui il Novecento è davvero finito.

Dal sito “La letteratura e noi”, 18 Luglio 2019

27.8.19

L'Artusi messo in versi. Insalata di patate (Alberto Capatti per Alfagola)



Il gioco è da letterati pseudocucinieri. Prendere una ricetta, dimostrarne la reversibilità mettendola in versi. La n° 444 de La scienza in cucina di Pellegrino Artusi fornisce una lista di parole e una sequenza, resta da ingabbiarle in otto o nove sillabe a riga. Il risultato, mettetelo alla prova leggendo e cucinando, con un avvertimento, a scanso di equivoci: capperi, peperoni, cetriolini, cipolline erano sottaceti, e avete libertà di acquisirli tali, e di astenervi dal condir con altro aceto. Le dosi, immaginatele.

Le patate van lessate
oppure cotte col vapore
e tutte belle e sbucciate,
tagliatele ed ogni fettina
finisce nella terrina.
Se poi le vuoi condire
usa capperi a non finire
peperoni e cipollini,
sottaceti e cetriolini,
acciughe e sedano usuale.
Trita ora il tutto a prova
e non ti scordare due uova
sode, olio, aceto e il sale.
Alle patate in insalata
origano e prezzemolo
dan flagranza assai garbata.

Alfabeta 2 – luglio 2019

26.8.19

Raffaele La Capria sul sentimento dell’amicizia

Raffaele La Capria

La parola amicizia e il sentimento dell’amicizia sono due cose differenti. Io credo che il sentimento sia importante quanto l’amore ma dell’amore si parla fin troppo, dell’amicizia si parla molto meno. Anche perché è difficile parlarne, perché l’amicizia è un sentimento delicato ed esigente, che richiede affinità elettiva ed affetto, ed un’intesa di fondo forte come quella di due alpinisti legati ad una stessa corda.
Poi è difficile parlare di amicizia nei Paesi mediterranei perché nei Paesi mediterranei la parola e il sentimento disinteressato che dovrebbe accompagnarla si presentano in forme ambigue, direi «storicamente» distorte, e quando si dice di qualcuno che è un amico spesso si allude a una complicità che nulla ha a che fare con l’amicizia, quella vera. L’Italia, si sa, è il Paese della raccomandazione, la raccomandazione è la chiave che apre tante porte, e la raccomandazione si serve appunto dell’amicizia. Come si farebbe a raccomandare qualcuno se non si potesse contare sull’amicizia di qualcuno? Tutto il sistema clientelare non è fondato sull’amico, sull’amico dell’amico, e così via, come la catena di sant’Antonio? E la burocrazia non è la figlia legittima di questo sistema, l’apparato di cui si serve? Parlare della parola amicizia ci porta lontano, fin nel territorio della criminalità e della mafia.
Altra cosa, come dicevo, è parlare del sentimento dell’amicizia, che è molto raro, e chi lo ha provato sa che può essere determinante e orientare il corso di una vita. È difficile parlarne, e ora io ne parlo, parlo dei miei amici, dei primi incontri con loro, dei libri letti insieme, nella stessa stanza, per poi scambiarci a caldo i commenti: di Billy Budd, gabbiere di parrocchetto, e il capitano Vere, di Benito Cereno e il capitano Delano, del negro Babo capo dei rivoltosi – furono l’avventura e la fantasia nelle pagine di Herman Melville i luoghi più frequentati, quelli incantati dove nacque la nostra amicizia. E poi il Bildungsroman, un romanzo di formazione, fu lo stare insieme per gli anni che seguirono, tanti, fino ai novanta e più: Franco, Peppino, e Antonio, inseparabili e diversi, ognuno con la sua autonomia, ognuno seguendo la sua strada, Franco il cinema, Peppino il teatro, Antonio la storia e l’epica dello sport.
Ma che cosa fu che ci mantenne vicini per tanti anni, uno sempre in vista dell’altro, a volte insieme per scrivere un film, cosa fu se non quel sentimento raro di cui appunto è difficile parlare, quel piacere intellettuale di scambiare idee pensieri e fantasie, quella «cosa» che chiamiamo amicizia? Non ferma, ma sempre in moto per seguire la nostra naturale mutevolezza, le scoperte, gli amori, i contrasti, i successi, i nuovi libri e le nuove idee.
Sono tutti morti i miei amici, Antonio Ghirelli, Peppino Patroni Griffi, Franco Rosi. Senza di loro non sarei quello che sono.
Mi piacerebbe ricordarli in un libro con un titolo tratto da una terzina dantesca, quella famosa che fa: «Era già l’ora che volge il disio/ ai naviganti e intenerisce il core/ lo dì c’han detto ai dolci amici addio».
Lo intitolerò Ai dolci amici addio, e sarà quello il mio addio. «Dolci», un aggettivo sorprendente che il duro Dante dedica loro. E anche per me più che «cari», essi furono «dolci». Che vuol dire il punto più sensibile del sentimento dell’amicizia.

