Resistenza, vita di partito, donne e politica: sono gli argomenti di un'intervista a Camilla Ravera curata da Rossana Rossanda e pubblicata nel libro Le altre, ed. Bompiani, 1980. Ne riprendo un ampio stralcio. (S.L.L.)
Camilla Ravera da giovane |
Rossana Rossanda — Camilla, perché l'abbiamo chiamata resistenza, questa lotta? Non suona difensivo?
Camilla Ravera — Quando si è cominciato, e precisamente nel 1922 non si chiamava resistenza; si chiamava antifascismo. Era un termine preciso, diretto, contro il fascismo. E nessuno prevedeva una lotta lunga, se non forse alcuni, pochissimi di noi. Almeno... io ero stata a Mosca e avevo sentito Lenin, nel 1922, dopo la presa dello stato da parte del fascismo. Ero con Bordiga. Lenin era ammalato e ci aveva ricevuto per prendere notizie. Bordiga aveva presentato la cosa a Lenin come un fatto passeggero, di nessuna importanza; diceva: «Adesso Mussolini scioglierà la milizia, non ne ha più bisogno, e quindi la nostra lotta sarà più facile, torneremo nella normalità». Pensava che sarebbero finite le squadre, tutte queste cose noiose. Lenin era sbalorditissimo. Poi si volta a me e chiede: «Ma che cosa fa la classe operaia?». Io, che venivo da Torino dove in una notte avevano ammazzato ventitré dirigenti operai, ho detto: «La classe operaia lotta, ma purtroppo con forze inferiori, perché non è armata e poi è stata presa di sorpresa». Era il re che aveva chiamato Mussolini; non ci si aspettava una cosa così. Allora Lenin interruppe Bordiga e gli disse: «Non fatevi delle illusioni, il fascismo è il potere della destra più ferma, la più attrezzata, della borghesia e del capitalismo. Aspettatevi una lotta lunghissima, molto difficile e dura. Per sopravvivere dovrete lottare nella clandestinità».
Rossanda — Bordiga non ne era persuaso?
Ravera — Fu il momento in cui tra Gramsci e Bordiga nacque quel dissenso che divenne poi aperto, perché Gramsci pensava tutt'altre cose. E perciò cominciò la nostra lotta, combattuta e sostenuta dagli «antifascisti»: così si chiamavano. La parola «resistenza» apparve soltanto quando si formarono le squadre partigiane. Qualcuno durante la clandestinità parlò di resistenza nel senso che veramente si trattava di resistenza data la difficile situazione che si era creata per tutti, specie per noi comunisti che dovevamo conservare l'organizzazione. Riuscimmo a conservarla infatti, con
grande difficoltà; un'organizzazione assai ridotta ma che al momento in cui si torna alla lotta aperta dà i quadri alla resistenza vera e propria, cioè alla battaglia armata contro il fascismo. Ma quella fu la vera resistenza. Ecco, nei lunghi anni della clandestinità «resistenza» non si trova nemmeno negli scritti, nei nostri giornali. Si trova forse «resistere», qualche volta; un motto soprattutto per i giovani che facevano dei giornaletti molto vistosi, qualche volta un po' demagogici, un po' pieni di illusioni e di speranze.
Rossanda — Le donne attorno a voi quante erano?
Ravera — Mah, io stavo a Torino e Torino era la città industriale più avanzata d'Italia, c'era la Fiat, che già allora era la forza dominante. Ora, durante la guerra moltissime donne avevano sostituito gli uomini in tutti i reparti e in tutti i lavori; gli uomini erano al fronte. Le donne addirittura guidavano i tram. C'erano fabbriche formate completamente da donne, per esempio la fabbrica «proiettili», quella che nel 1917 iniziò la grande insurrezione torinese contro la guerra; fu un'iniziativa delle operaie. Siccome da qualche giorno mancava il pane, uscirono con lo slogan «Chi non lavora non mangia, ma chi non mangia non lavora». E lo scrissero sui muri a grandi caratteri. Poi uscirono dalla fabbrica e passarono davanti a tutte le altre fabbriche e ne fecero uscire anche gli uomini; uscirono tutti. E io fui presa in quelle manifestazioni. Fu una vera lotta. Uscii di casa dicendomi «Voglio vedere cosa succede» e mi trovai in quel corteo immenso, proprio. Mi ricordo che arrivate a un certo punto cominciarono gli spari — avevano mandato le forze armate, c'era lo stato di guerra, no? — e io stavo là intenta a guardare: cosa nasce adesso — noi non avevamo niente, nemmeno dei bastoni — che cosa avverrà? Ed ecco che tre donne mi afferrano, robuste, io sono stata sempre minuta, e mi buttano dentro un portone e mi dicono con aria severa: «Quando sparano bisogna ripararsi, non farsi ammazzare per vedere che succede». Continuai poi con loro, quando cessarono gli spari e si riformò il corteo. Poi si fecero le barricate, eccetera. Ci furono anche molti morti.
