1.11.13

La città felice di Émile Zola

Émile Zola pubblicò il suo ultimo romanzo, Travail, nel 1901 poco prima della sua morte, avvenuta nel 1902. Il romanzo, poco conosciuto anche in Francia  è attraversato dalle “utopie sociali” di cui Zola si era nutrito durante il suo esilio forzato in Inghilterra, leggendo e studiando autori come Fourier, Saint-Simon e Comte.
Il romanzo, in cui si coniugano in ambiente utopico socialismo e positivismo, ruota attorno al personaggio di un ingegnere, Luc Froment, chiamato dall’amico Martial Jordan, uno scienziato che studia il migliore impiego dell’energia elettrica per ridurre la fatica del lavoro, a far ritorno nella città natale, Beauclair, ove dominano l’ingiustizia sociale e un capitalismo senza scrupoli, rappresentati da un’acciaieria che gli operai chiamano l’Abîme, l’abisso, in cui logica del profitto e dello sfruttamento sta devastando sia la comunità che l’ambiente.
I due amici Froment e Jordan recuperano una miniera abbandonata, la Crêcherie, vicino alla quale sorge presto una fabbrica in cui si realizza a poco a poco l’utopia della «Città felice».
Travail narra la rinascita della cittadina e dei suoi abitanti attraverso l’applicazione della zoliana «religione dell’umanità» in cui trovano posto il progresso scientifico e tecnologico, il rispetto dell’ambiente, l’equa distribuzione del lavoro e dei profitti, secondo il principio del «diventare padroni della vita per dirigerla».
Del romanzo riprendo qui la parte finale, pubblicata qualche anno fa da "Lettera Internazionale" (forse 2006, ma non c’è data nel mio ritaglio). (S.L.L.)