Corriere della Sera, 25 gennaio 2016

20.8.19

Il signor K. e la natura (Bertolt Brecht)


Chiestogli del suo rapporto con la natura il signor K. disse: «Tavolta uscendo di casa mi piacerebbe vedere un po’ d’alberi. Soprattutto perché grazie al loro cambiamento d’aspetto col variare della giornata e delle stagioni, raggiungono un grado così particolare di realtà. E poi col passare del tempo siamo sempre più sconcertati di vedere nelle città soltanto oggetti d'uso, case e strade, che se non fossero abitate sarebbero vuote, se non fossero utilizzate sarebbero senza senso. Il nostro singolare ordinamento sociale ci fa contare persino gli uomini fra tali oggetti d’uso, e allora gli alberi hanno almeno per me che non sono un falegname, qualcosa di confortante nella loro indipendenza, che prescinde da me, e io spero anzi che essi, anche per i falegnami, abbiano in sé qualcosa che non possa venir utilizzato».

Bertolt Brecht, Storie da calendario, Einaudi 1972

Quel Don Rodrigo, che debole amatore! Manzoni e il Don Giovanni di Mozart-Da Ponte (Alberto Arbasino)

Don Rodrigo. Bozza di Francesco Gorim
per "I Promessi Sposi" (edizione 18409

Come codetta alle insaziabili celebrazioni di Don Lisander, e anche di Amadeus, vorrei ancora ripescare certi raffronti manzo-mozartiani già sviluppati nelle ingiallite pagine di Certi romanzi (Einaudi, 1977). Nei confronti di Don Giovanni, infatti, quale perversa tecnica di "abbassamento" e "degradazione" viene perpetrata dall'infernale Manzoni con la messa a punto dei comportamenti e delle motivazioni e delle inibizioni di Don Rodrigo.
Si sa, intanto, che da Maraon a Macchia si possono consultare divagazioni finissime, sul "tormentone" del capriccio carnale vero o presunto del "Don" nei confronti della forosetta promessa sposa al villano. ("Troppo mi premono, queste contadinotte!", nel libretto del Da Ponte. "Le voglio divertir finchè vien notte!"). Ma a parità di spagnolismo padronale, di barocco rivisitato, di eros autentico o putativo, le strategie villerecce di Don Rodrigo sembrano platealmente rozze, rispetto al "savoir faire" sfoggiato da Don Giovanni. Secondo il famoso Catalogo, le esperienze di costui sono incomparabilmente più abbondanti. (Solo in Italia, "seicento e quaranta"). Di Don Rodrigo, invece, si sa solo che dopo l'arrabbiatura provocatagli da Padre Cristoforo, se ne va - a piedi, cose da vergognarsi - verso Lecco, "in una casa, dove andava, per il solito, molta gente". (Poco "exclusive", quindi). Sospensioni e censure che lasciano intuire sfoghi abituali e a buon mercato: come quando l'Innominato, dopo aver lasciato Lucia, "fatta una consueta visita a certi posti del castello... s' era andato a cacciare in camera". Certi posti... si dice così quando si vuol titillare un' immaginazione lubrica. Se fosse andato a verificar la chiusura del portone o a dar da mangiare ai cani, Don Lisander poteva dircelo.
Al contrario dell'ottuso e obliquo Don Rodrigo, il mondano estroverso Don Giovanni ha capito tutto, e usa mezzi semplici, diretti, spontanei. "Oh, caro il mio Masetto! Cara la mia Zerlina! V'esibisco la mia protezione!". Altro che far passare la libido attraverso la Chiesa, offrendo la protezione tramite il frate, e mandando i bravi dal parroco, dunque prenotandosi un esito derisorio... Questo non è rococò: è conoscenza dei meccanismi eterni dell'animo umano. Macchè bravi: simpatia! Macchè minacce: carineria! Macchè "prima di domani, quella Lucia deve trovarsi in questo palazzo!" (cioè, voler fare il Sade a Lecco, senza averne la fantasia nè i mezzi, uno che va a Lecco a piedi...). Invece, Don Giovanni a Leporello: "Presto, va con costor: nel mio palazzo, conducili sul fatto! Ordina che abbiano cioccolata, caffè, vini, prosciutti!" (Don Giovanni dispone anche di subordinati più svegli. Basta paragonare a Leporello - "voglio fare il gentiluomo!" - quel povero Griso: che barbone, che Tecoppa, che ladro di galline). Non per nulla, di fronte a un'esuberanza così "alla mano", e a un rinfresco dal menu così stravagante, altro non rimane a Masetto che ritirarsi, senza nemmeno gli scatti di Elvino contro il Conte Rodolfo nella Sonnambula. "Ho capito, signor sì! Chino il capo e me ne vo! Giacché a voi piace così, altre repliche non fo". E Zerlina, da parte sua: "Va, non temere, nelle mani son io d'un cavaliere!".
