29.11.17

L'“utopia” della liberazione ha un futuro? Il comunismo potenziale e possibile (Cesare Luporini 1989)

Una domenica di novembre, nel 1989, a pochi giorni dalla “svolta della Bolognina”, con cui Occhetto proponeva al Pci di trasformarsi in un nuovo partito, abbandonando il nome di “comunista” e il simbolo della falce e martello, “il manifesto”, che si definiva “quotidiano comunista” dedicò al tema un'ampia sezione del quotidiano intitolata Finale di partito. Vi si potevano leggere un colloquio con Achille Occhetto, un intervento critico di Gavino Angius, dirigente di partito, servizi sullo stato del Pci, sulla federazione giovanile, sui rapporti con la questione femminile. Ma il pezzo forte, l'unica cosa che secondo me dura, era un articolo di Cesare Luporini, il filosofo, cui la redazione aveva chiesto qualche riflessione sul buon uso della parola «comunismo», usata oggi ugualmente come «utopia d’una società altra» e come esperienza storica del «socialismo reale». Ne ripropongo un ampio stralcio. (S.L.L.)

[…] Le interpretazioni sistemiche di quelle società mi sembra che mostrino il loro fallimento. La scossa è mondiale perché si trasforma completamente uno dei poli su cui si è retto l’equilibrio antagonistico del mondo per quasi mezzo secolo, dopo la guerra.
La questione del comunismo, in senso proprio, si pone su un altro livello, non foss’altro per un semplice motivo: che nessuno di quei regimi ha mai preteso all’esistenza in atto di un «comunismo reale». Nessuno di quei partiti monocratici e monolitici, che si chiamano o si chiamavano comunisti, ha mai presunto tanto; essi hanno solo preteso di essere su quella strada, molto ideologicamente, attraverso un sistema dogmatico artificioso (e imposto) detto «marxismo-leninismo», che è stato travolto anch’esso. E speriamo che se ne prenda atto fino in fondo e al più presto. L’espressione «comunismo reale», che pure è stata adoperata in Italia, proprio nel mio partito, è, a mio parere, una mistificazione concettuale.
Ora tutte le questioni anche teoriche di socialismo e comunismo sono riaperte, ma non sono ingabbiabili, mi pare, in semplici schemi liberal-democratici. Già lo stesso compattarsi di questi due termini, nel secolo scorso oppositivi, intendo «liberalismo» e «democrazia», è una ideologizzazione - e se vuoi una teorizzazione - non avvenuta per caso, ma sotto la spinta antagonistica e motivata di grandi movimenti sociali, e in primo luogo del movimento operaio, delle sue formazioni di classe politiche e sindacali. Non è qui il luogo di rifarne la storia, prima e dopo la rivoluzione di ottobre, anche se sarà necessario rivederla a partire dalla situazione attuale, ivi comprese le due guerre mondiali, che hanno pur qualcosa a che fare col capitalismo.
Comunismo è un concetto teorico (molto più chiaro che non «socialismo», a mio parere) che certo preesisteva a Marx, ma che ha trovato in Marx un radicamento storico in quella che per lui era la forza sociale del cambiamento rivoluzionario, e cioè nella classe dei salariati, interni e insieme antagonistici al modo di produzione capitalistico. Comunismo in questo senso non è soltanto «movimento reale» (espressione dello stesso Marx), ma è un orizzonte di libertà e di liberazione («libero sviluppo di ognuno» come «condizione del libero sviluppo di tutti») che con qualche difficoltà (ma non voglio fare questione di parole) chiamerei «utopia», proprio perché aderisco alla richiesta marxiana di radicamento storico, appunto, in forze e movimenti sociali da liberare («come sia empiricamente possibile il comunismo», si chiedeva Marx).
Se guardo non solo ai paesi sviluppati, ma a tutto il genere umano che è ormai un insieme reale di parti comunque interdipendenti, se guardo ai suoi conflitti tragici, alle lotte di liberazione, alla gerarchia delle potenze, e infine alle minacce che nascono dal mondo industrializzato e che gravano in comune sulla sopravvivenza della vita in terra, mi pare che l’orizzonte del comunismo nonché scomparire si sia straordinariamente allargato e si siano moltiplicate le sue radici sociali ed etniche possibili. Marx da scienziato (oltre che rivoluzionario) dell’800 era mentalmente dominato dalla categoria della «necessità», che si è dissolta, o quasi, anche nelle scienze naturali, oggi. Così egli tendeva a vedere come «necessità» il passaggio dal capitalismo al comunismo, quasi fossero due fasi storiche di un unico sistema dinamico. Oggi, lo dobbiamo vedere invece come potenzialità e possibilità, cioè in questa diversa dimensione categoriale.