Fin da subito, si era presentata come una lezione, come un’esperienza decisiva che a poco a poco avrebbe convinto tutti. Chi avrebbe potuto infatti negare la forza di una simile alleanza tra capitale, lavoro e intelligenza, quando i suoi benefici diventavano di anno in anno più evidenti e gli operai della Crêcherie guadagnavano già il doppio dei loro compagni di altre fabbriche? Chi avrebbe potuto rifiutarsi di riconoscere che il lavoro di otto, di sei, di tre ore, il lavoro diventato attraente per la varietà stessa dei compiti svolti nelle officine luminose e allegre, dotate di macchine che anche un bambino avrebbe saputo utilizzare, fosse il fondamento stesso della società futura, quando si vedevano, in questo cammino verso la libertà e verso la giustizia totali, i salariati miserabili di ieri rinascere, tornare esseri umani, sani, intelligenti, allegri e miti?
Chi avrebbe potuto rifiutarsi di dedurre da tutto ciò l’opportunità della cooperazione, che sopprimeva gli intermediari parassiti – quel commercio in cui tanta ricchezza e tanta forza vanno perdute –, quando i Magazzini Generali funzionavano senza problemi decuplicando il benessere degli affamati di un tempo e colmandoli di tutti i piaceri fino a quel momento riservati soltanto ai ricchi? Chi avrebbe potuto mettere in dubbio i prodigi della solidarietà, che rende la vita agevole e ne fa una continua festa per tutti i viventi, davanti alle allegre riunioni della Casa Comune destinata a diventare un giorno il Palazzo reale del popolo, con le sue biblioteche, i suoi musei, le sue sale per spettacoli, i suoi giardini, i suoi giochi e i suoi divertimenti? Chi infine avrebbe potuto contestare la necessità di rinnovare l’istruzione e l’educazione non fondandole più sul presupposto della pigrizia dell’uomo, ma sul suo inestinguibile bisogno di sapere, rendendo lo studio gradevole e capace di sviluppare in ognuno la sua energia individuale, riunendo fin dall’infanzia i due sessi destinati a vivere fianco a fianco, quando le Scuole là erano così prospere, libere finalmente dai troppi libri, capaci di mescolare le lezioni alle ricreazioni e alle prime nozioni di tirocinio professionale e di aiutare ogni nuova generazione ad avvicinarsi alla Città ideale verso la quale l’umanità è in marcia da tanti secoli?
Così, l’esempio straordinario che la Crêcherie dava quotidianamente, alla luce del sole, diventava contagioso. Non si trattava più di teorie, si trattava di un fatto, di qualcosa che accadeva là, sotto gli occhi di tutti, di una fioritura superba e incessante. E, naturalmente, l’idea dell’associazione conquistava uno dopo l’altro gli uomini e i territori circostanti, nuovi operai si presentavano in massa, attirati dai benefici e dal benessere; nuove costruzioni spuntavano ovunque aggiungendosi di continuo alle prime. In tre anni, la popolazione della Crêcherie era raddoppiata e l’aumento era diventato sempre più rapido. Era la Città sognata, la Città del lavoro riorganizzato, reso alla sua nobiltà, la Città futura della felicità conquistata che spuntava naturalmente dalla terra intorno alla fabbrica, anch’essa ampliata, che si stava trasformando nella metropoli: cuore pulsante, fonte di vita, dispensatore e regolatore dell’esistenza sociale.
Le officine, i grandi capannoni dove avveniva la produzione, si ingrandivano, coprivano ormai ettari interi; mentre le piccole case, luminose e gaie in mezzo al verde dei loro giardini, si moltiplicavano, via via che aumentava il personale, il numero dei lavoratori e degli impiegati di ogni tipo. E a poco a poco, a causa di questo flusso debordante, le nuove costruzioni avanzavano verso l’Abîme, minacciavano di conquistare le vecchie acciaierie, di sommergerle. All’inizio, tra le due fabbriche c’erano stati ampi spazi vuoti, i terreni incolti che Jordan possedeva ai piedi dei Monts Bleuses. Poi, alle poche abitazioni sorte nei pressi della Crêcherie, se ne erano aggiunte altre, e altre ancora, una fila di case che invadeva tutto come una marea montante e che ormai era solo a due o trecento metri dall’Abîme. Ben presto, quando la marea si sarebbe infranta contro di esso, lo avrebbe forse travolto sostituendovi la propria trionfante fioritura di salute e di gioia… Anche la vecchia Beauclair era minacciata, perché una punta della città si protendeva già verso di essa e stava per spazzare via quella borgata operaia nera e puzzolente, nido di dolore e di peste, dove il salariato agonizzava sotto i soffitti cadenti.
Avolte Luc, il costruttore, il fondatore della città, la guardava crescere, la sua Città nascente che aveva visto in sogno la sera in cui aveva deciso di avviare la sua opera; ed essa si realizzava e partiva alla conquista del passato, facendo emergere dal suolo la Beauclair di domani, la felice dimora di un’umanità felice. Tutta Beauclair sarebbe stata conquistata, tra i due promontori dei Monts Bleuses, tutto l’estuario delle gole di Brias si sarebbe coperto di case di colore chiaro, immerse tra gli alberi, che avrebbero raggiunto gli sterminati campi fertili della Roumagne.
E anche se ci sarebbero voluti ancora anni e anni, già scorgeva con i suoi occhi di veggente la Città felice che lui aveva voluto e che era in cammino. Durante le lunghe ore di felice contemplazione davanti alla sua città prospera, Luc spesso riviveva il passato. E rivedeva da dove era partito, dalla lettura, ormai così lontana, di un libretto modesto dove era riassunta la dottrina di Fourier. Ricordava la notte insonne durante la quale, infervorato dalla sua missione ancora oscura, cervello e cuore pronti a ricevere il buon seme, si era messo a leggere perché non riusciva a prendere sonno. Era stato allora che i colpi di genio di Fourier, le passioni umane rimesse in auge, utilizzate, accettate come le forze stesse della vita, il lavoro liberato dalla sua prigione, nobilitato, reso attraente, diventato il nuovo codice sociale, la libertà e la giustizia a poco a poco conquistate pacificamente grazie all’associazione tra capitale, lavoro e intelligenza, questi colpi di genio che lo avevano investito mentre si trovava in uno stato di sovreccitazione intellettuale e morale, lo avevano bruscamente illuminato, esaltato, spinto a gettarsi nell’azione fin dal giorno successivo. Era a Fourier che doveva il fatto di avere osato, di aver tentato l’esperienza della Crêcherie. La prima Casa comune, con la sua scuola; le prime officine, così pulite e allegre, con la loro divisione del lavoro; la prima Città operaia, con le sue facciate bianche e ridenti in mezzo al verde, erano nate dall’idea fourierista che sonnecchiava come il buon seme nel campo durante l’inverno, un seme sempre pronto a germogliare e a fiorire.