Che differenza non solo di chic, fra i due Don, ma di accortezza. Don Rodrigo cerca di trattenere Lucia con chiacchiere non punto belle, e viene punito in questa sua rustica grossolanità: povero untorello, non ottiene nulla di nulla. Don Giovanni, invece: "Là ci darem la mano, là mi dirai di sì..." - e senza l'importuno arrivo di Donna Elvira otterrebbe sicuramente tutto, grazie alle astute maniere non disgiunte dalla signorilità del tratto. Infatti Zerlina ci sta e ci spera ("Vorrei e non vorrei, mi trema un poco il cor, felice è ver sarei, ma può burlarmi ancor"); e la didascalia del Da Ponte precisa: "si incamminano abbracciati verso il casino". E subito, macché pasto trucibaldo in "covili da fiere" tra "omacci tarchiati e arcigni" e "donne con certe facce maschie, e con certe braccia nerborute" (vignette di lesbismo alpinistico da maso chiuso, degne di un fisiologo positivista). Chez Don Giovanni, invece, champagne: "Finchè han del vino - calda la testa - una gran festa - fa preparar!". E giù orchestrine, danze, "signore maschere", galanteria.
Ora, la simmetria fra queste due situazioni appare tanto vistosa, e le soluzioni profferte da Amadeus e da Don Lisander sembrano così difformi, da suggerire di riprendere un'illuminante intuizione di Vittore Branca sulla perfida contestazione interna congegnata dal Manzoni ai danni delle più rispettabili convenzioni letterarie del suo tempo. Tipico esempio, quella campagna miserabile e devastata, dove lottano per la sopravvivenza creature disperate e fameliche, come spaventevole rinfaccio espressionistico alla linda gaiezza della Natura secondo l'Arcadia e il Parini. Dunque, un'operazione analoga alle invettive contro la Natura cannibalesca nei film americani di confutazione anti-ecologica con Burt Reynolds... E proprio da parte di un autore ben capace di eleganze settecentesche, tanto vero che "Addio monti sorgenti dall'acque", decasillabo fra i più prelibati, suona come un attacco di cabaletta ben degno di "Madamina il catalogo è questo"...
Forse Don Lisander si proponeva un analogo ribaltamento antisettecentesco del Don Giovanni, deteriorandone il "mito" attraverso Don Rodrigo e i suoi falsi passi, così argutamente calcolati, come per ironizzare nel foyer del Melodramma ai danni di un fantasma già tarlato di dominazione erotico-feudale già dèmodée? (E forse non a caso, la battuta inaugurale dei bravi che lo rappresentano contiene già due "segnali" abbastanza significativi, un lapsus linguistico coincidente con una gaffe psicologica. A un orecchio lombardo, infatti, un divieto così toscano come "non s'ha da fare" suonerà sempre esotico e minatorio quale un "verboten" alemanno d'occupazione; tanto che la sola risposta coerente potrebbe suonare un "ovvìa, le son bischerate" da parte di Don Abbondio. E poi, almeno da Adamo ed Eva, si sa pure che una proibizione sobilla principalmente trasgressione, disubbidienza, quindi "messa in moto di una trama". Altrimenti, che senso avrebbe come "funzione" narrativa o drammaturgica?).
Forse Don Rodrigo appartiene alla casistica del "libertino che non vuole affatto concludere"? Don Lisander ci sottopone il suo "caso clinico": fino a che punto è credibile uno sconsiderato che desiderando (si dice) una povera fanciulla, invece di rivolgersi immediatamente e non dilettantescamente a lei o alla sua mamma, con fiori e gioielli e panettoni e marrons glacès - e non potendo fare il Divin Marchese, perché Lecco è Lecco - manda i gorilla dal prete? É la tattica più sicura per non ottenere nulla di nulla: come se Bismarck, desiderando annettersi territori belgi, iniziasse delle tortuose intimidazioni sul Vaticano. E non c'è bisogno di rifarsi ai padri della psicanalisi per intendere che in tali casi c'è sotto sotto più o meno confessato un desiderio che l'evento non si compia. Oppure, visto il suo comportamento contorto, Don Rodrigo era un masochista fra i più sventurati, e desiderava costantemente una punizione? Se infatti si riscontra di quali inesauribili provviste di tedio possa disporre Lucia, solo minimamente provocata (basta vedere come annienta l'Innominato, con poche zaffate di fastidiosità bene assestata), si comprenderà agevolmente come Don Rodrigo non