25.11.15

Montale sentimentale. Ficara legge i Mottetti (Raffaele Manica)

Il 1939, nel contesto infelicissimo, fu anno mirabile per la poesia italiana se videro luce Le occasioni di Montale e, un esordio, le Poesie di Penna. È stato Cesare Garboli, in un piccolo libro, Penna, Montale e il desiderio, a mettere in relazione strettissima i Mottetti, sezione memorabile delle Occasioni, con Penna: «Sovrapporre queste due orbite non avrebbe alcun senso», scriveva Garboli, affacciando però il sospetto «che il Montale dei Mottetti, nel tecnicismo di un canzoniere d'amore risparmiato dal sentimento» si fosse servito abbondantemente di Penna, letto grazie agli allegati dattiloscritti di una corrispondenza epistolare. Interessa qui, oltre questo rapporto di dare e avere, qualche osservazione di Garboli: «La novità dei Mottetti è l'amore, lo disse per il primo, mi sembra, Contini nel 38, quando la serie era ancora in viaggio, e tutti lo ripetono come rosa rosae: ma amore cosa? amore quale? Visitati da un ente angelico, accentrati su epifanie, costruiti su passato e presente, fondati sulla depressione dell'io, i Mottetti sono un canzoniere dominato da un'anomalia del desiderio e, parallelamente, da un'indefinibilità tonale», e continuava scrivendo di una strategia dell'«indeterminazione, che è poi il grande virtuosismo di fare apparire e sparire il desiderio sovrapponendo il fisico e il metafisico».
La diagnosi può essere discussa, ma i sintomi sono questi. E altri, aggiunti da Garboli più avanti: i Mottetti che mettono in essere «un rapporto tra due amanti disturbato da voci, rumori, immagini interferenti, ma tali da fare di questa interferenza non un disturbo, ma un disturbo funzionale, la condizione necessaria allo scatto di eventi, cortocircuiti, lampi dove si consumi [,..]una suprema e mistica cognizione mentale»; con i Mottetti che si potrebbero definire «la frustrazione di un desiderio, se in realtà essi non fossero il diario rassegnatamente atroce di un amore sublimato non per la forza con cui si compie la sublimazione del desiderio, ma perché il desiderio è inerte o censurato»: una situazione stilnovista, insomma, che diventa un petrarchismo alla rovescia, con tanto di «interiezioni petrarchesche» che, platonicamente, uniscono il fisico e il metafisico.
Non smettevano di ritornare in mente queste pagine di Garboli durante la lettura del libro intenso e tenace che Giorgio Ficara ha dedicato ai Mottetti col titolo insieme ironico e tecnico di Montale sentimentale (Marsilio, 2012). I Mottetti, nonostante i commenti a disposizione, permangono un enigma fascinoso, e l'assedio di Ficara è un combattimento che lavora sui lati, continuamente intravedendo un centro che è come un bersaglio mobile: c'è, ma come nella famosa metafora formulata da Debenedetti sulla scia della fisica, ora è un punto ora è pura energia. O, per la sua inattingibilità, si pensi a quanto osservato da Agamben sull'ultimo Caproni: «l'inappropriabilità e l'infigurabilità del bene»: col che il senso della lettura di Ficara (anche serrata meditazione, benché indiretta, sullo statuto della critica) coincide con la forma del testo che ha di fronte.
«Sentimentale», del resto, è aggettivo riferibile a una canzonetta o a una tragedia (e l'ampio spettro di significato sta nel libro, a partire dal grado zero iniziale: «sentimentale, col cuore pesante», «effusione sentimentale»: da qui non si fa che innalzarsi); ma sentimentale è anche un piano tecnico del discorso, una retorica e dunque un modo di organizzare il pensiero. E dunque: «Ma sentimento cosa? sentimento quale?», deve essersi chiesto Ficara. E da lì ha costruito un libro fortemente analitico dove ogni conclusione provvisoria è l'inaugurazione di un altro percorso (nemmeno aiutato dalla constatazione che il cinismo, il leggendario cinismo di Montale, è l'ultimo vestito indossato dai sentimentali - o viceversa che il sentimento è un abito cinico: perché proprio nei Mottetti, forse fino ai Mottetti, Montale cinico non è), come se la risposta all'enigma non potesse essere che una domanda diversamente posta, e magari implicita, sporta su un'altra domanda.
Non se ne può riferire minutamente, dunque, così come i Mottetti non si possono raccontare: se sono un romanzo, in quanto introflessi - sul piano formale - e introversi - sul piano mentale -, sono un romanzo non lineare, e quel che vi succede è atomizzato, ridotto così come per conseguenza della lotta tra spirito e materia, che si sopraffanno e confondono e scambiano: la lotta con l'angelo, ma anche l'angelo in lotta. Non perché, secondo sentenza paolina, la lettera uccide ma lo spirito vivifica (certe volte è vero il contrario; o il contrario dà più senso e salute alla lettura), ma davvero il discorso di Ficara si configura come un'orazione il cui scopo è un commento spirituale ma aggrappato alla lettera, e inquieto.
Il tessuto di questa spiritualità ha una tramatura filosofica, infissa nella contemporaneità di Montale e nostra; ma basta una scheggia di testo per rendersi conto di come l'uso dei richiami filosofici non si sottragga alla stretta filologia: se ne ha per esempio traccia nel Cartesio della prima meditazione come fonte di un testo degli Ossi di seppia.
Incasellare le figure femminili in Montale si può e si deve, fa qualche luce sulla biografia e, di riflesso, sulla poesia là dove si incrocia con la biografia. Ma nello svolgimento del discorso di Montale, e nel libro di Ficara, le figure femminili si sovrappongono, come specificazioni di un'unica figura, come epifanie che ora mostrano ora nascondono la divinità. È proprio la dialettica di presenza e assenza, di salvazione e dannazione che distingue ma non separa Clizia, Mosca e le altre. Sono donne diverse, in poesia, perché diverso è il momento del discorso di Montale. Fin quando, dopo la morte di Mosca, l'assenza è toccata fisicamente, ma ancora disperatamente protesa verso la metafisica («perché se non sei / è solo la mancanza / e può affogare»). Lì, col sentimentale, convivono il cinico e lo scettico, e il nichilista di sempre.

“alias domenica il manifesto”, 10 giugno 2012


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