Una religione dell’umanità, come il cattolicesimo, ci avrebbe forse messo secoli a prendere solidamente piede. Ma quale evoluzione in seguito, quale continuo ampliamento, via via che l’amore si fosse diffuso e la città fosse stata fondata! Il pensiero di Fourier, evoluzionista, uomo metodico e pratico, adducendo l’associazione tra capitale, lavoro e intelligenza a titolo di esperienza immediata, era sfociato dapprima nell’organizzazione sociale dei collettivisti e in seguito nel sogno libertario degli anarchici. Associandosi, il capitale a poco a poco sarebbe stato ripartito e annientato, il lavoro e l’intelligenza sarebbero diventati i soli elementi regolatori, le basi del nuovo patto. Alla fine, ci sarebbe stata la scomparsa forzata del commercio, la lenta soppressione del denaro: il primo, un meccanismo ingombrante e divoratore; il secondo, un valore fittizio e inutile in una società in cui la produzione di tutti determinava una ricchezza prodigiosa, circolante in continui scambi. Così, partita dall’esperienza di Fourier, a ogni tappa la Città nuova si sarebbe trasformata avanzando verso una maggiore libertà e una maggiore equità, conquistando i socialisti di sètte nemiche, i collettivisti, gli stessi anarchici e finendo con il raccogliere tutti in un popolo fraterno, riconciliato in un ideale comune, nel regno dei cieli sceso infine in terra. Ed era questo spettacolo ammirevole e vittorioso quello che Luc aveva di continuo sotto gli occhi, la Citta della felicità i cui tetti di colori vivaci erano disseminati tra gli alberi davanti alla sua finestra.
Il percorso che la prima generazione, imbevuta di antichi errori, guastata da ambienti iniqui, aveva così dolorosamente avviato in mezzo a tanti ostacoli e a tanto odio, veniva portato avanti con passo allegro dalle nuove generazioni, istruite e rimodellate dalle scuole e dalle officine, che si spingevano verso orizzonti dichiarati fino ad allora chimerici. Grazie al continuo divenire, i figli e i figli dei figli sembravano avere altri cuori e altri cervelli, e la fratellanza era facile per loro in una società in cui il benessere di ciascuno era fatto del benessere di tutti. Insieme al commercio, anche il furto era scomparso. Insieme al denaro se n’erano andate tutte le forme di cupidigia criminale.
L’eredità non esisteva più, non nascevano più privilegiati oziosi e non ci si scannava per un testamento. Perché odiarsi, invidiarsi, cercare di impadronirsi dei beni altrui con l’astuzia o con la forza, quando i beni pubblici appartenevano a tutti e ognuno nasceva, viveva e moriva altrettanto ricco del vicino?
Il crimine si svuotava di senso, diventava stupido; tutto il selvaggio apparato di repressione e di punizione – le gendarmerie, i tribunali, le prigioni –, istituito per proteggere dal furto pochi ricchi contro la rivolta della folla immensa dei miserabili, era crollato perché inutile. Bisognava vivere tra questo popolo che ignorava l’atrocità delle guerre e obbediva all’unica legge del lavoro in una solidarietà fatta semplicemente di ragione e di interesse personale inteso nel suo senso positivo, per comprendere fino a che punto le cosiddette utopie della felicità universale diventavano possibili con un popolo salvato dalle mostruose menzogne religiose, istruito, capace di conoscere la verità e di volere la giustizia.
Le passioni, non più combattute, soffocate, ma al contrario coltivate come le forze stesse della vita, perdevano la loro durezza di crimini, diventavano virtù sociali, una continua fonte di energie individuali. La felicità legittima si trovava nello sviluppo e nell’educazione dei cinque sensi e del senso dell’amore, perché ogni essere umano doveva poter godere e trovare soddisfazione, senza ipocrisia, alla luce del sole. Il lungo sforzo dell’umanità in lotta conduceva alla libera espansione dell’individuo, a una società di completa soddisfazione, dove l’uomo godeva appieno della propria umanità e dove la vita era degna di essere vissuta.
La Città felice si era così realizzata nella religione della vita, la religione dell’umanità liberata dai dogmi che trovava in se stessa la propria ragione d’essere, il proprio fine, la propria gioia e la propria gloria. Ma Luc, soprattutto, assisteva al trionfo del lavoro salvatore, creatore e regolatore del mondo. Fin dal primo giorno aveva voluto la scomparsa, la morte, dell’ingiusta condizione del salariato, fonte di miseria e di sofferenza, base marcia del vecchio edificio sociale, ovunque pericolante. E aveva sognato un’altra cosa, la riorganizzazione del lavoro, il nuovo patto che avrebbe permesso una giusta ripartizione delle ricchezze. Soltanto, quante tappe era stato necessario superare prima di fare di questo sogno una realtà, e prima di arrivare a questa Città felice che lui aveva fondato!
Anche in questo caso, la spinta era venuta da Fourier, con l’associazione dei lavoratori, con le officine dove si svolgevano compiti vari, non eccessivamente pesanti, piacevoli, e dove i gruppi che si ripartivano il lavoro prima si separavano e poi si riunivano di nuovo, mescolandosi, in quel continuo gioco di liberi organi che è la vita stessa. Tutta la comunità libertaria era già in germe in Fourier perché, se egli aveva ripudiato la rivoluzione brutale, se aveva cominciato con il far leva sui meccanismi della società esistente, il risultato del suo sforzo, la sua speranza per il futuro, tendevano alla distruzione proprio di quella società.



Traduzione di Monica Fiorini

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