11.7.13

Carducci, quel vate rombante (Alfredo Giuliani)

Quasi trent’anni fa, in occasione dei 150 anni di Carducci Giovanni Raboni sull’Europeo e Alfredo Giuliani su “la Repubblica”, selezionavano all’interno dell’opera poetica di Giosué Carducci quel poco che ritenevano ancora leggibile con risultati convergenti. Ecco qui l’articolo di Giuliani. (S.L.L.)


Il giovane Carducci

Sogni di gloria, sogni di infelicità felice, di parole supreme, sogni di tombe armoniose e di sensi immortali: essere prescelti e sospinti alla visione dalla sublime Supermadre, la Poesia in persona. Sogni simili devono aver rimescolato tutti i poeti giovinetti, classici romantici e neoclassici. Ma il caso del vate giovinetto Giosuè Carducci (che poi da vecchio si tolse l'accento, divenendo Giosue) è, se non mi sbaglio di grosso, un tantino speciale.
Al compir dell'anno suo quindicesimo, luglio 1850, egli guardò a se stesso componendo ben quindici strofe di dieci quinari, doppi tranne l'ultimo, a rima baciata. L'orecchio era già prodigiosamente esperto, lo slancio ovviamente ingenuo e arruffato, ma tutt'altro che inconsapevole. Anzi, chi legge questa canzone quasi puerile (che si trova nel primo volume dell'edizione nazionale delle Opere) stupisce nell'accorgersi che essa contiene, pressoché intero, il repertorio delle impronte, tracce, attitudini, o come ci piaccia chiamarle, caratterizzanti il poeta maturo. Intanto, accenni di panteismo: «Chi legge il tempo tuttor celato / Entro la notte de l'increato?»; e rivolgendosi al misterioso angelo del canto (o è forse una Valkiria?): «Viva lo Immenso che a me t'ha dato / Verme creato».
Il giovinetto promette di colluttare con la sorte e con la sventura (e tutti sanno quanto il Carducci ebbe a colluttare fieramente); e distingue tre corde della sua arpa o anima: quella amorevole, mesta o gioiosa, quella dell'ira sdegnosa, e infine la corda che sibila irridendo (è un riso «Come di serpe su l'uomo ucciso»).
Ma ce di più: «Con me ragiona l'età passata», afferma «lo ignoto povero vate», e non c'è da dubitarne: «Odo le antique larve divine / Muover lamenti tra le mine». E quante volte, nelle vigili veglie notturne, l'anima ispirata «Da i prischi vati fu salutata!». Anche qui non c'è da dubitare della sincerità del Carducci.

