17.1.17

Giovanni il corruttore. Gentile, il filosofo al potere (Nello Ajello)

Ho intervistato alcuni mesi fa Alessandro Natta e abbiamo parlato a un certo punto di Giovanni Gentile. L'attuale segretario del Pci ebbe occasione di conoscerlo da vicino frequentando la Scuola Normale di Pisa, di cui il filosofo era direttore. Nei tardi anni Trenta, quella Scuola era un covo di antifascisti. E Gentile com'era?, ho chiesto al segretario del Pci. "Un corruttore", è stata la risposta. E poi, freddamente: "Ho sempre ritenuto che Gentile dovesse finire com'è finito".
Come sia finito Giovanni Gentile è noto. Il 5 aprile del 1944, a Firenze, tre giovani gli spararono attraverso il finestrino della sua macchina. Il filosofo morì subito. Venti giorni più tardi, sull'“Unità”e poi su “Rinascita”, Togliatti in persona attribuì al proprio partito la soppressione di Gentile, "traditore volgarissimo", "bandito politico", "filosofo bestione", "canaglia". Sono passati quarant'anni e oggi Natta non trova molto da cambiare in quel necrologio. Per la sinistra - almeno per quella rappresentata dal Pci - la glaciale ferocia adoperata a suo tempo per chiudere il "caso Gentile" non contempla pentimenti.
Siamo partiti dal fondo della storia, ma ad autorizzarci è proprio il libro di cui vogliamo parlare. Ne è autore un diplomatico, Sergio Romano, attualmente ambasciatore italiano presso la Nato a Bruxelles. S'intitola Giovanni Gentile, la filosofia al potere (Bompiani, pagg. 352, lire 22.000). Fin dalle prime righe, quest'opera sospinge il lettore verso il finale di cui s'è detto. E non è soltanto perché ci si trova di fronte a un romanzo di cui, per così dire, s'è già letta l' ultima pagina. E non è neppure - o non è soltanto - una scelta stilistica dell'autore, un suo criterio espositivo. È che la vita di Gentile contiene in sé qualcosa di teatrale, di ostinato, di provocatorio, che sembra preannunciarne l'epilogo.
Il racconto che Romano ne fa è accurato, pieno di finezze e di "distinguo" psicologici, teso ad esporre le tesi filosofiche, anche le più aggrovigliate e controverse, con chiarezza discorsiva (e si capisce come mai lo stesso Romano abbia pubblicato l'altr'anno, con Vanni Scheiwiller, una plaquette contenente cinque brevi saggi su temi linguistici, intitolata appunto La lingua e il tempo). Su alcuni aspetti della vicenda gentiliana, come la lunga amicizia del filosofo con Benedetto Croce e la rottura fra i due, non si potrebbe desiderare un quadro più esauriente. Esso si estende lungo quei vent'anni, e più, nel corso dei quali l'Italia sembrò avviarsi a diventare "il paese dei filosofi", ma va anche oltre, perché i rapporti fra i due fondatori della “Critica” continueranno, nella polemica, a influenzare la cultura del Novecento.
Di quella prima metà del secolo, Gentile fu protagonista con un'intensità che di rado un filosofo raggiunge. Le molte forme che può assumere il rapporto fra cultura e potere vennero da lui esplorate con tenacia quasi mistica. Siciliano (era nato a Castelvetrano, in provincia di Trapani, nel 1875, nove anni dopo Croce), sembra confermare l' immagine più consueta che si suole assegnare ai suoi conterranei. Energico, volitivo, aggressivo, incline al settarismo, aspro con gli avversari, esigente e fazioso nelle amicizie, egli contemplava accanto a tante durezze aspetti fin troppo "morbidi", di inguaribile ascendenza provinciale e meridionale. La sua docilità di fronte alla "cerchia ristretta e prepotente degli affetti familiari", la sua ossessiva ricerca di consorterie solidali nella selva della diplomazia universitaria, la sospettosità, l'aspro vittimismo, il moralismo a senso unico ci richiamano a quella contraddizione fra comportamenti pubblici e privati, fra enunciazioni etiche e azioni pratiche che appartiene a un costume perenne.
Che tutto ciò venisse ampiamente bilanciato, in Gentile, da insolite doti d'ingegno è pacifico. Armato d'un simile carattere, Gentile si lanciò molto presto - e in realtà fin dagli esordi - nel fare politica, cioè politica della cultura, che per lui significava pedagogia nel senso più ampio e "vorace" del termine. Cioè, da un lato, attenzione tecnica alla scuola in tutte le forme, e dall'altro ricerca e sfruttamento di tutti gli strumenti adatti a diffondere il suo magistero filosofico: ciò che egli, in sostanza, considerava la Filosofia con la maiuscola, e poi finì sempre più per cercare (o sognare) d'imporre come dogma di partito.