Ma perché dovremmo compiere questa opzione? Forse che il capitalismo, il libero mercato, il consumismo conseguente e magari le relative «alienazioni», non ci si addicono, purché siano abbastanza garantiti sistemi politici democratici e di controllo degli abusi? Detto in parole povere questo mi sembra il nodo ultimo della questione. Certo vi è chi rimane fuori, è «emarginato»: una buona fetta della società. Ma Marx stesso diceva che una società sviluppata (capitalisticamente) troverà sempre il modo di assistere i suoi poveri... e quanto alla miseria spirituale, oggi provvedono i media a camuffarla, quotidianamente.
Che cosa impedisce allora di rinunciare a quell’orizzonte del comunismo? E rinunciare cioè a una critica radicale dell’esistente? Ebbene, a me sembra che la risposta stia proprio in qualcosa di assolutamente nuovo, e non di vecchio, l’unificazione di fatto del genere umano - pur tanto diviso conflittualmente tra culture, civiltà, morali, religioni ed etnie diverse - non solo nelle interdipendenze accennate, ancora cariche di effetti di dominio e di subalternità spesso tragici, ma unificazione, ripeto, di fatto, di fronte a ciò che minaccia la vita biologica almeno ai suoi livelli superiori, sul pianeta (quindi al di là della stessa questione «guerra-pace»).
C’entra qualcosa col comunismo, in tale senso allargato? A me pare di sì. Per una ragione molto semplice. Perché è impensabile l’estensione a tutto il genere umano del capitalismo sviluppato, con i consumi e le dilapidazioni energetiche che esso comporta. Qui vi è un limite e una qualità di esso che Marx non era in grado di prevedere, almeno nelle dimensioni attuali.
Ci sono in Marx due concetti di dominio e anche sfruttamento: uno da promuovere, l’altro da rimuovere. Il primo è il cosiddetto dominio dell’uomo sulla natura; il secondo è quello che egli chiamava «seconda natura», e cioè le «potenze estranee» (stando al suo linguaggio) prodotto dagli uomini stessi nella loro prassi di reciproca cooperazione, che dà luogo ai rapporti di dominio e subordinazione fra gruppi sociali e anche fra popoli. La storia tragica di questo secolo almeno una cosa ci ha insegnato: che restando intatta la spinta alla prima forma di dominio, non si cancella neppure la seconda. Non si può più accettare - pena la catastrofe - uno sviluppo illimitato dello sfruttamento dalla natura, eredità del capitalismo nella tradizionale ideologia e pratica comunista (e socialista).
Dove siamo storicamente e geograficamente collocati, certo dobbiamo operare ancora nel sistema capitalistico e all'interno dei congegni auto-regolativi che esso ha saputo mettere in opera fin qui, insieme ad altre tecniche per superare e controllare le proprie crisi, ma lottando contro i maggiori abusi e per forme sempre più democratiche di convivenza. Ma guai se perdiamo di vista quell'orizzonte totale, cioè universalmente umano, che mette in evidenza anche i limiti intrinseci al sistema, perché condizionati dal suo scopo immanente, l’accumulazione del capitale, cioè dal suo equilibrio dinamico. Mantenere l’orizzonte del comunismo significa appunto questo.
Ma gli orizzonti sono mobili, si spostano; e i soggetti coinvolti si sono moltiplicati in parte potenzialmente, in parte già di fatto. Non più soltanto la classe operaia e i suoi «alleati», come si diceva una volta, anche se la questione del lavoro e di ciò che esso valorizza rimane centrale, con tutte le modifiche però introdotte dalla rivoluzione informatica. Ma si tratta anche di altro.
Nella famosa proposizione marxiana «l’associazione in cui il libero sviluppo di ognuno è condizione del libero sviluppo di tutti» (e non viceversa: cioè no a un collettivismo totalitaristico), ogni termine è problematico, lo sappiamo bene. Meno due (apparentemente), lo «ognuno» e il «tutti», in quanto sono pure categorie logiche. Ebbene non è più così. Anche lo «ognuno» si è differenziato. La rivoluzione delle donne ha giustamente rivendicato la differenza sessuale come elemento di non-neutralità irrinunciabile per una qualsiasi ricomposizione dei «tutti». Anche questa modificazione fa parte integrante ormai di quell'orizzonte mobile del comunismo che, a mio parere, non è questione morale ma direttamente politica. Perché le morali come le religioni ci dividono (nessuna è universale), ma la politica ci può riunire, su una scala universalmente umana. Se lo si voglia; responsabilmente e comunitariamente, e senza nascondersi le difficoltà da superare, ma prima che altre catastrofi sopraggiungano, se non è troppo tardi (poiché è lecito chiederselo). Non è una questione di potere e tantomeno di «potenze estranee». È piuttosto la grande questione del consenso, di cui parlava Gramsci, su cui hanno fatto naufragio i «socialismi reali».
Naturalmente parlo di una politica riformata, sostanziata di democrazia, sovrannazionale, portatrice di nuovi modi di convivenza fra diversi (e quindi essa stessa fondatrice di morale) per la quale vale la pena impegnarsi e combattere. Ed è una politica che, per definizione, non può essere lasciata ai soli «politici».

"il manifesto", 19 novembre 1989

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