25.11.15

Eschilo. Un'immagine contrastata (Luigi Battezzato)

Dodici donne africane arrivano in scena. Scappano per sfuggire alla violenza sessuale dei loro cugini maschi. Chiedono asilo. Così Eschilo, nel quinto secolo avanti Cristo, inizia le sue Supplici. Il «nero fiore, bronzea gente impressa dal sole» trova salvezza in una città in cui «il decreto del popolo, deciso con un voto unanime di tutta la città» stabilisce «di non consegnare mai queste donne alla violenza». La tragedia si chiude con una richiesta: Zeus «dia supremazia alle donne».
Un Eschilo femminista e protettore dei rifugiati politici? Anche questa va aggiunta alle tante immagini del poeta. L’introduzione del recente «Meridiano» Mondadori, a cura di Monica Centanni (Le tragedie, pp. 1254, € 49,00), esplora alcune di esse: Eschilo guerriero, Eschilo cittadino, Eschilo (modernamente) inventore di una rappresentazione di Atene. Altri Eschili lo hanno preceduto: Eschilo pio conservatore, ammiratore sbigottito della «violenza degli dèi»; democratico e rivoluzionario; severo e solenne; ammiratore dei tribunali, e del terrore religioso che tiene insieme la polis. Eschilo però ha anche scritto i versi in cui Achille ricorda le affascinanti gambe del suo amante Patroclo; quelli in cui Apollo, seguace dell’avanguardia scientifica e filosofica del V secolo, dimostra che la madre non ha rapporto di sangue con il feto. Eschilo non sembra preoccuparsi di moltiplicare sconcertanti contraddizioni.
Le esuli dell’Africa vengono accolte, sì, ma dopo aver dimostrato di essere in realtà discendenti di Zeus, e di una donna greca; una politica di accoglienza che si basa sulla giustizia e gli ordini divini, ma che non disdegna il sostegno di un supporto razziale, politicamente meglio spendibile. Nel seguito della trilogia, di cui noi abbiamo solo riassunti, le donne sposavano i loro cugini, contro voglia. Li uccidevano tutti. Solo una salvava il marito, per amore.
È facile immaginare come queste trilogie continuassero. Così facile che si sono immaginate troppe soluzioni differenti, scavando tra le pieghe del mito, o ricombinando le simpatie della tragedia iniziale. Chi soffre diventa ingiusto, chi è colpevole diventa vittima. A volte. Così per Prometeo: come si concludeva la trilogia? Il tirannico Zeus scendeva a patti con il Titano ribelle? O la superbia del ribelle si piegava alla crudele giustiza divina? La contraddizione rimane, come spiega Oreste nelle Coefore: «Ares combatterà con Ares, Giustizia contro Giustizia». Oreste vince, e viene assolto grazie ad Apollo e Atena; ma gli dei vincitori si alleano con le Furie sconfitte, per mantenere l’ordine sociale ad Atene.
La perdita di tante tragedie ha reso questi testi così ricchi di contrasti ancora più aperti. Ha anche reso Eschilo più solo e più arcaico di quanto lo sia: comparendo come primo campione del genere tragico, sembra che le sue durezze e le complessità del suo stile siano qualcosa di non risolto, di ereditato da un passato che non conosciamo. Eschilo ci guarda severo dalla custodia di questo «Meridiano»: un vecchio senza capelli, con una lunga barba in spesse ciocche, e con la fronte accigliata. Disapprova noi, che pensiamo di capire.
Monica Centanni ha tradotto Eschilo: le sette tragedie integre, e i frammenti relativi alle tetralogie di quelle sette tragedie. Lo ha commentato. Chi cerca una rapida spiegazione di un’allusione mitica, o un riferimento a cosa gli studiosi precedenti hanno pensato di Eschilo, rimarrà deluso. Chi è interessato a seguire il filo delle metafore, dei temi e delle idee, troverà molto. Ad esempio il Prometeo è tradotto in una quarantina di pagine, e commentato in circa sessanta. Non si tratta di un commento continuo: piuttosto una serie di letture, intitolate con una incisività giornalistica: «fantasmi dal mare»; «teatro come città»; «il ricatto a Zeus»; «il bestiario simbolico»; «preservare il tremendo». Le sezioni si concentrano su una parte di una scena, su un problema, un motivo, e comprendono al loro interno spiegazioni, glosse, note di regia. Non ci sono discussioni dei molti studi critici sul poeta; chi è specialista può intuire dalla bibliografia le fonti, le simpatie e le antipatie della curatrice.
