26.11.13

La "diversità" dei comunisti italiani (Enrico Berlinguer)

Nel gennaio 1981, per il 60° anniversario del Pci, Enrico Berlinguer rilasciò una lunga intervista alla redazione di “Critica marxista”, che aveva  come oggetto principale la “diversità” comunista, denunciata come “fattore k” dagli avversari, che ne ricavavano l’aprioristica esclusione dal governo, e orgogliosamente rivendicata dal segretario del partito, anche e soprattutto dopo lo strappo con l’Urss. Ne riprendo qualche brano. (S.L.L.)

D. - Il tema della «diversità» comunista è tornato di attualità nei dibattiti, nei discorsi, negli scritti per il sessantesimo anniversario della fondazione del nostro partito. Tu stesso hai parlato, in più occasioni, di una «originalità», di una «peculiarità», di una «alterità» e persino di una «anomalia» del nostro partito.
R.Ho già avuto modo di dire che anche noi, anche il Pci è figlio della rivoluzione russa del 1917, ma un figlio ormai adulto e autonomo. Se ci si giudica in base a ciò che effettivamente facciamo, pensiamo ed affermiamo in ogni sede e circostanza, con fermezza, con serenità e senza alcuna iattanza in Italia e fuori, credo che la nostra piena indipendenza si sia dimostrata effettiva al punto tale che per tutti dovrebbe ormai essere fuori discussione. E non credo nemmeno che valga la pena ricordare che da tempo abbiamo criticato ogni interpretazione totaliz­zante del ruolo del partito. La verità è che ciò che ci si rimprovera oggi, come sempre, è che un partito del movimento operaio qual è il Pci non ha rinunciato a perseguire l'obiettivo e a lottare per un mutamento radicale della società. Si vorrebbero partiti di sinistra che di fatto si accontentano di limitare la loro azione a introdurre qualche correzione marginale all'assetto sociale esistente, senza porre mai in discussione e prospettare una sistemazione profondamente diversa dei rapporti che stanno alla base della struttura economica e sociale attuale. La principale diversità del nostro partito rispetto agli altri partiti italiani, oltre ai requisiti morali e ai titoli politici che noi possediamo e che gli altri stanno sempre più perdendo (e che tu hai opportunamente ricordato), sta proprio in ciò: che noi comunisti non rinunciamo a lavorare e a combattere per un cambiamento della classe dirigente e per una radicale trasfor­mazione degli attuali rapporti tra le classi e tra gli uomini, nella direzione indicata da due antiche e sempre vere espressioni di Marx: non rinunciamo a costruire una «società di liberi e uguali», non rinunciamo a guidare la lotta degli uomini e delle donne per la «produzione delle condizioni della loro vita». L'obiezione che ci viene fatta è che questo nostro finalismo sarebbe un modo di voler imporre alla storia una destinazione. No, questo è il modo in cui noi stiamo nella storia, è la tensione e la passione con cui noi agiamo in essa, è la speranza indomabile che ci anima in quanto rivoluzionari. Consapevoli che, invece di avere uno sviluppo dell'umanità, si possa andare anche verso una nuova barbarie (come dice il Marx del Manifesto, verso la «comune rovina delle classi in lotta), noi ci battiamo perché questo esito catastrofico sia evitato all'uma­nità, e chiamiamo a combattere per conseguire un fine di felicità, di serenità, di giustizia, di libertà. […]
L'«assalto al cielo» — questa bellissima immagine di Marx — non è per noi comunisti italiani un progetto di irrazionali­stica scalata all'assoluto. Da storistici, quale era lo stesso Marx (e i nostri Labriola, Gramsci, Togliatti), non ci muoviamo sul piano di un esaurimento della storia: tendiamo invece tutte le energie di cui siamo e saremo capaci per rendere concreto e attuale ciò che è maturo dentro la storia, ce ne facciamo «levatrici», favorendo con il lavoro e con la lotta la processuale fuoriuscita della società dall'assetto capitalistico che, per dirla con le parole del vecchio Engels, ormai veramente “merita di morire”.

D. - Qual è la radice della nostra «anomalia»? In che cosa consiste e come si manifesta la nostra autonomia?
R.Oggi, lo sforzo della classe operaia (e del partito) per affermare la propria autonomia ideale e politica rispetto alla società capitalistica nasce dalla ripulsa dei «valori» dominanti. Per esempio, uno dei valori costitutivi e fondanti delle società capitalistiche è l'individualismo, la contrapposizione fra gli individui, la lotta di ciascuno contro tutti gli altri, di ciascun gruppo o corporazione chiusa in se stessa contro tutte le altre. La classe operaia, e noi comunisti, tendiamo ad affermare invece il valore della solidarietà di classe e della solidarietà di tutti gli oppressi e gli sfruttati. Con ciò è chiaro che noi apriamo una lotta, perché siamo convinti della necessità, della possibilità e della utilità generale di costruire rapporti nella società e nello Stato fondati sul ribaltamento di quel valore, di quella idea base del capitalismo che è appunto l'individualismo.
Ma l'affermazione e la dichiarazione non bastano: bisogna calare questo valore della solidarietà dentro una politica di trasformazione, altrimenti tale valore rivoluzionario si trasforma in quel banale e qualunquistico detto, secondo il quale «stiamo tutti nella stessa barca».
La difficoltà in cui si sono imbattuti i partiti socialdemocratici sta proprio in ciò: che la loro politica, illudendosi di essere «realistica e concreta», nei fatti è diventata spesso adeguamento alla realtà così come essa è, e ha portato alla messa in parentesi dell'impegno al cambiamento dell'assetto dato, li ha portati cioè all'offuscamento e alla perdita della propria autonomia ideale e politica dal capitalismo. La nostra «diversità» rispetto alla socialdemocrazia sta nel fatto che a quell'impegno trasformatore e a quella autonomia ideale e politica noi comunisti non rinunceremo mai.
Quando, per esempio, noi vedemmo che la nostra partecipazione ad una maggioranza di governo non serviva, per altrui volontà, ad avviare un processo di cambiamenti reali, anche se soltanto parziali, del modo di governare lo Stato e di far vivere la gente, non esitammo ad abbandonare quella maggioranza che funzionava ormai in modo antitetico all'obiettivo per cui era nata e cioè far vivere una solidarietà che servisse a far rinascere a rigenerare l'Italia.

Ora in Berlinguer, attualità e futuro, supplemento a "l'Unità", 11 giugno 1989

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