1.11.13

Shoah, deformazioni della memoria. Negare, banalizzare, sacralizzare (Alberto Burgio)

L’approvazione di una legge contro la negazione del cosiddetto “Olocausto”, il tentato genocidio nazista degli ebrei culminato nei campi di sterminio del Terzo Reich, è cosa molto discutibile. Essa affida alla legge, alle sanzioni, ai tribunali, la difesa di una verità storica che invece dovrebbe essere affidata all’evidenza delle prove e degli argomenti in un dibattito aperto, scientifico e democratico.
Una legge siffatta costituisce inoltre un grave precedente per costruire una sorta di “storia di stato”, capace di bloccare ogni ricerca sul passato guidata dal dubbio e dalla spregiudicata interrogazione dei documenti e delle testimonianze.
C’è di più, e forse di peggio: dentro questa operazione c’è una sorta di “sacralizzazione”, che è – come la negazione – una operazione deformante. Il testo che segue, recensione del libro recente di una semiologa di valore, Valentina Pisanty, è a questo proposito illuminante. (S.L.L.)
Auschwitz, Il memorial italiano
Negare, banalizzare, sacralizzare: cosa possono avere in comune queste tre azioni? A prima vista, nulla: parrebbero anzi escludersi a vicenda. E invece a guardar bene, almeno in un ambito discorsivo, l’una rimanda oggettivamente all’altra e tutte e tre creano, solidalmente, una forma (o una strategia) del discorso che ostacola, sino a precluderla, l’indagine storiografica.
L’ambito discorsivo in questione è la «narrazione» dello sterminio ebraico a opera dei nazisti; il campo degli intrecci perversi tra negazione, banalizzazione e sacralizzazione è la memoria collettiva dello sterminio, alternativa alla ricostruzione propriamente storica (dove quest’ultima è, per definizione, disponibile al vaglio critico di un uditorio universale perché interessata all’oggettività, la memoria è invece, costitutivamente, particolare e soggettiva, perché dettata da motivazioni radicate nel vissuto e legata a finalità specifiche, di natura politica o civile, pedagogica o morale). Il fitto e per molti versi paradossale gioco di rimandi tra negazioni, banalizzazioni e sacralizzazioni che ha luogo su questo scabroso terreno da una sessantina d’anni (ma che è entrato nel vivo soprattutto nell’ultimo trentennio) è ora analizzato con acume nell’ultimo libro di Valentina Pisanty – Abusi di memoria Negare, banalizzare, sacralizzare la Shoah (Bruno Mondadori, pp. 152, € 16,00), ideale sviluppo dello studio critico delle strategie interpretative e retoriche del negazionismo svolto nell’Irritante questione delle camere a gas: logica del negazionismo (1998).
L’idea-guida dell’analisi è che la memoria collettiva risulti (in generale) da un continuo conflitto tra «agenzie variamente motivate, e variamente potenti» e che – per quanto concerne in particolare il genocidio ebraico – su tale conflitto tre specifiche forme di «abuso della memoria» (appunto la negazione, la banalizzazione e la sacralizzazione della Shoah) esercitino un peso assai rilevante proprio in quanto si collegano tra loro in una «relazione triadica», dando forma a un «sistema complesso di dispositivi retorici interagenti». In concreto, secondo Pisanty, i negazionisti (che auspicano la rimozione dell’idea stessa del genocidio ebraico e la sua sostituzione con una riedizione del mito cospirazionista) non danno man forte soltanto ai banalizzatori (i quali cancellano ogni specificità del processo genocidiario inserendolo in uno schema generalissimo), ma anche – contro intuitivamente – ai sacralizzatori (che sottraggono la Shoah alla serie degli eventi storici per proiettarla in una dimensione trascendente, al riparo da qualsiasi incursione della ragione critica). In apparenza, si tratta di deformazioni tra loro contrastanti; in realtà, i tre abusi si incastrano e richiamano tra loro «come i pezzi di un puzzle».
