22.11.17

Leggende dell'alpinismo. Il Campanil Basso delle Dolomiti (Mauro Loss)

Dall'800 a oggi la leggenda del «Campanile dele Strie» è ricca di tentativi, rinunce, gossip ed escamotage. E la sua cima assolata è davvero il «tetto» del Trentino
Per gli alpinisti della fine dell'800 era una leggenda: un bastione roccioso solitario impossibile da scalare. Una struttura ardita, ben definita, con pareti verticali regolarmente squadrate. Un campanile maestoso, il Basso. Certo non la cima più difficile delle Dolomiti ma la sua indiscutibile bellezza e l'esposizione delle pareti ne hanno fatto un mito. Un mito che resiste intatto ancora oggi.
Il Basso è un campanile, per chi sale dalla Val Brenta, che si fa largo tra gli strapiombi che lo circondano e si arrampica verso il cielo aiutato dal suo imponente spallone nord-ovest, fino a scappare dalle pareti vicine e rimanere solo a dire, anzi urlare, «eccomi» mentre i valligiani che salivano dai pascoli dei Massodì lo vedevano apparire improvviso tra le nebbie, misterioso e incantato, ricordando maghi e streghe.
Molto prima che la sua ampia vetta fosse conquistata, era stato ammirato da esploratori tedeschi e inglesi ed il famoso pittore Edward T. Compton ne aveva riprodotto l'ardita bellezza nei suoi dipinti. Con essi molti alpinisti avevano imparato a conoscerlo e se ne erano innamorati ma avevano ritenuto impossibile scalarlo tanto erano verticali i suoi muri rocciosi.
La leggenda del Basso è ricca di episodi, tentativi, rinunce, gossip ed escamotage. Una storia che inizia negli ultimi anni dell'Ottocento, quando l'alpinista trentino Carlo Garbari, dopo averne studiato tutti i versanti, individuò quella che sarà la via normale e ne tentò la salita assieme al portatore Nino Pooli e alla guida Antonio Tavernaro.
Partendo dalla Bocca del Basso i tre superarono la parete rossastra e verticale che rappresenta ancora oggi il punto di maggior difficoltà della via e che porta il nome di chi la vinse - la parete Pooli. Raggiunsero poi più facilmente l'ampia cengia detritica chiamata «stradone provinciale», unica interruzione nell'assoluta verticalità dei suoi profili. Questa regolare cengia consentirà loro di portarsi sullo spallone nord-ovest da cui un diedro e un camino li porterà a un ampio e assolato terrazzo che prenderà il nome di «albergo al sole» da cui arrivarono a un comodo terrazzino -il terrazzino Garbari - posto proprio sotto l'aggettante parete terminale. Mancavano poche decine di metri alla vetta, la vittoria era alla loro portata. Eppure, nonostante gli sforzi, non riuscirono a superare quei pochi ultimi metri e furono costretti a ripiegare, sconfitti, lasciando sul terrazzino raggiunto un messaggio d'augurio per coloro che sarebbero arrivati in futuro.
Sempre in agosto, ma di due anni dopo nel 1899 – due alpinisti austriaci Otto Ampfere Karl Berger, grazie anche alla precisa relazione pubblicata da Garbari, riescono ad arrivare velocemente al punto più alto raggiunto da Trenti, Pooli e Tavernaro ma nonostante dispongano di nuovissimi e per quell'epoca molto criticati chiodi, vengono respinti dalla difficile parete finale.
Devono ritirarsi. Tuttavia non si danno pervinti. Ritornano due giorni dopo e Ampfer trova, con un'ardita ed esposta traversata sulla parete nord, il passaggio che consentirà loro di raggiungere l'ampia cima del Campanile. Ampfer parlerà della conquista in modo sublime: «Altri uomini hanno conquistato grandi isole con piatte coste, noi una piccola con alte stupende sponde».
Il successo dei due austriaci suscitò molto scalpore nel mondo alpinistico, scatenando ammirazione da un lato e l'invidia della comunità trentina dall'altro, che avrebbe ardentemente desiderato ribadire la sua «italianità» con la conquista di una vetta così emblematica.
La conquista del Basso aprì le porte a numerosi altri tentativi che hanno portato alla salita di tutti i versanti e saranno ancora gli alpinisti stranieri, stavolta i tedeschi, a farla da padrone. Quest'ultimi introducono l'uso del chiodo e del moschettone rendendo così possibile non solo sul Campanile ma anche nelle Dolomiti la salita di vie più difficili, provocando anche una rovente polemica tra chi li considerava «mezzi sleali» e chi invece li vedeva come un modo per aumentare la sicurezza.