appartenga tanto all'infelice categoria del "picchiami, picchiami, fammi male", bensì a quella non meno frequente dell'"annoiami, annoiami, rompimi ancora di più!". Tale casistica ci è stata a lungo resa familiare dai film di Alienazione presieduti dal mito contemporaneo di Miss Broncio; ma anche nella quotidianità non sembra troppo raro l'uomo prepotente con tutti che ricerca per le proprie gratificazioni emotive (e fra lo sbigottimento di molti) solo creature di eccezionale monotonia e petulanza. E non si osa neppure immaginare l'uggiosità madornale che avrebbe sopraffatto - e probabilmente soddisfatto - l'infelice Don Rodrigo, una volta alle prese in tte-à-tte e full time con Lucia munita del suo infallibile spray di noia. O forse Don Rodrigo poteva soffrire di qualche difficoltà nelle funzioni maschili, ma in forma enigmatica, come in Armance di Stendhal? E allora, per fare il Don Giovanni con quei mediocri amici e "salvare la faccia" col Conte Attilio, avrebbe soprattutto cercato di mandare a monte con diversi espedienti dilatori le avventure astratte che minacciavano un esito favorevole, e dunque chissà quali imbarazzi alle prese con una pia ma forse carnale fanciulla? (È un caso tutt' altro che insolito: basta andare a qualche festa, per raccogliere una quantità di sfoghi di sventurate che danzano con dei Don Rodrighi tremendi per tutta la sera, e poi al momento buono se li vedono scappar via coi pretesti più sciocchi. C'è tutta una saggistica stagionata, in proposito, su Don Giovanni).
Ma il lettore, per volere dell'Autore, la sa più lunga di Don Rodrigo. Sa infatti che Lucia rappresenta "l'Italia delle bustarelle". Quando infatti propone alla Vergine Santissima un famoso baratto - "rinunziare per sempre a quel poverino" pur di "tornar salva con mia madre" - essa si uniforma a quel costume di do ut des frequente negli stessi paesi mediterranei dove vige la mazzetta nei ministeri, la mancia al postino, il regalo alla professoressa, e in genere la convinzione che il funzionario è ingordo e il potente va placato e il professionista va ingraziato con doni, preferibilmente in contanti o in commestibili: tant'è vero che Renzo porta i capponi al dottor Azzecca-garbugli. Lucia non sospetta nemmeno che in altri climi un buon cattolico non si sognerebbe mai di offendere Gesù o la Madonna e neanche un santino minore (così come non si dà la mancia a una padrona di casa) con offerte di gioielli o assegni o bigiotteria in cambio di un favore immediato e concreto: solo preghiere ben fatte e onestà d'intenzioni. Dunque non sente la sconvenienza di trattare la Vergine come una fattucchiera, con transazioni di natura vaginale. Ecco le ambiguità di un rovesciamento del Don Giovanni dove il "plot" viene messo in moto da una falsa pulsione fondamentale, la cupidigia sessuale attribuita a Don Rodrigo, ma presto svaporata in puntiglio o ripicca nobiliare, tanto che a metà romanzo bisogna ricaricarla ricorrendo agli spasimi di un mezzosoprano sopraggiunto, la Monaca di Monza. (Ma la "sexiness", "uno non se la può dare": e anche Renzo ha tanto potenziale erotico come un tenore del Don Pasquale o dell' Elisir d'amore).
Ma siccome la motivazione generale di Don Lisander è la religiosità e non la sensualità, eccolo scostarsi da Amadeus e approssimarsi a Giuseppe Verdi. Don Giovanni viene infatti sempre più svuotato man mano che si spiazza Don Rodrigo, secondo l'ipotesi per cui l'empio libertino vuol trarre soddisfazione dal maltrattamento di una pia fanciulla non in quanto "oggetto sessuale" ma appunto perché pia. In questo caso, però, l'avrebbe molestata più direttamente, la fanciulla perseguitata: come insegnano innumerevoli Vite delle Sante rappresentate dalle filodrammatiche religiose e da Paolo Poli. Lì il Maligno se la prende pesantemente con la piccola devota, che infatti gli replica "Vade retro Satana". Mai, invece, un malvagio autentico intavola artifici ritardanti con personaggi marginali rispetto alla vicenda primaria. Vengono invece in primo piano, per Don Lisander, i bassi quasi protagonisti, come nel Don Carlo verdiano: vecchi ecclesiastici o cattivi, come il Cardinale e l'Innominato, con grinta e piglio e carisma, inoltre spalleggiati da due fantasmi importantissimi come il Passato e il Potere.

