Nel 2005, discutendo un libro di Angelo Baracca, che demistifica alcuni luoghi comuni, Marcello Cini, il fisico comunista di recente scomparso, ragiona della proliferazione nucleare (più militare che civile), delle responsabilità antiche e nuove degli scienziati, dei limiti di queste responsabilità. Un testo di grande interesse su un tema che è stato fatto scomparire dal dibattito internazionale e che invece andrebbe riportato all’attenzione di tutti, perché il pericolo di un conflitto nucleare è anche oggi tutt’altro che scongiurato per sempre. (S.L.L.)
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L'introduzione del libro di Angelo Baracca intitolato: A volte ritornano: il nucleare (Jaca Book, pp. 382, € 24) inizia con un consiglio: «Se c'è qualcuno che è convinto che le armi nucleari sono ormai un residuo della Guerra Fredda in via di graduale eliminazione e che i rischi di una guerra nucleare sono solo un ricordo del passato, e vuole continuare a cullarsi in questa illusione, è bene che chiuda subito questo libro».
L'introduzione del libro di Angelo Baracca intitolato: A volte ritornano: il nucleare (Jaca Book, pp. 382, € 24) inizia con un consiglio: «Se c'è qualcuno che è convinto che le armi nucleari sono ormai un residuo della Guerra Fredda in via di graduale eliminazione e che i rischi di una guerra nucleare sono solo un ricordo del passato, e vuole continuare a cullarsi in questa illusione, è bene che chiuda subito questo libro».
Confesso subito che mi sono negli ultimi anni cullato nell'illusione che qualcosa di vero ci fosse in queste affermazioni: per lo meno quel tanto che bastava per giustificare a me stesso l'argomento che c'erano cose più urgenti e pericolose alle quali rivolgere la mia attenzione. Non ho però seguito il consiglio di chiudere il libro, e ho fatto bene. Il volume infatti colma un deplorevole vuoto di informazione su questa componente cruciale delle possibili guerre contemporanee, attraverso una ricostruzione storica accurata e ricca di dati, che sbocca in una dettagliata descrizione della consistenza dei suoi arsenali e delle potenzialità dei suoi sviluppi. Un libro come questo non c'era, e dunque va letto. Per quanto mi riguarda raccomando la lettura della ricostruzione della storia della costruzione della prima bomba atomica ai giovani che non la conoscono.
Una fissione da ricordare
Di questa vicenda infatti due aspetti complementari sono ancora presenti ai giorni nostri, nel processo che lega lo sviluppo della scienza e le sue ricadute nella società. Essi si riferiscono rispettivamente da un lato alla concatenazione imprevedibile dei contributi alla conoscenza di un fenomeno naturale che portano, in un contesto storico dato, a una svolta irreversibile nella capacità umana di dominarlo, e dall'altro al ruolo attivo degli scienziati coinvolti, e alle conseguenti responsabilità individuali che essi si trovano in determinati momenti a dover assumere.
Per quanto riguarda il primo aspetto, infatti, è cruciale tener conto della coincidenza temporale tra la scoperta della fissione dell'uranio, pubblicata nel 1939 da parte dei fisici tedeschi Lise Meitner e Otto Frish, e lo scoppio della seconda guerra mondiale. Divenne infatti immediato rendersi conto che se i nazisti fossero riusciti a realizzare la reazione a catena che la fissione teoricamente permetteva, essi avrebbero utilizzato la terribile arma vincendo la guerra e imponendo al mondo il loro modello di società. I fatti successivi ne furono una conseguenza pressoché inevitabile. Einstein scrisse a Roosevelt la famosa lettera, invitandolo a intraprendere un programma finalizzato alla realizzazione della nuova arma; Fermi realizzò a Chicago la prima pila per la fissione controllata; a Los Alamos furono concentrati i più brillanti fisici disponibili, molti dei quali, di origini europee, erano sfuggiti in tempo dai campi di sterminio. Personalmente credo che nei loro panni avrei fatto lo stesso.
