29.11.13

Il saluto romano nei campi di calcio (Alberto Piccinini)

1934 . L'Italia col braccio teso allo stadio Flaminio di Roma
Negli anni ’30 l’obbligo per squadre di calcio italiane di fare il saluto romano all'entrata in campo faceva parte del regolamento del gioco. A teorizzarne la pratica fu Lando Ferretti, primo presidente del Coni posto sotto diretto controllo del regime nel 1925, il quale «annunciò appena insediato che il saluto romano sarebbe stato obbligatorio prima dell'inizio di ogni partita». Citiamo da un recente saggio dello storico inglese Simon Martin su Football and fascism (Berg Publisher), che torna in un terreno solo parzialmente frequentato dagli storici italiani (due anni fa era uscito un analogo Lo sport nella propaganda fascista, di Andrea Bacci). Martin ricorda ancora come «la sostituzione del tradizionale hip! hip! hurrà col più romano Eja Eja Alalà dimostra come la nazionalizzazione del gioco si estendesse anche ai giocatori».
Il punto cruciale di questo genere di studi è da sempre questo: quanto giocatori e allenatori, ma anche semplici tifosi, furono veramente consapevoli della politicizzazione, cui il regime cercò di sottoporre il calcio? Il fascismo infatti pose le basi dello spettacolo popolare che oggi ancora conosciamo, con la costruzione dei grandi stadi e la creazione dell'apparato massmediatico. Tentò anche - lo ricorda Martin - di piegare il calcio alle sue esigenze ideologiche. «Il programma del regime fu simboleggiato dalla figura dell’Italiano Nuovo, le cui caratteristiche mitiche erano evidenti nella maniera in cui i calciatori fascisti mostravano eroismo, sacrifico e attaccamento alla causa della squadra». Si aggiungerà che una cosa era la teoria - ben simboleggiata dalla prosa ultraretorica della “Gazzetta dello sport” di Bruno Roghi - e una cosa era la pratica. Secondo Antonio Papa e Guido Panico, autori di una Storia sociale del calcio in Italia, «numerose sono state le testimonianze di giocatori del tempo che hanno negato ogni interferenza dei dirigenti fascisti nella loro vita sportiva (...) Agli inizi degli anni '30, quando il saluto con il braccio teso era divenuto usuale non mancò chi si astenne dal farlo. La cosa era attribuita dai dirigenti fascisti à purismo calcistico, senza conseguenze politiche».
Una delle testimonianze significative, da questo punto di vista, resta quella di Aldo Olivieri portiere della Lucchese prima e del Torino poi, ma soprattutto estremo difensore della Nazionale che vinse il Mondiale a Parigi nel 1938: «Quando giocavo fui punito in un solo caso - raccontava il giocatore qualche anno fa - Entrai in campo senza fare il saluto romano, strinsi la mano al capitano avversario e l'arbitro me la fece pagare». Una testimonianza che apparentemente mette in discussione la cautela con la quale gli storici hanno affrontato la fascistizzazione del calcio italiano. Olivieri aggiunge subito che «sì, eravamo obbligati a fare il saluto, a recitare, e io recitavo».
Proprio Oliveri si trovò a far parte di una delle «recite» più note del nostro calcio: quella che andò in scena allo stadio di Marsiglia in occasione della prima partita del Mondiale 1938. Per l'incontro con la Norvegia si calcola che fossero presenti 10.000 esiliati politici dall'Italia. Con conseguenze inimmaginabili, stando all'ormai classico racconto del ct Vittorio Pozzo: «Vado in campo con la squadra, ordinata alla militare, e mi pongo sulla destra. Al saluto ci accoglie, come previsto, una bordata solenne e assordante di fischi, di insulti e di improperi. (...) Ad un certo momento il gran fracasso accennò a diminuire, poi cessò. Ordinai l'attenti. Avevamo appena messo giù la mano, che la dimostrazione riprese violenta. Subito: Squadra attenti Saluto! E tornammo ad alzare la mano, per confermare che non avevamo paura».
Ancora un saluto romano. Sembrerebbe quasi una sfida tout court, verso il pubblico sugli spalti, invece che una performance da soldatini del duce. Tra l'altro non servì a molto: l'Italia vinse stentatamente quella partita, 2-1 nei supplementari. E fin dall'incontro successivo vennero messi fuori tre giocatori in chiaro difetto di forma - tra cui Eraldo Monzeglio, unico azzurro fascista dichiarato e amico personale della famiglia Mussolini. Ma la cosa più divertente la racconta Gianni Brera nella sua Storia del calcio italiano «Lo sa commenda perché siamo andati male? - domanda capitan Meazza a Vittorio Pozzo - Perché ci abbiamo il sangue grosso». Don Vittorio incupisce, stringe i denti, strizza gli occhietti maligni - «E sia, ma niente concessioni al vizio!», si arrende il CU. «L'atto naturale!», promette il Peppin. Nella successiva partita contro la Francia gli azzurri presero un'altra bella razione di fischi, e giocarono così bene che non solo vinsero, ma anche gli antifascisti si unirono agli applausi dei francesi. L'Italia si presentò in campo con la maglia nera e l'ordine, a quanto pare, venne da Mussolini in persona. Fece il saluto romano. Servì a qualcosa? Se solo, in questa grande e ambigua leggenda del nostro calcio, entrasse a far parte anche la storia della visita di Peppin Meazza nei favolosi casini della capitale francese, ci sentiremmo tutti un po' più sollevati.


“il manifesto”, 9 gennaio 2005

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