la Repubblica, 19 marzo 1985

10.8.19

Pablo Neruda: Soneto XCIV (da “Cien sonetos de amor”). Con il commento di Antonio Skármeta

Pablo Neruda con l'ultima moglie matilde Urrutia

Se muoio sopravvivimi con tanta forza pura
da svegliare la furia del pallido e del freddo,
da sud a sud alza i tuoi occhi indelebili,
da sole a sole suoni la tua bocca di chitarra.

Non voglio che vacillino il tuo riso e i tuoi passi,
non voglio che muoia la mia eredità d'allegria,
non bussare al mio petto, non ci sono.
Vivi nella mia assenza come in una casa.

È una casa così grande l'assenza
che ci entrerai attraversando i muri
e appenderai i quadri nell’aria.

È una casa così trasparente l'assenza
che io senza vita ti vedrò vivere
e se soffri, amore mio, io morirò di nuovo. 

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Si muero sobrevíveme con tanta fuerza pura
que despiertes la furia del pálido y del frío,
de sur a sur levanta tus ojos indelebles,
de sol a sol que suene tu boca de guitarra.

No quiero que vacilen tu risa ni tus pasos,
no quiero que se muera mi herencia de alegría,
no llames a mi pecho, estoy ausente.
Vive en mi ausencia como en una casa.

Es una casa tan grande la ausencia
que pasarás en ella a través de los muros
y colgarás los cuadros en el aire.

Es una casa tan transparente la ausencia
que yo sin vida te veré vivir
y si sufres, mi amor, me moriré otra vez.

dal sito “Poesia en español” ( https://www.poesi.as/ ) - Trad. S.L.L.