Contro Pio IX
Senza le Memorie e le Speranze, la natura gli è «tomba e deserto». Entrambe lo infiammano: nostalgia e urgenza di un avvenire che non sia «insulto» alla patria. Fuori i Germani! «Qua carabina daga ed elmetto! / Qua i tre colori sopra il mio petto! / A dio miei cari! Firenze a dio! / Volo sul campo, guerriero anch'io». Ma vuol morire sul campo da «trovadore», ossia cantando.
Il giovinetto ardente e visionario che scrive Al compir de l'anno mio quindicesimo appare, è vero, più romantico che classicista. Ma non è qui il punto. Il classicista Carducci romantico lo è sempre stato, però sulla difensiva, e spesso andando all'attacco dei tardi romantici dichiarati. Uno dei tratti che più suscitano la mia antipatia è la sua irrisione agli «scapigliati» Praga e Tarchetti («E canterò di voi, gente finita / Dal pathos ideale, / Che riduceste a clinica la vita /E il mondo a un ospitale»), grossolanamente intruppati coi rimatori svenevoli e salottieri.
Il guaio fu che nessuna personalità di poeta si affermò altrettanto forte e rilevata a contrastare oggettivamente il Carducci diciamo nel trentennio che va dal '60 al '90. Così il vate erudito ed eloquente occupò lo spazio della modernità con la maniera antiquaria. L'equivoco di fondo della poesia italiana del secondo Ottocento è tutto lì, che da noi perfino simbolismo e decadentismo son stati fatti da classicisti.
Perché lo stile obbliga. E tutti han dovuto muovere dal Carducci. Il quale è quasi sempre, nonostante i sinceri ardori, poeta artificioso e programmato, tanto che quindicenne aveva già fissato, naturalmente con l'aiuto dell'inconscia divinazione, il piano elegiaco, eroico, isterico, oratorio, atletico del proprio corso di vate: «Io nacqui al pianto: ma ben, che vale? / Io ti disfido, flagel fatale». Tutte promesse e attitudini mantenute e sviluppate (purtroppo).
L'italico cantore della Patria e della Storia, quanto più la patria e la storia gli apparivano al presente grame e miserevoli, tanto più gonfiava irato le robuste gote, e più continuava a «volare» (proprio come nei sogni esaltanti del '50) sul destriero degli inni sopra le teste umane. Così gli accadde nell'ottobre del 1872 nella Ripresa, da molti lodata forse perché esprime, con qualche ammissione di fallimento, un rabbioso ripiegarsi dall'eroico al nostalgico. A noi sembra inguaribilmente retorica e rombante, e paragonata alla puerile canzone sopracitata potrebbe utilmente intitolarsi «Circa vent'anni dopo». Ma un suo verso, lo ammettiamo, dovrebbe andare presso alcuni famoso: «Ultime dee superstiti giustizia e libertà».
Del resto, tutta la crisi post-risorgimentale documentata in Giambi ed Epodi suscita rispetto e, in due o tre casi, moderata ammirazione. Nel suo genere, la sarcastica ode Per Giuseppe Monti e Gaetano Tognetti (due muratori romani e guerriglieri garibaldini, scoperti e giustiziati da Pio IX nel '67) è certamente, almeno in buona parte, stupendamente efficace e dimostra che il sacrosanto anticlericalismo, pur in vesti neoclassiche, riesce a farsi poesia.
Non è facile dimenticare come Pio IX, il giorno dell'esecuzione, prega San Pietro e allegra la protezione del gesuita Curci, sostenitore strenuo del potere papalino: «Il gran prete quel dì svegliossi allegro, / Guardò pe' vaticani / Vetri dorati il cielo umido e negro, / E si fregò le mani. / Natura par che di deforme orrore / Tremi innanzi a la morte: / Ei sente de le piume anco il tepore / E dice — Ecco, io son forte. / Antecessor mio santo, anni parecchi / Corser da la tua gesta: / A te, Piero, bastarono gli orecchi; / Io taglierò la testa. / A questa volta son con noi le squadre, / Né Gesù ci scompiglia: / Egli è in collegio al Sacro Cuore, e il padre / Curci lo tiene in briglia». Che ne sa Cristo, di come vanno trattati gli affari temporali della sua chiesa?
Il Carducci satirico e schernevole, si sa, finisce per cedere all'uomo di cuore. Dieci anni dopo l'invettiva che abbiamo appena citato perdonò addirittura a Pio IX («Povero vecchio, chi sa non l'assaglia / Una deserta volontà d'amare!»). Quelli che non perdonava mai erano gli avversari e i concorrenti letterari; ma questo lo capiamo bene e lasciamo stare. E non scopriamo niente se ripetiamo un giudizio diffuso: che, quasi suo malgrado, in margine all'opera del vate, alcune poesie di Rime nuove rivelano un autore meno impettito, meno scolpito e accademico. Ciò che il Carducci giovinetto, sebbene parlasse di lacrime e di tombe, non aveva potuto programmare, erano i dolori veri e micidiali, le lacerazioni, il tedio, e altresì le pause, scorate o ilari, dell'esistenza vissuta.
Solo dunque alcune poesie, del resto tra le più note: Funere mersit acerbo e Notte d'inverno (forse superiore alla precedente); per il titanismo grottesco In riva al mare; e poi Pianto antico (chi non l'ha studiata a scuola?), Passa la nave mia (da Heine), San Martino (e anche questa chi non l'ha studiata?) e quella deliziosa poesia d'affetto a Severino Ferrari intitolata All'autore del "Mago" (che invece non si studia mai). Forse bisogna mettere nel conto, per l'influsso che ha avuto sui crepuscolari, Idillio maremmano (la citava di quando in quando ironicamente mia madre quand'ero ragazzo: «Meglio era sposar te, bionda Maria!»).

L'empio mostro
Il lettore di oggi trova magniloquenti e financo ridicole le Odi barbare. Tre sono mirabili dal principio alla fine: Alla stazione in una mattina d'autunno e le due brevi che chiudono, la raccolta, Ave e Nevicata. Le strofe alcaiche dell' ode Alla stazione sono di fattura superba, naturali, variate, cupe e angosciose, gremite di oggetti, di arti, di apparizioni, ritmate con perfetta e inesorabile progressione.
Ho sempre amato questa poesia (probabilmente la più moderna che Carducci abbia mai concepito); eppure da giovane trovavo un po' buffa la descrizione, nelle strofe centrali, della vaporiera quale «empio mostro». In realtà, quell' accanita evocazione della macchina odiosa che si prepara a partire, non è altro che la figurazione del sentimento di strappo sofferto dal poeta. E' la grottesco-furiosa amplificazione dell'innamorato. La sua Carolina Cristofori Piva, pardon, la sua Lidia, nella fredda caligine di una mattina scrosciante di pioggia, s'invola «in un'orribile carrozza di 2^ classe» (così recita una lettera di Carducci che ricorda l'episodio).
Il classicismo di Ave e dei distici di Nevicata è di una levità straordinaria, trascorre tenue in una nuvola, in un'ombra, in un suono roco, che passano posandosi appena immagini sul verso, sulla terra. Da tutte le altre Odi, se io fossi uno scriba e loro un lacero manoscritto da tramandare, salverei, lo confesso, soltanto qualche strofa qua e là. Perché, stanco, vorrei affrettarmi a trascrivere, da Rime e ritmi, l'ultima raccolta, L'ostessa di Gaby, Presso una certosa, e magari anche il grazioso Sant'Abbondio patrono di Madesimo.
Com'era prevedibile, noi dobbiamo compiere una gran bella fatica per far scomparire il vate e trattenere il poeta. Ma che altro potremmo fare? Carducci rischia di restare soffocato — dico il poeta, per il prosatore e l'autore di bellissime lettere il discorso sarebbe altro —, rischia di restare imprigionato nel sogno eroico e monumentale che egli sognò da ragazzo e che, per fortuna, non riuscì del tutto a realizzare.

“la Repubblica”, 23 giugno 1985

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