Il secondo aspetto, però, mette in luce alcune successive responsabilità individuali che non vanno dimenticate, e sono pesanti. Nel maggio del `45, finita la guerra con la Germania, il pericolo di Hitler era scomparso. Il Giappone non aveva la possibilità di costruire la bomba. C'era però l'Urss, alleata in guerra, ma possibile nemica in futuro. In queste circostanze soltanto uno degli scienziati di Los Alamos, Joseph Rotblatt, insignito del premio Nobel per la pace nel cinquantenario di Hiroshima, abbandonò il progetto Manhattan per motivi di coscienza prima che la bomba fosse pronta. Gli altri continuarono il loro lavoro. Dopo il successo del test nel deserto di Alamagordo, dove fu fatta esplodere la prima bomba, soltanto sei dei fisici partecipanti, guidati da Philip Franck, stesero un rapporto in cui si chiedeva che non si usasse la bomba in guerra, proponendo invece un controllo internazionale su questa nuova arma. Gli altri si rifiutarono di appoggiarlo. Al contrario, invece, lo Scientific Advisory Committee formato da Robert Oppenheimer, Enrico Fermi, Arthur Compton e Ernest Lawrence concluse il proprio rapporto dicendo: «non vediamo nessuna alternativa accettabile all'impiego militare diretto». E' difficile dire cosa sarebbe successo se la maggioranza degli scienziati coinvolti si fosse opposta. Forse non sarebbe cambiato nulla, perché ormai la bomba non era più nelle loro mani, ma almeno avrebbero potuto provarci.
Proliferazione orizzontale e verticale
Una fissione da ricordare
Di questa vicenda infatti due aspetti complementari sono ancora presenti ai giorni nostri, nel processo che lega lo sviluppo della scienza e le sue ricadute nella società. Essi si riferiscono rispettivamente da un lato alla concatenazione imprevedibile dei contributi alla conoscenza di un fenomeno naturale che portano, in un contesto storico dato, a una svolta irreversibile nella capacità umana di dominarlo, e dall'altro al ruolo attivo degli scienziati coinvolti, e alle conseguenti responsabilità individuali che essi si trovano in determinati momenti a dover assumere.
Per quanto riguarda il primo aspetto, infatti, è cruciale tener conto della coincidenza temporale tra la scoperta della fissione dell'uranio, pubblicata nel 1939 da parte dei fisici tedeschi Lise Meitner e Otto Frish, e lo scoppio della seconda guerra mondiale. Divenne infatti immediato rendersi conto che se i nazisti fossero riusciti a realizzare la reazione a catena che la fissione teoricamente permetteva, essi avrebbero utilizzato la terribile arma vincendo la guerra e imponendo al mondo il loro modello di società. I fatti successivi ne furono una conseguenza pressoché inevitabile. Einstein scrisse a Roosevelt la famosa lettera, invitandolo a intraprendere un programma finalizzato alla realizzazione della nuova arma; Fermi realizzò a Chicago la prima pila per la fissione controllata; a Los Alamos furono concentrati i più brillanti fisici disponibili, molti dei quali, di origini europee, erano sfuggiti in tempo dai campi di sterminio. Personalmente credo che nei loro panni avrei fatto lo stesso.
Il secondo aspetto, però, mette in luce alcune successive responsabilità individuali che non vanno dimenticate, e sono pesanti. Nel maggio del `45, finita la guerra con la Germania, il pericolo di Hitler era scomparso. Il Giappone non aveva la possibilità di costruire la bomba. C'era però l'Urss, alleata in guerra, ma possibile nemica in futuro. In queste circostanze soltanto uno degli scienziati di Los Alamos, Joseph Rotblatt, insignito del premio Nobel per la pace nel cinquantenario di Hiroshima, abbandonò il progetto Manhattan per motivi di coscienza prima che la bomba fosse pronta. Gli altri continuarono il loro lavoro. Dopo il successo del test nel deserto di Alamagordo, dove fu fatta esplodere la prima bomba, soltanto sei dei fisici partecipanti, guidati da Philip Franck, stesero un rapporto in cui si chiedeva che non si usasse la bomba in guerra, proponendo invece un controllo internazionale su questa nuova arma. Gli altri si rifiutarono di appoggiarlo. Al contrario, invece, lo Scientific Advisory Committee formato da Robert Oppenheimer, Enrico Fermi, Arthur Compton e Ernest Lawrence concluse il proprio rapporto dicendo: «non vediamo nessuna alternativa accettabile all'impiego militare diretto». E' difficile dire cosa sarebbe successo se la maggioranza degli scienziati coinvolti si fosse opposta. Forse non sarebbe cambiato nulla, perché ormai la bomba non era più nelle loro mani, ma almeno avrebbero potuto provarci.
Proliferazione orizzontale e verticale
Dopo questa premessa veniamo alla sostanza del libro. La tesi di Baracca, è che il proposito di arrivare a eliminare le armi nucleari dagli arsenali militari di tutto il mondo, e insieme con esso anche il tentativo di fermare la diffusione del possesso di armi nucleari da parte di chiunque voglia farsele, non poteva non fallire. In realtà, infatti, quel proposito - solennemente annunciato nel preambolo ed esplicitamente formulato nell'articolo VI del «Trattato di Non Proliferazione Nucleare» (Tnp) del 1970 - era già in partenza soltanto una promessa che gli stati in possesso della bomba atomica non avevano alcuna intenzione di mantenere.