Arriva la gioia (Antonio Skármeta)
Matilde Urrutia con Pablo Neruda
Benché quasi tutte le poesie di Cento sonetti d’amore siano gioielli delicati offerti alla riflessione, alla biografia e alla celebrazione di Matilde, la forma elegante del sonetto si rivela molto adatta al tono di questo amore maturo che in precedenza aveva giocato con il fuoco vivo nei Versi del Capitano.
Pablo e Matilde sono adesso padroni assoluti del loro destino e il libro traccia una sorta di bilancio. Senza omettere i momenti amari che la coppia ha vissuto, il passato si giustifica attraverso l’amore che è stato inevitabile, e il poeta argomenta la propria difesa dalle aggressioni proclamandosi un uomo buono («Io ripagai la viltà con colombe»), ben disposto, ispirato dalla visione effusiva di un amore che si farà in altre bocche bacio e materia, il poeta affronta un futuro che, per quanto si prefiguri glorioso, dovrà ormai fare i conti con la morte.
Neruda vede in Matilde non solo colei che gli sopravvivrà e porterà avanti l’amore in completa solitudine, ma anche la donna che deve perpetuare l’universo. Se si presagisce la morte, è ora di fare testamento: per questo i Cento sonetti d’amore assumono una grande importanza, perché è il poeta in persona che seleziona i beni da lasciare, che sono, in sostanza, i suoi sentimenti e la sua lotta. […]
Se tutti i sonetti sono belli, in questa mia antologia personale scelgo il XCIV perché lo sentii recitare da Matilde in un momento di particolare intensità. Era il 1983, e la repressione di Pinochet era ancora in atto. Non c’era tregua per il movimento democratico, che avanzava a passi da gigante.
Dovevamo commemorare i dieci anni dalla scomparsa del poeta e volevamo farlo con una manifestazione di massa. Il suo nome era un vessillo comune per molte persone che potevano anche pensarla diversamente ma che si ritrovavano unite come un sol corpo e una sola anima contro la dittatura.
Non si potè evitare l’evento «culturale», che si celebrò al Caupolicàn, un enorme stadio circolare che si riempì dei polmoni di migliaia di partecipanti, i quali, malgrado fosse stata imposta una certa cautela perché l’omaggio potesse svolgersi sino alla fine, non smisero un attimo di gridare all’unisono «assassini, assassini!» agli scagnozzi di Pinochet.
L’ultima a prendere la parola fu Matilde che, nell’atteggiamento fiero della vedova, con naturalezza, interpretò come un testamento di lotta le parole che il sonetto XCIV le aveva lasciato. Disse: «Io sono stata e sono la compagna di Pablo». E dopo una breve introduzione andò al nocciolo del suo discorso:
Se muoio sopravvivimi con tanta forza pura
da svegliare la furia del pallido e del freddo...
E il climax del finale mise la gente, mortificata da una dittatura che pensava invincibile, nello stato d’animo che nel 1988 portò i democratici cileni a sconfiggere Pinochet con una campagna né cupa né lacrimosa, ma libera da rancori e di buon auspicio per il futuro: «Lui amava la gioia. Per questo, io non ho nessuna intenzione di chiedere, adesso, un minuto di silenzio per ricordarlo. No! Vi chiederò piuttosto un minuto di gioia, di baccano e di applausi fragorosi!»
Il momento è documentato in un vibrante filmato del regista Carlos Flores, e ogni volta che lo vedo mi commuovo come allora.
Molte persone, non solo i cinici e gli scettici, affermano che la poesia non serve a niente, e io, umilmente, cerco di correggerle dicendo che la poesia non serve «quasi» a niente.
La miglior dimostrazione? Il 5 ottobre 1988, contro tutti i pronostici che davano il dittatore Pinochet come vincitore del plebiscito destinato a proclamarlo presidente del Cile a vita, la maggioranza della gente votò contro di lui e lo estromise dal governo.
L’intensa campagna elettorale che aveva portato a questo trionfo aveva uno slogan: Cile, arriva la gioia. 

In La magia in azione, Guanda 2006 

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