Raccontava che la sua tragedia, e insieme il suo capolavoro, si consumarono dal Don al fronte occidentale, dove arrivò senza perdere nessuno dei suoi soldati Lo scrittore è morto l'altro ieri a Asiago dopo essersi dedicato alla riflessione etica sulla relazione con l'altro, amico o nemico. Tra i suoi libri che resteranno, il Sergente nella neve e Arboreto salvatico
La fama del libro di esordio, Il sergente nella neve, pubblicato da Einaudi nel 1953, ha in parte oscurato l'opera di Mario Rigoni Stern e soprattutto ne ha condizionato la ricezione nella prospettiva in campo lungo della memorialistica di guerra. La disfatta di Russia, vissuta appunto dal sergente del VI battaglione degli Alpini «Vestone», ha lasciato nella sua scrittura un segno ancora più profondo di ciò che egli considerava la tragedia e, insieme, l'autentico capolavoro della propria esistenza: l'essere riuscito a raggiungere il fronte occidentale, partendo dal Don, senza perdere neppure uno dei settante uomini di cui era a capo. Quel segno sta nel colore bianco che domina le immagini e che avvicina il paesaggio sterminato delle pianure russe all'altopiano di casa, quello di Asiago, a sua volta teatro di una guerra che nei libri di Rigoni Stern sembra non avere mai avuto fine.
Non c'è forse scrittore italiano nel quale il paesaggio occupi un posto tanto significativo e si dispieghi con tanta ampiezza, toccando gli estremi del dettaglio e dell'orizzonte più vasto, dalla singola foglia d'albero alla visione della volta stellata. Il paesaggio di Rigoni Stern non appartiene a una nazione, non è diviso da confini, non conosce la parola «straniero». È un personaggio che sovrasta la scena della storia e che assiste immobile, ma non imperturbabile, alle catastrofi del XX secolo. Ne esce ferito, dilaniato, malato, ma nella sua rovina riesce anche a imporsi come lo sfondo autentico della vita, di un'altra storia fatta di tempi lunghi e di lavoro, di fatica quotidiana e di amore, lontana dalla guerra come può esserlo dalla ferocia di ogni violenza nel cambiamento.
A volte si potrebbe essere indotti alla confusione. Poiché racconta storie non solo della guerra vissuta, la seconda, ma anche di quella che si era svolta sul suo altipiano, la prima, si può essere tentati di pensarlo come un tardivo esempio di quella letteratura alpina che, a partire dagli anni Venti, ha esaltato le virtù del soldato-contadino, anzi montanaro, legato alle proprie radici e proprio perciò diverso dalla figura del soldato-operaio, la cui alienazione è stata vista come il prodotto della trasformazione che rese i combattenti della Grande Guerra tanto diversi dagli epici cavalieri del passato.
Storia di Tönle, del 1978, L'anno della vittoria, del 1985, e la raccolta di racconti brevi Tra due guerre, del 2000, mostrano però quanto Rigoni Stern fosse lontano da questa tentazione arcaicista, populista, sulla quale fece leva il tentativo di salvare il senso della guerra vittoriosa. Come un moderno Grimmelshausen, Rigoni Stern sembra raccontare una lunga Guerra dei Trent'anni senza nulla concedere ai miti moderni fabbricati in serie, come quelli che inneggiano all'originarietà della cultura contadina e al radicamento delle identità locali. Il mito è un elemento essenziale della sua scrittura, ma si colloca in un livello più profondo e proprio perciò più vero. È un mito della terra e della natura, ma è anche il fondamento di una forma di cosmopolitismo alternativa, in qualche modo, a quella che deriva dalla tradizione illuminista: tanto quest'ultima faceva perno sulla cultura delle popolazioni urbane e su una nuova nozione di «pubblico», quanto quella di Rigoni Stern parte dall'osservazione della natura e dal sentimento di fratellanza che si coglie di fronte all'esperienza estrema del morire insieme. Più che una memorialistica di guerra, quella di Rigoni Stern è una riflessione etica sulla relazione con l'altro, non importa se amico o nemico, compaesano o straniero, uomo in carne e ossa o fronda d'albero pur sempre piena di vita e di spirito.