Chiunque traduca Eschilo si chiede, come Cassandra nell’Agamennone, «Sbaglio? oppure come un bravo arciere ho colto nel segno?». E infatti il testo di Eschilo è impenetrabile come la mente di Zeus: «la sua intenzione non si lascia mai catturare», e l'interprete prova sgomento di fronte ai «sentieri della sua volontà, indecifrabili, inespressi». La Centanni esprime e decifra. Tutto diventa chiaro; molto chiaro. A volte troppo. «Se a terra un uomo morendo il nero sangue della morte ha versato, chi mai potrà richiamarlo in vita con un incantesimo?». Così si domanda il coro dell'Agamennone. Ma il coro parla di richiamare il sangue: un’immagine inquietante, quella del sangue che si alza da terra. Sciogliendo la densità dell’immagine eschilea, qualcosa va perduto. Ma qualcosa va perduto in ogni traduzione, e bisogna applaudire questa per la coerenza delle scelte.
La Centanni discute le figure retoriche di Eschilo in un’utile appendice. Ne aggiunge spesso una nella sua traduzione: l’aposiopesi. Il sublime spesso lo rende così. Il sublime kantiano, la furia degli elementi alla fine del Prometea «...ecco la terra trema, l’eco cupa del tuono ... è già un boato ... spirali, lampi abbaglianti di fuoco... un turbine solleva volute di polvere». E il sublime dell’orrido e del soprannaturale, la profezia di Cassandra: «questa casa... c’è un coro che non cessa mai: un concerto di voci, e non sono propizie. C’è già stato il simposio: loro... hanno bevuto e sono diventate ancora più prepotenti... un simposio di sangue umano...». Le figure di reticenza suggeriscono l’impossibilità di rendere il livello stilistico del testo antico con la nostra lingua.
La Centanni traduce il testo critico pubblicato da Martin West per la Teubner. Una splendida edizione del 1990. Splendida nei suoi successi e nelle sue cadute. Alla fine delle Supplici gli altri editori leggevano nonsense: «i frutti stillanti annuncia Afrodite kalora (?) impedendo thos (?) rimanere in eros». West, con un piccolo rimescolamento di lettere greche, ci dà: Afrodite «mette all’incanto frutti stillanti e acerbi, ammorbidendoli con il suo calore, fino a farli impazzire di eros» (la Centanni dimentica «impazzire di eros», purtroppo). Non so se questo è ciò che ha scritto Eschilo, ma è un’immagine degna di lui. Però nell’Agamennone ahimè leggiamo che il protagonista «non sa che la cagna odiosa con la sua lingua lo lecca e si avvicina festosa al suo orecchio, e poi ... ecco lo morde». La Centanni, qui, sforzandosi di rendere accettabile l’impossibile testo di West, ammorbidisce le incongruenze e piega un po’ troppo la sintassi. Ma il testo di West, tradotto, non funziona: «non sa quali morsi sa dare la lingua (!) della cagna odiosa, dopo aver leccato, e dopo aver piegato il suo orecchio festoso». Un collage di membra animali da bestiario medievale.
La Centanni ritiene il testo di West «il miglior testo di Eschilo disponibile, semplicemente perché è l’ultimo in ordine di tempo»: giudizio forse vero, ma non per questo motivo. Altre ragioni per preferire quest'edizione, più valide e accorte, le elenca la Centanni nell’introduzione; a volte nelle note accenna a qualche sua perplessità di fronte ad alcune scelte. Più decisione, e maggiore indipendenza avrebbero eliminato alcuni passi problematici. West mette tra parentesi graffe le parole dei manoscritti che considera non di Eschilo, perché guastano il senso, o la sintassi o la metrica. Questo è un procedimento normale nelle edizioni critiche; ma la Centanni traduce anche queste parole, con un effetto leggermente surreale: «chi sta nella penombra (angoscia) attende di avere fortuna». Chi apre il volume una prima volta avrebbe bisogno, per questi dettagli, di un aiuto in più.
Ci vuole coraggio per tradurre e commentare tutto Eschilo. E questa edizione riesce meglio quanto più è indipendente, quanto più segue una sua linea: una informazione chiara sulle opere e sulla vita; utili, rapide introduzioni; un commento ai contenuti, e non all’erudizione; una traduzione moderna e scorrevole.


“Alias il manifesto”, 27 settembre 2003

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