9.1.17

Medioevo mediterraneo. Merci e miti in movimento (Marina Montesano)

Due libri recenti, Alessandro Magno. Eroe arabo nel Medioevo di Marco Branco e Architetture del commercio e città del Mediterraneo di Alireza Eslami, con la riedizione del Viaggio alla Mecca di Ludovico de Varthema, confermano l'intensità degli intrecci mercantili e culturali sulle rotte mediterranee in età medievale e oltre
La partenza di Marco Polo in una miniatura medievale
Dopo la caduta della pars Occidentis, il mare nostrum dell'impero romano aveva trovato nuovi dominatori. Al volgere del primo millennio d.C., il commercio mediterraneo era saldamente nelle mani dei mercanti bizantini e soprattutto arabi. Costantinopoli era il grande centro di smistamento di tutte le merci che venivano dal mar Nero, dal nord (attraverso i fiumi russi, il Don soprattutto, arrivavano le pellicce, il miele, il legname, l'ambra) e soprattutto dal sud e dall'estremo Oriente, aree da cui giungevano i prodotti più pregiati.
Altri empori importanti erano Antiochia, Alessandria d'Egitto e Damietta sulla foce del Nilo, e Beirut, che era il porto «naturale» della città di Damasco. Damasco a sua volta era il grande emporio a cui arrivano le merci pregiate, soprattutto le spezie, dal centro dell'Asia o dall'Asia estrema. Ma le spezie arrivavano anche dall'Asia per via di mare, attraverso l'Oceano Indiano, col favore del clima monsonico che permetteva sviluppi abbastanza rapidi della marina a vela. Attraverso l'Oceano Indiano le flotte cinesi, indiane, arabe portavano le spezie di Giava, di Sumatra, della Malesia fino al Corno d'Africa; e da qui passavano all'Egitto attraverso il Nilo, oppure risalivano il Mar Rosso e in questo caso arrivavano tanto, di nuovo, in Egitto quanto verso la Siria, la Palestina e così via.