Nel 1908 verrà percorso l'elegante e lineare diedro nord-ovest, oggi conosciuto come diedro Fehrmann, percorso logico e ormai diventato un classico da non perdere. Sarà però il 1911 a segnare un'altra pietra miliare, non solo per la storia del Basso, ma anche per la storia dell'alpinismo dolomitico.
Una data, una salita che ha spostato verso l'alto l'asticella delle difficoltà tecniche e soprattutto psicologiche. Paul Preuss, in completa arrampicata libera, salirà slegato l'assolata e verticale parete est che successivamente prenderà il suo nome e che Angelo Dibona definirà la più impressionante delle Dolomiti, anche se breve.
La Prima guerra mondiale segna una frenata delle attività alpinistiche ma passati i tempi bui del conflitto torna la voglia di normalità e anche l'attività arrampicatoria riprende vigore.
Negli anni '30 seguirà un'altra importante tappa nella storia alpinistica del Campanile. Sono infatti gli anni degli italiani, dei trentini e soprattutto di Giorgio Graffer, che scala con la sorella lo spigolo nord-est. Non contento, con il compagno d'accademia Antonio Miotto, sale quello che con tutta probabilità è, e resta, non solo il suo capolavoro ma anche l'itinerario più estetico ed elegante del Basso. Lo spigolo sud-ovest dello Spallone, il maestoso e roccioso contrafforte posto ad ovest del Campanile.
Il Basso è però anche sotterfugi e astuzie. Nell'estate del 1940 in molti si ritrovarono alla sua base sorvegliandosi con sospetto perché fino ad allora le salite erano 997 e tutti ambivano alla numero 1.000. Sarà con un astuto stratagemma che l'accademico Gino Pisoni facendosi procedere da due cordate «amiche» compirà quella significativa ascesa. Così si scatenò lo sdegno di Ettore Castiglioni che definì «umiliante» il teatrino messo in opera da questi alpinisti per il proprio tornaconto personale.
Il Campanile non è solo questo. Negli anni si è anche tinto di rosa. Infatti verso il 1930 Rita Graffer è stata la prima donna a salire, da capocordata, la parete Preuss guadagnandosi l'ammirazione di Tita Piaz che disse di lei: «Ha fatto semplicemente quello che oggi ancora pochi fanno e pochi hanno osato fare». A Rita, in quelli anni intrepidi, si aggiunsero le baronesse ungheresi Eotvos, Beatrice Tomasson e Paola Wiesinger. E non bisogna scordarsi che nelle leggende del Campanile non mancano nemmeno richiami al gossip, visto che la sua cima fu calpestata anche dai reali alpinisti del Belgio, non nuovi a esperienze d'arrampicata sulle cime delle Dolomiti.
Con gli anni '60 tutte le sue verticali pareti sono state salite ma il Basso si è tinto di bianco. Si aprì il capitolo delle salite invernali. Una lunga serie di prestigiose imprese. Una stagione iniziata nel 1949 da colui che tutta la comunità degli arrampicatori ritiene essere il simbolo, l'anima e il custode del Brenta - Bruno Detassis -con la salita della Normale. Una via che ripeterà 189 volte, l'ultima delle quali quasi ottuagenario e a cui seguirono tutte le salite invernali delle principali e più importanti salite del Campanile.
Ciò che resta oggi è la bellezza dei suoi profili e il fascino della sua storia che continuano e continueranno ad affascinare gli alpinisti desiderosi di ripercorrere le orme dei primi salitori. Desiderio testimoniato dal fatto che dopo poco più di 40 anni il libro di vetta riportava la sua salita numero 1.000 e che nei primi anni '60, periodo in cui la numerazione ebbe termine, le salite erano già ben 3.656, mentre agli inizi degli anni '70 se ne contavano più di 6.000 e a distanza di altri 40 anni chissà quante ormai saranno... A dire il vero il loro numero effettivo poco importa. Ciò che invece merita di essere ribadito ed evidenziato con forza è il fascino che questo maestoso, unico e ardito Campanile porta con sé. Fascino che continua a richiamare schiere di alpinisti felici di provarci e di riuscire a far risuonare la campana posta sulla sua vetta.

In movimento, supplemento a "il manifesto", 24 marzo 2016


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