A lungo andare, perciò, il monopolio non poteva reggere. Cina, India, Pakistan, Israele entrarono, più o meno apertamente nel club (il Sud Africa, dopo esserci entrato, ne uscì con Mandela smantellando gli impianti). E' vero che una breve parentesi, tra il crollo dell'Urss e la metà degli anni '90, accese grandi speranze che si avviasse un progressivo disarmo nucleare, ma queste speranze furono dissipate negli ultimissimi anni del secolo.
Questa ripresa della corsa è caratterizzata da fattori diversi a seconda che si tratti di proliferazione orizzontale (diffusione di armi nucleari a paesi che non le possedevano) o di proliferazione verticale (innovazioni tecnologiche che portano soprattutto gli Stati Uniti, ad ammodernare i propri arsenali con nuove armi e nuovi mezzi per usarle). Nel primo caso l'autore vede un nesso assai stretto fra gli sviluppi del nucleare «di pace» e di quello bellico. Contrariamente all'opinione diffusa che si tratti di due cose completamente separate, ci possono essere buone ragioni per sostenere il contrario. Non solo perché nei reattori convenzionali per la produzione di energia si produce sempre plutonio, che è la materia prima più semplice per le bombe, ma anche perché, secondo una documentata ricostruzione di Dominique Lorentz su Affaires Nucleares che Baracca condivide, «risulta chiaro che Washington ha utilizzato come esca l'illusione di dotare una serie di paesi di armi nucleari, passando attraverso lo sviluppo di programmi nucleari 'civili' per attirarli nella propria orbita».
Sia come sia, un dato abbastanza impressionante sul rapporto fra nucleare civile e nucleare militare è che, in aggiunta alle 130 mila testate nucleari fabbricate, delle quali circa 40 mila ancora attive, il numero di reattori costruiti per i sottomarini supera quello delle centrali elettronucleari realizzate in tutto il mondo (circa 400).
Nella proliferazione verticale, sostiene Baracca, gioca piuttosto un ruolo importante il legame tra la ricerca finalizzata allo sviluppo di nuove armi e la ricerca fondamentale, pubblicata sulle riviste scientifiche, di fisica nucleare e subnucleare condotta dalla comunità scientifica internazionale. In particolare la fusione termonucleare controllata per la produzione di energia e la fisica delle particelle subnucleari prodotte nei mega-acceleratori di altissima energia e studiate con i superlaser ad altissima densità.
Fusione da sferette
La tesi non mi convince, anche se è probabilmente vero che la tecnica della fusione di pellets (sferette) di deuterio/trizio sviluppata per arrivare a produrre (ma quando?) energia termonucleare, può diventare essenziale per lo sviluppo di microbombe a fusione e di armi nucleari «tattiche» di dimensioni sottocritiche (microesplosivo a fissione) (non vietate dal Tnp). Così come può essere vero che la fisica delle particelle potrebbe fornire indirettamente gli strumenti per sostituire i test nucleari vietati dal trattato (Comprehensive Test Ban Treaty) stipulato nel 1996 e dare quindi nuovo slancio alla creazione di armi della «Quarta Generazione»; e magari, sia pure in una prospettiva a più lunga scadenza, ad armi direzionali a fasci di particelle o a minibombe a fissione di elementi transuranici superpesanti.
In questo secondo caso, infatti, mi sembra che non si debbano confondere le responsabilità individuali, che vanno denunciate, di singoli scienziati coinvolti volontariamente in attività di ricerca militare sotto il vincolo del segreto, e il processo collettivo di accumulazione di conoscenze rese disponibili a tutti, che in un certo contesto può condurre a una cascata di conseguenze impreviste. L'esempio della prima bomba atomica ci insegna che è inutile tentare di fermare quest'ultimo processo appellandosi soltanto alla responsabilità degli scienziati.
E' proprio per questo che concordo invece pienamente con la conclusione del libro, che sottolinea come sussista ancora, nell'opinione pubblica mondiale, la convinzione diffusa, fondata forse ancora sulla memoria degli orrori di Hiroshima e Nagasaki, che debba essere impedito l'uso in guerra delle armi nucleari. Una convinzione capace di contrastare il tentativo opposto, da parte dei detentori di queste armi con in testa gli Stati Uniti, di farle accettare come «normali» e «convenienti». Dobbiamo cercare di impedire il crollo di questa barriera.