Del resto – argomenta Pisanty – non c’è troppo da stupirsi, se si tiene presente che tutte e tre queste deformazioni ideologiche si contrappongono frontalmente a una stessa configurazione del discorso sullo sterminio: sono antitetiche alla ricerca storica, o perché si propongono di impedirla attraverso argomentazioni capziose, paralogismi e ipotesi deliranti (per i negazionisti l’archivio iconografico dello sterminio sarebbe frutto di fotomontaggi), o perché semplicemente ne prescindono, accedendo, l’una, al territorio dei luoghi comuni più facilmente assimilabili e commercializzabili, l’altra, all’ambito delle certezze metafisiche e dell’investimento religioso. In questa prospettiva, il negazionismo si rivela l’espressione estrema della banalizzazione (come Pisanty ricorda, di ciò si avvide già Primo Levi, consapevole di come la negazione delle camere a gas da parte di Robert Faurisson si saldasse al banalizzante schema revisionista di Ernst Nolte) nel momento stesso in cui si giova delle interdizioni sacralizzanti, da cui trae linfa «come una pianta che si nutrisse di diserbanti»; a sua volta la sacralizzazione tradisce spesso, a dispetto dell’intenzione drammatizzante (la Shoah come evento «unicamente unico»), un nocciolo di disarmante banalità, con l’innescare, certo involontariamente, la più desolante (e oscena) delle competizioni, quella tra le lobbies della memoria, intente a rivendicare la «palma della sofferenza» per la propria minoranza perseguitata.
Come si vede, la critica corre lungo un filo sottile e tortuoso: di necessità, poiché è tale lo sviluppo dei testi analizzati nei loro intrecci ed esiti paradossali; e per la vocazione dell’analisi semiologica, tesa a cogliere i tratti più sfuggenti del linguaggio, in virtù dei quali la forma e la tonalità del discorso sono di per sé costitutive della realtà rappresentata. Forse proprio dalla prospettiva analitica prescelta discende il solo limite (ma essenziale) dell’indagine, che isola il piano discorsivo (linguistico, semantico, retorico) e trascura il campo delle motivazioni – quindi delle premesse morali delle diverse posizioni – istituendo dubbie assimilazioni (difficilmente la motivazione sottesa alla sacralizzazione della Shoah sarà abietta, com’è invece sempre nel caso del negazionismo). Restano l’indiscutibile perizia analitica e la passione per l’argomento, premesse necessarie del prendere apertamente posizione su un terreno come questo, massimamente controverso. Basti qui un esempio, tra i molti possibili. Pisanty ricorda la polemica intercorsa di recente tra le promotrici di una manifestazione antiberlusconiana e alcuni loro critici, indignati per l’impiego «intollerabile» e «sacrilego» (come slogan della manifestazione) dell’espressione «Se non ora, quando?» tratta dalle Massime dei Padri e posta da Primo Levi a titolo di un suo romanzo. E, nel dissezionare le rispettive argomentazioni, non esita a porne in risalto le implicazioni sottaciute e i più imbarazzanti presupposti.
Enunciate con pacatezza, le conclusioni sono in realtà durissime: nell’un caso Pisanty denuncia un’implicita e «francamente scandalosa» interpretazione fondata sull’assunto secondo cui le vittime della Shoah si sarebbero sacrificate per consentire a Israele di esistere e di sopravvivere; nell’altro, pone criticamente in rilievo l’«atteggiamento difensivo-aggressivo» di chi, stabilita l’appartenenza della memoria della Shoah alla sfera del sacro, su tale opinabile base ritiene di dispensare condanne e di scagliare anatemi. Ma gli esempi potrebbero moltiplicarsi (ce n’è per tutti, a cominciare da celebri cineasti che sullo sterminio ebraico hanno prodotto racconti inverosimili o apologhi stucchevoli e fuorvianti).
La Shoah è un argomento difficile, disagevole da maneggiare, ancor più arduo da indagare criticamente. Sul perché ci sarebbe da dibattere a lungo, e non è escluso che, ricercandolo, ci si imbatterebbe nel tema fondamentale di questo libro, che resta tuttavia, e necessariamente, sullo sfondo: l’ingombrante questione della tenace persistenza dell’antisemitismo.


“alias domenica – il manifesto”, 5/2//2012

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