Il bazar genovese
Anche se le merci più pregiate provenivano dal continente asiatico, i traffici mediterranei avevano un segmento importante anche nella porzione occidentale del Mediterraneo, una sorta di imperfetto triangolo che collegava Sicilia, Maghreb e al-Andalus. Gli archivi della Geniza del Cairo conservano documenti dai quali emerge una presenza precoce di mercanti occidentali che si muovevano fra questi porti, e anche oltre. Mercanti baresi, veneziani, amalfitani, pisani e genovesi sono attestati in molti porti del Mediterraneo bizantino e arabo già dal X secolo. Dal successivo, tuttavia, alcune fra queste città si fecero più intraprendenti, accostando brevi spedizioni militari al normale traffico dei commerci.
Intorno al Mille diversi centri urbani italo-bizantini affacciati sul mare avevano già raggiunto livelli di vita e capacità commerciali assai elevate. Dal principio del IX secolo Amalfi, Napoli e Salerno battevano una moneta propria, che derivava dal tarì arabo, segno che l'Islam, non solo Bisanzio, era la loro area privilegiata di scambio. Da questi intrecci prende le mosse Alireza Naser Eslami in Architetture del commercio e città del Mediterraneo. Dinamiche e strutture dei luoghi dello scambio tra Busanzio, l'Islam e l'Europa (Bruno Mondadori 2010, pp. 218, euro 21): uno studio in cui si evidenzia come questa rete abbia influito sui destini architettonici delle città commerciali.
Fra tutti i centri italo-bizantini, comunque, doveva essere Venezia a lanciarsi verso un futuro di grande portata, riuscendo a intrecciare interessi fondiari e commerciali con attività agricole e finanziarie in un impero marittimo di immensa portata. Resa sicura la navigazione in Adriatico tra il IX e il X secolo con la forza e con gli accordi, al principio dell'XI secolo la rete di interessi dei veneziani si estendeva fra Costantinopoli, la costa siro-libano-palestinese, il nord-Africa e la Sicilia. Nonostante i reiterati divieti imperiali, da Oriente e da Occidente, e papali, Venezia vendeva agli arabi generi proibiti come il legname, il ferro e gli schiavi provenienti soprattutto dall'Istria, dalla Slovenia e dalla Croazia.
Poiché siamo soprattutto portati a valutare la presenza dei mercanti europei in Oriente, con i loro fondaci, tendiamo spesso a dimenticare quanto i mercanti arabi fossero presenti in Occidente. E non solo loro: «Molti stranieri - scrive Eslami - si stabiliscono anche a Venezia che, tra la fine del XII e gli inizi del XIV, diviene uno dei nodi più importanti di scambio commerciale tra Oriente e Occidente: agli Italiani di altre città si uniscono Dalmati, Albanesi, Turchi, Tedeschi, Persiani, Greci, Armeni, Arabi, Ungheresi, Russi e naturalmente Ebrei. La presenza di una colonia greca, già a partire dal IX secolo, è da ritenere probabile (...). I Turchi abitavano a San Giacomo dall'Orto, nel Fondaco dei Turchi. Sul Canal Grande vi era invece il Fondaco dei Persiani, per non parlare del noto Fondaco dei Tedeschi».
Altrove, più che singole emergenze architettoniche, è la struttura della città a evocarne la vocazione mediterranea: «Un elemento più volte sottolineato ed osservato è il fatto che nella Genova medievale mancava una "piazza" che fosse dimensionata in base alle esigenze comunitarie dell'intera cittadinanza. Ciò, invece, accadeva di norma in tutte le altre città europee del Medioevo. La spiegazione di questa circostanza è che la funzione assolta, nelle altre città, dalla piazza comunale, era assolta a Genova dal complesso bazarra di Ripa: la vasta rete commerciale che si forma va a costituire uno spazio così esteso da diventare il più importante spazio collettivo per eccellenza in cui incontrarsi e scambiare, oltre alle merci, anche esperienze di vita sociale. Questa eccezione conferma in tutta chiarezza la regola, anche se appartenente a un altro sistema urbano. Si tratta della "regola", per così dire, tipica delle città islamiche del Medioevo, caratterizzate dall'assenza della piazza: erano infatti qui le strutture del suq e bazar ad assorbire tutte le funzioni collettive».
Alcuni storici hanno usato il concetto di «rivoluzione commerciale» per indicare il complesso di fatti economici, sociali, tecnologici che hanno accompagnato il ridursi in Europa dell'importanza dell'agricoltura come traino dell'economia, e l'affermarsi di attività diverse: il commercio, l'artigianato su scala manifatturiera, gli strumenti di cambio e di credito, ossia l'insieme di fattori che hanno consentito il costruirsi delle città euromediterranee e a decretarne alla lunga il trionfo. Difatti, nel corso del Duecento, la bilancia commerciale (fino ad allora favorevole al Vicino Oriente) si invertì, e grazie all'afflusso di oro nelle casse dei mercanti latini l'Europa poté accedere alla coniazione della moneta d'oro, dal IV al XIII secolo privilegio praticamente esclusivo dei bizantini e di alcuni potentati musulmani. Non bisogna però neppure dimenticare che il successo non si basava su meccanismi di esclusione, ma anzi di condivisione di modelli e di interessi; è insomma il tessuto multiculturale di Venezia e Genova, la capacità di assorbire le migliori novità e di farle proprie, la ragione del loro tronfo.
Gli scambi non erano ovviamente limitati alle questioni economiche, perché la circolazione culturale attraverso il Mediterraneo è fra i cardini di tale sistema. Un esempio peculiare di quanto andiamo dicendo è ben illustrato da Marco Branco in un breve ma denso scritto: Alessandro Magno. Eroe arabo nel Medioevo (Salerno) illustra infatti la fortuna della tradizione e della fama del conquistatore macedone in Oriente. In un certo senso, è come vedere un'immagine rovesciata in uno specchio; siamo abituati a un Alessandro letto «da Occidente», a partire dal Romanzo di Alessandro, una raccolta di racconti leggendari sulla sua vita assemblata ad Alessandria presumibilmente a partire dal III secolo a.C., e poi tradotto in un'infinità di lingue. Dalla versione latina avrebbero preso piede i rimaneggiamenti nelle lingue volgari d'Europa. Ma dall'originale greco partirono anche le traduzioni in slavo, in persiano, in arabo; da questa fonte deriva presumibilmente la citazione al mito di Alessandro che il Corano riporta nella Sura XVIII, La Caverna.

