23.1.17

Tribù rednecks, l’esercito di Trump (Fabrizio Tonello)

Articolo di agosto, ma tutt'altro che scaduto. Parla di un libro sugli umori che hanno nutrito l'ascesa alla Casa Bianca di Trump. (S.L.L.)

Li chiamano rednecks, oppure white trash: sono bianchi, poveri e, in larghissima parte, maschi. Hanno, quasi sempre, un arsenale in casa, che torna utile quando i buoni pasto sono finiti e c’è bisogno di procurare un po’ di carne per la cena andando nei boschi vicini. Sono il popolo di Donald Trump, l’improbabile eroe politico della tribù bianca in rivolta.
Il viaggio per capire quanti sono e cosa vogliono può cominciare dal simbolo stesso della controcultura degli anni Sessanta contro cui si sono ribellati: Woodstock. È in questa cittadina dello Stato di New York, dove tra il 15 e il 18 agosto 1969 si tenne il più celebre concerto rock di tutti i tempi, che Trump ha ottenuto il 64% dei voti nelle primarie repubblicane di qualche mese fa, ed è in contee come quella dove si trova Woodstock – rurali, spopolate, impoverite – che Trump otterrà i suoi migliori risultati in novembre. È qui che vivono i protagonisti di un libro interessante, a tratti commovente, intitolato Hillbilly Elegy: A Memoir of a Family and Culture in Crisis (Harper 2016).
Siamo negli Appalachi, la catena montuosa che divide la costa orientale degli Stati Uniti dalle grandi praterie e dall’Ovest: una barriera naturale che culturalmente e politicamente sembra invalicabile oggi quanto lo era per i puritani sbarcati nel 1620. Montagne che ospitano una tribù bianca con una subcultura forte, coesa al suo interno, con rituali propri e un’irriducibile ostilità nei confronti dei diversi, tanto più forte se si tratta di politici o di giornalisti: sono gli americani discendenti da antenati scozzesi e irlandesi che troviamo nella parte centrale dello Stato di New York, in Pennsylvania, in West Virginia, in Virginia, in Kentucky, in Tennessee e ancora più a sud, fino in Georgia, Alabama e Mississippi. Quest’anno se ne è parlato molto, e nei prossimi mesi se ne parlerà ancora di più perché il curioso cocktail di misoginia, promesse impossibili e xenofobia offerto da Trump ha fatto presa su di loro. La loro ribellione ha frantumato il partito repubblicano, costretto ad accettare un outsider come candidato (cosa mai avvenuta in precedenza) e sta scuotendo anche il partito democratico, che ha scelto di nominare un puro prodotto dell’establishment come Hillary Clinton in un anno in cui sono più di moda i forconi che le borse Prada.
Gli hillbillies sono stati nel tempo boscaioli, minatori di carbone, operai negli altiforni di Pittsburgh o nelle fabbriche di Akron, muratori, meccanici, camionisti. Sono stati sottratti alla miseria dal New Deal di Roosevelt e dalla Seconda guerra mondiale, e sono stati fedeli per 40 anni al partito democratico. Poi il rifiuto della guerra del Vietnam e il ’68 li hanno catapultati nel campo repubblicano, per i 40 anni successivi e fino ad oggi.
J. D. Vance, l’autore di Hillbilly Elegy, è un giovane avvocato che oggi vive in California ma è nato a Middletown, in Ohio, da un padre ben presto scomparso e una madre tossicodipendente. È cresciuto con i nonni, una coppia di teenager scappati da Jackson, Kentucky (a cui Johnny Cash ha dedicato una delle sue canzoni più famose, che inizia così: «We got married in a fever, hotter than a pepper sprout») per sposarsi e cercare fortuna a Middletown negli anni Quaranta.
Non ebbero vita facile quelli che Vance chiama mamaw e papaw, ma negli anni Cinquanta il Midwest industrializzato dava lavoro, casa e sicurezza nel futuro a tutti. Papaw lavorava all’Armco, uno dei giganti dell’acciaio, e per decenni sembrò che il destino di figli e nipoti potesse solo migliorare. Poi le acciaierie cominciarono a chiudere, così come le fabbriche di automobili, come sa chiunque abbia visto Roger and Me di Michael Moore.
La deindustrializzazione portò con sé la desertificazione sociale: i privilegiati, i più abili, i più intelligenti, i più tenaci se ne andarono a Chicago, a Buffalo o a New York, mentre la stragrande maggioranza restava attaccata a case che cadevano in rovina, quartieri dominati dalle gang della droga, lavori che duravano poche settimane o pochi mesi. La religione, il nazionalismo, l’ostinazione non riuscirono a mantenere gli hillbillies in quella classe media che avevano creduto di avere raggiunto per sempre.
Vance è uno di quelli che ce l’hanno fatta, frutto di una famiglia che credeva nell’educazione e nel principale sistema di welfare americano: l’esercito. Dopo la scuola superiore optò per i Marines, scelta che gli permise di andare all’università e poi alla Yale Law School, la fabbrica delle élite. Oggi è un avvocato benestante con moglie, bambini e casa con piscina, ma non ha dimenticato i nonni e la sorte dei 25 milioni di americani bianchi e sfortunati che vivono nelle 420 contee degli Appalachi. E che si preparano a votare per Donald Trump.


Pagina 99, 12 agosto 2016

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