Volendo scegliere «il» libro di Rigoni Stern, ci si dovrebbe forse orientare non sul Sergente nella neve, ma su Arboreto salvatico, del 1991. A prima vista il meno narrativo dei suoi scritti, meno di Uomini, boschi e api, del 1980, meno anche di Il libro degli animali, del 1990, che pure potrebbe esserne considerato il modello. Arboreto salvatico è una raccolta di descrizioni fedele al titolo prescelto, una scuola dello sguardo la cui letterarietà emerge solo alla seconda lettura, quando al di là del tono vagamente enciclopedico si coglie il lavoro di una mitografia, di una scrittura, cioè, che raccontando alberi racconta vite millenarie senza idealizzare la convivenza dell'uomo con il proprio ambiente, senza fare della natura il luogo per eccellenza della pace. I due ultimi libri pubblicati, I racconti di guerra e Stagioni, entrambi usciti nel 2006, sono da questo punto di vista i due pannelli del dittico al quel Rigoni Stern non ha mai cessato di lavorare: la guerra da una parte, la natura dall'altra. Il paesaggio è il termine che lega queste due esperienze ed è ciò che conferisce alle sue pagine più riuscite una straordinaria forza metafisica.
Non c'è forse scrittore italiano nel quale il paesaggio occupi un posto tanto significativo e si dispieghi con tanta ampiezza, toccando gli estremi del dettaglio e dell'orizzonte più vasto, dalla singola foglia d'albero alla visione della volta stellata. Il paesaggio di Rigoni Stern non appartiene a una nazione, non è diviso da confini, non conosce la parola «straniero». È un personaggio che sovrasta la scena della storia e che assiste immobile, ma non imperturbabile, alle catastrofi del XX secolo. Ne esce ferito, dilaniato, malato, ma nella sua rovina riesce anche a imporsi come lo sfondo autentico della vita, di un'altra storia fatta di tempi lunghi e di lavoro, di fatica quotidiana e di amore, lontana dalla guerra come può esserlo dalla ferocia di ogni violenza nel cambiamento.
A volte si potrebbe essere indotti alla confusione. Poiché racconta storie non solo della guerra vissuta, la seconda, ma anche di quella che si era svolta sul suo altipiano, la prima, si può essere tentati di pensarlo come un tardivo esempio di quella letteratura alpina che, a partire dagli anni Venti, ha esaltato le virtù del soldato-contadino, anzi montanaro, legato alle proprie radici e proprio perciò diverso dalla figura del soldato-operaio, la cui alienazione è stata vista come il prodotto della trasformazione che rese i combattenti della Grande Guerra tanto diversi dagli epici cavalieri del passato.
Storia di Tönle, del 1978, L'anno della vittoria, del 1985, e la raccolta di racconti brevi Tra due guerre, del 2000, mostrano però quanto Rigoni Stern fosse lontano da questa tentazione arcaicista, populista, sulla quale fece leva il tentativo di salvare il senso della guerra vittoriosa. Come un moderno Grimmelshausen, Rigoni Stern sembra raccontare una lunga Guerra dei Trent'anni senza nulla concedere ai miti moderni fabbricati in serie, come quelli che inneggiano all'originarietà della cultura contadina e al radicamento delle identità locali. Il mito è un elemento essenziale della sua scrittura, ma si colloca in un livello più profondo e proprio perciò più vero. È un mito della terra e della natura, ma è anche il fondamento di una forma di cosmopolitismo alternativa, in qualche modo, a quella che deriva dalla tradizione illuminista: tanto quest'ultima faceva perno sulla cultura delle popolazioni urbane e su una nuova nozione di «pubblico», quanto quella di Rigoni Stern parte dall'osservazione della natura e dal sentimento di fratellanza che si coglie di fronte all'esperienza estrema del morire insieme. Più che una memorialistica di guerra, quella di Rigoni Stern è una riflessione etica sulla relazione con l'altro, non importa se amico o nemico, compaesano o straniero, uomo in carne e ossa o fronda d'albero pur sempre piena di vita e di spirito.
Volendo scegliere «il» libro di Rigoni Stern, ci si dovrebbe forse orientare non sul Sergente nella neve, ma su Arboreto salvatico, del 1991. A prima vista il meno narrativo dei suoi scritti, meno di Uomini, boschi e api, del 1980, meno anche di Il libro degli animali, del 1990, che pure potrebbe esserne considerato il modello. Arboreto salvatico è una raccolta di descrizioni fedele al titolo prescelto, una scuola dello sguardo la cui letterarietà emerge solo alla seconda lettura, quando al di là del tono vagamente enciclopedico si coglie il lavoro di una mitografia, di una scrittura, cioè, che raccontando alberi racconta vite millenarie senza idealizzare la convivenza dell'uomo con il proprio ambiente, senza fare della natura il luogo per eccellenza della pace. I due ultimi libri pubblicati, I racconti di guerra e Stagioni, entrambi usciti nel 2006, sono da questo punto di vista i due pannelli del dittico al quel Rigoni Stern non ha mai cessato di lavorare: la guerra da una parte, la natura dall'altra. Il paesaggio è il termine che lega queste due esperienze ed è ciò che conferisce alle sue pagine più riuscite una straordinaria forza metafisica.
“il manifesto”, 18 giugno 2008
Nessun commento:
Posta un commento