Dall'Europa al Siam e ritorno
Se nella tradizione europea l'ardore militare di Alessandro diventa il prototipo per ogni eroismo cavalleresco, la sua ferocia lo rende a volte modello della tirannia e prefigurazione di Satana. Laddove l'interpretazione musulmana aggiunge una sfaccettatura e Alessandro diviene l'annuncio del monoteismo; in fondo Asia ed Europa, Oriente e Occidente, non erano per il grande conquistatore realtà contrapposte, bensì componenti di una sola civiltà eurasiatico-mediterranea fatta di molte lingue e di molte culture, ma avviata a vivere all'interno di una sola, articolata compagine. Non molto diversamente, in fondo, da quanto avrebbero cercato di realizzare gli arabi nella loro spinta iniziale all'espansione.
Se le merci e i miti viaggiavano da una sponda all'altra del Mediterraneo e dall'Asia all'Europa (e viceversa) lo stesso può dirsi degli uomini: pellegrini, mercanti, avventurieri sono stati per secoli il principale tramite in questi mondi circolari. Uno fra i più interessanti è stato senz'altro Ludovico de Varthema, del quale poco è noto con certezza: non la professione né la provenienza: lui stesso si dice bolognese nella dedica dello scritto che ne racconta i lunghi viaggi; e bolognese lo definisce Manuele re del Portogallo nel documento col quale lo nomina cavaliere; che è peraltro l'unico documento ufficiale che ne attesti l'esistenza. Poche certezze anche sul suo nome, che varia fra Ludovico e Lodovico, e soprattutto sul suo cognome: il Ramusio lo chiama «Barthema», altri preferiscono «Vartema»; un cognome che peraltro rinvierebbe alla Liguria (una famiglia Vartema è attestata a Genova), mentre l'idioma del suo scritto rinvia piuttosto all'Italia nord-orientale. Una parte di questo scritto viene ora riproposto in versione modernizzata nel Viaggio alla Mecca (Skira 2011, pp. 108, euro 15).
Ludovico sarebbe partito da Venezia nel 1500 per un viaggio che lo avrebbe condotto prima al Cairo e poi, dopo essersi convertito all'Islam, a Medina e alla Mecca, probita ai non musulmani. Da lì avrebbe proseguito verso il Libano, lo Yemen, Aden, le coste somale sul Mar Rosso e sull'Oceano Indiano, la Persia. Come mercante avrebbe visitato l'India, lo Ceylon, il Siam, il Borneo e, sulla via del ritorno, Mombasa, il Mozambico e S. Elena. Dopo aver trascorso alcuni anni nelle Azzorre e in altri possedimenti portoghesi come consulente militare, nel 1508 si sarebbe stabilito a Lisbona; non un luogo qualsiasi, dal momento che proprio negli stessi anni le flotte portoghesi inauguravano la «rotta orientale delle Indie» circumnavigando l'Africa e dominando i traffici nell'Oceano Indiano. Il condizionale è però d'obbligo: la scarsità delle notizie sulla sua figura, insieme all'incredibile portata dei suoi viaggi, hanno indotto molti a dubitare della veridicità del suo racconto.
Dialoghi in lingua araba
Se la realtà del viaggio è dubbia, non si può dire altrettanto della sua fortuna; lo scritto del de Varthema conobbe infatti un immediato e straordinario successo; la sua traduzione latina, tempestivamente redatta, ne assicurò la circolazione, perdendo tuttavia per strada alcuni elementi importanti: infatti è soltanto la prima edizione, quella volgare, a custodire le molte testimonianze relative a frasi e addirittura a dialoghi condotti in lingua araba, presentati in trascrizione fonetica e corredati da traduzione che il de Varthema ci ammannisce. Segno che la sua esperienza - o quella delle sue fonti - non deve essere stata poi così del tutto estranea ai viaggi in quel mondo arabo che, sebbene ormai impoverito rispetto ai fasti di cinquecento anni prima, manteneva intatta larga parte del suo fascino.


il manifesto”, 7 luglio 2007

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