Il viaggio del filosofo dell'"idealismo attuale" attraverso quarant'anni di vita italiana fu tanto esemplare da farne un eroe del nostro tempo, specie di quella parte saliente del nostro tempo che furono il fascismo, i suoi slogan politico-ideologici, le sue avventure imperiali, le sue tragedie militari e civili. Sempre presente, Gentile, in quei vent'anni. Sempre coinvolto, pur fra gli alti e bassi della sua fortuna e della sua influenza. Sempre vestito e parlante da Filosofo. La sua guerra di conquista del potere culturale - dal ministero della Pubblica Istruzione all'Enciclopedia italiana, dall'Istituto Fascista di cultura alla Scuola Normale, dalle case editrici alle riviste - cominciò presto a differenziarsi, come qualità, intenzione, metodi, da quella lunga attività tesa alla "rinascita dell'Idealismo" che lui stesso aveva svolto gomito a gomito con Croce. Da non esperto di filosofia posso sbagliarmi; penso tuttavia che la contesa fra i due, Croce e Gentile, apparirebbe oggi incomprensibile, o perfino pretestuosa, se fosse rimasta ferma ai suoi dati iniziali: il superiore scetticismo col quale il pensatore siciliano prese a considerare la "mania" di Croce per la dialettica dei distinti o le accuse di "misticismo" che Croce, in risposta, cominciò a muovere allo Stato etico nella versione gentiliana. Certo, erano già presenti, in questo dibattito, i sintomi di due discordanti visioni del mondo. Ma solo la storia politica del nostro paese si sarebbe incaricata di rendere esemplare e largamente accessibile quel litigio filosofico. Fu il fascismo a fare da barricata tra i due.
Da una parte c' era un liberale all' antica, Croce, che verso il regime littorio aveva avuto qualche iniziale propensione dovuta a illusione, o leggerezza, o indulgenza; ma poi se n'era ritratto, rappresentando alla fine un punto di riferimento ideale per gli oppositori democratici (anche per tanti di coloro che nel vecchio mondo liberale non potevano più riconoscersi appieno). Dall'altra parte c'era Gentile, un fascista vero, spinto a quella scelta di parte dalla stessa coerenza con i propri princìpi, che ne facevano uno Statolatra inflessibile (almeno in teoria), un apostolo dell'identità fra Stato e individuo, un difensore della libertà solo in quanto "il massimo della libertà coincida col massimo della forza dello Stato": e si tratta - è chiaro - di un sofisma mistificante ad uso di tutte le dittature. Questa visione "totale" dell'esistenza era fascismo in atto, anzi un superfascismo inapplicabile alla lettera, a causa del suo stesso rigore. Basta, per capirlo, leggere le pagine che Romano dedica al processo di parziale sgretolamento cui i governanti fascisti sottoposero la riforma scolastica di Gentile: troppo elitaria, umanistica e sospetta di "classismo", certo, più di quanto potesse permettersi un regime reazionario sì, ma "di massa". Il peccato di Gentile non consistè dunque nell'incoerenza di un liberale che diventa fascista: liberale, in verità, non era mai stato. Si trattò invece di un lucido eccesso di coerenza ideologica da parte di un filosofo che trovò la forma statuale, storica, nella quale incarnare le proprie teorie. Certe frasi encomiastiche da lui rivolte all'"Uomo che a palazzo Chigi (lì Mussolini esordì, prima di trasferirsi a palazzo Venezia) lavora giorno e notte nel travaglio di una passione fiammeggiante per la grandezza della Patria, i grandi occhi intenti rivolti su voi, su tutti gli italiani" non odorano perciò di vaudeville, come quando le recita un gazzettiere di regime. Sono invece indice di una tragedia vera, adeguata all'altissimo ingegno di chi le pronunzia. E così la retorica esaltazione - cui Gentile si abbandonò un mese prima di morire - per Hitler, "Condottiero della Grande Germania".
Questi severi imperativi dell'ideologia presentavano anche qualche smagliatura, com'era tipico del carattere di Gentile, sempre oscillante fra secche enunciazioni teoriche e comportamenti a volte accomodanti. Su queste sue "benemerenze" insiste forse un po' troppo il diplomatico Romano. È vero, ad esempio, che l'Enciclopedia Treccani da lui diretta non fu nè una falange di "sciarpe littorie" per la gente chiamata a redigerla, né un catechismo fascista per le cose che ci sono scritte; tutt'altro. Ma è anche vero che negli "imperialisti della cultura" del rango di un Gentile l'inclinazione al compromesso è sempre presente. Fa parte del programma.
Ci sono infine i suoi allievi. Gentile ne ebbe tanti. "Avvinceva i discepoli con la sua calda umanità", dichiara Alessandro Galante Garrone (un testimone non sospettabile di indulgenze), nel suo libro I miei maggiori; e ricorda che perfino Gobetti, in un empito di ingenuità che commuove se si pensa alla sua fine, parlò una volta di Gentile come di un "maestro di moralità". Alla fidanzata dello storico Adolfo Omodeo, Eva Zona, Gentile apparve come un "mite professore dalla gigantesca persona", quasi un patriarcale dispensatore di scienza. E così tanti altri ne subirono il fascino: da Ernesto Codignola a Giuseppe Lombardo Radice, da Ranuccio Bianchi Bandinelli a Guido De Ruggiero, da Aldo Capitini a Guido Calogero e allo stesso Omodeo. Più d'uno, fra loro, si avvicinò, a metà strada o alla fine, a Croce; quasi tutti, con diverse sfumature, passarono all'antifascismo attivo. Si può pensare che sia stato merito, se non dell'esempio di Gentile, almeno del suo insegnamento? È un azzardo troppo generoso. In un commosso articolo che Tristano Codignola scrisse poco dopo la morte del filosofo, fra tanti grati riconoscimenti per i suoi meriti giovanili si afferma tuttavia che egli "ebbe una parte preponderante nel mercimonio e nella corruttela delle coscienze d'intere generazioni di giovani". E questo - con tutto il postumo rispetto, l'umana pietà e anche l'orrore che suscita la sua fine - resta, per Giovanni Gentile, un equo epitaffio.


“la Repubblica”, 16 novembre 1984

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