A lungo andare, perciò, il monopolio non poteva reggere. Cina, India, Pakistan, Israele entrarono, più o meno apertamente nel club (il Sud Africa, dopo esserci entrato, ne uscì con Mandela smantellando gli impianti). E' vero che una breve parentesi, tra il crollo dell'Urss e la metà degli anni '90, accese grandi speranze che si avviasse un progressivo disarmo nucleare, ma queste speranze furono dissipate negli ultimissimi anni del secolo.
Questa ripresa della corsa è caratterizzata da fattori diversi a seconda che si tratti di proliferazione orizzontale (diffusione di armi nucleari a paesi che non le possedevano) o di proliferazione verticale (innovazioni tecnologiche che portano soprattutto gli Stati Uniti, ad ammodernare i propri arsenali con nuove armi e nuovi mezzi per usarle). Nel primo caso l'autore vede un nesso assai stretto fra gli sviluppi del nucleare «di pace» e di quello bellico. Contrariamente all'opinione diffusa che si tratti di due cose completamente separate, ci possono essere buone ragioni per sostenere il contrario. Non solo perché nei reattori convenzionali per la produzione di energia si produce sempre plutonio, che è la materia prima più semplice per le bombe, ma anche perché, secondo una documentata ricostruzione di Dominique Lorentz su Affaires Nucleares che Baracca condivide, «risulta chiaro che Washington ha utilizzato come esca l'illusione di dotare una serie di paesi di armi nucleari, passando attraverso lo sviluppo di programmi nucleari 'civili' per attirarli nella propria orbita».
Sia come sia, un dato abbastanza impressionante sul rapporto fra nucleare civile e nucleare militare è che, in aggiunta alle 130 mila testate nucleari fabbricate, delle quali circa 40 mila ancora attive, il numero di reattori costruiti per i sottomarini supera quello delle centrali elettronucleari realizzate in tutto il mondo (circa 400).
Nella proliferazione verticale, sostiene Baracca, gioca piuttosto un ruolo importante il legame tra la ricerca finalizzata allo sviluppo di nuove armi e la ricerca fondamentale, pubblicata sulle riviste scientifiche, di fisica nucleare e subnucleare condotta dalla comunità scientifica internazionale. In particolare la fusione termonucleare controllata per la produzione di energia e la fisica delle particelle subnucleari prodotte nei mega-acceleratori di altissima energia e studiate con i superlaser ad altissima densità.
Fusione da sferette
La tesi non mi convince, anche se è probabilmente vero che la tecnica della fusione di pellets (sferette) di deuterio/trizio sviluppata per arrivare a produrre (ma quando?) energia termonucleare, può diventare essenziale per lo sviluppo di microbombe a fusione e di armi nucleari «tattiche» di dimensioni sottocritiche (microesplosivo a fissione) (non vietate dal Tnp). Così come può essere vero che la fisica delle particelle potrebbe fornire indirettamente gli strumenti per sostituire i test nucleari vietati dal trattato (Comprehensive Test Ban Treaty) stipulato nel 1996 e dare quindi nuovo slancio alla creazione di armi della «Quarta Generazione»; e magari, sia pure in una prospettiva a più lunga scadenza, ad armi direzionali a fasci di particelle o a minibombe a fissione di elementi transuranici superpesanti.
In questo secondo caso, infatti, mi sembra che non si debbano confondere le responsabilità individuali, che vanno denunciate, di singoli scienziati coinvolti volontariamente in attività di ricerca militare sotto il vincolo del segreto, e il processo collettivo di accumulazione di conoscenze rese disponibili a tutti, che in un certo contesto può condurre a una cascata di conseguenze impreviste. L'esempio della prima bomba atomica ci insegna che è inutile tentare di fermare quest'ultimo processo appellandosi soltanto alla responsabilità degli scienziati.
E' proprio per questo che concordo invece pienamente con la conclusione del libro, che sottolinea come sussista ancora, nell'opinione pubblica mondiale, la convinzione diffusa, fondata forse ancora sulla memoria degli orrori di Hiroshima e Nagasaki, che debba essere impedito l'uso in guerra delle armi nucleari. Una convinzione capace di contrastare il tentativo opposto, da parte dei detentori di queste armi con in testa gli Stati Uniti, di farle accettare come «normali» e «convenienti». Dobbiamo cercare di impedire il crollo di questa barriera.
“il manifesto”, 14 ottobre 2005
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