Perciò quando la guerra finì e ci fu tutto un movimento a Torino, molto forte, e si conquistarono i consigli di fabbrica per la prima volta in Italia, le donne se ne interessarono anche loro. Non si domandavano se erano donne politiche o meno; erano operale, e nelle fabbriche dove la manodopera era quasi tutta femminile i consigli furono fatti quasi esclusivamente o in grande maggioranza da donne. E lottarono. Lottarono per i loro diritti. E nella prima grande battaglia torinese vinsero; ottennero le otto ore. Poi lottavano su problemi quotidiani, direi casalinghi; la tessera del pane insufficiente, i rifornimenti mal fatti, le scuole che non si aprivano, le proteste continue. E poi per il salario uguale fra uomini e donne.
Rossanda — E negli anni più duri?
Ravera — Negli anni più duri... certamente il partito ebbe difficoltà enormi. Anche perché — tu sai — dal primo momento della clandestinità, nello stesso 1923, furono oltre duemila i comunisti arrestati e condannati. Molti assassinati. Nelle città moltissimi; a Milano, ma anche a Torino, poi a Firenze, in altre città. Difendevano le camere del lavoro, difendevano le sedi operaie che venivano incendiate e distrutte; e le guardie regie portavano in carcere gli operai che andavano a difenderle, mentre i fascisti erano assolutamente legalizzati. Avevano i camion dai padroni delle fabbriche, le armi lo stesso. Ed erano finanziati dagli agrari: i primi furono finanziati dagli agrari contro i braccianti della Val Padana. E non si nascondevano; portavano la divisa, camicia nera, pugnale alla cintola, fucile a tracolla, sul berretto il teschio e i gradi sulle braccia. Perché chi riusciva a bruciare più sedi aveva i gradi. Molti erano ragazzi. Anche studenti, dai sedici anni in su: li irreggimentavano. La lotta divenne estremamente difficile; dovemmo subito ricorrere a forme clandestine anche nell'organizzazione del partito.
Rossanda — E le donne che si erano battute per l'occupazione delle fabbriche? Che succede di loro?
Ravera — Anche prima del '23 quelle organizzate nel partito non erano moltissime. Torino era, con Milano, la città che aveva più donne organizzate; ma sai, quando in una federazione raggiungevano il numero di venticinque era già molto. A Torino però parecchie donne si raggruppavano fra loro, ed era strano, non sapevamo come definirle. Io stessa dicevo a Gramsci: «Come li chiamiamo questi gruppi di donne, che non sono nel partito, non prendono la tessera, non vogliono impegni di partito, ma partecipano tutte le volte che le chiamiamo a manifestazioni o assemblee?» E mi pareva che la prima cosa era farle discutere, queste donne, dei loro stessi problemi; far loro capire che erano cittadine. Avevano lottato, se lo erano meritato. E Gramsci diceva: «Come volete chiamarle?». Un bel giorno Togliatti propose: «Chiamatele simpatizzanti». Ma simpatizzanti è un nome che significa qualcosa per noi; per loro che vuol dire? Mah. Un nome un po' strano. Comunque questi gruppi venivano ancora e riuscivamo a tenere assemblee abbastanza notevoli. A volte, nelle poche sedi rimaste in piedi, venivano numerose...
Rossanda — E parlavano?
Ravera — Non molte. Non molte. Ma in ogni assemblea ce n'erano tre o quattro che prendevano la parola.
Parlavano generalmente per protestare. Erano denunce quelle che portavano.
Rossanda — Parlavano come gli uomini o come donne?
Ravera — Quasi sempre come donne. Cominciavano i loro racconti specifici, le questioni che si trovavano di fronte nella famiglia, nella casa, nella scuola, per i ragazzi, nei servizi della città. E poi le prepotenze dei padroni. Perché erano lavoratrici. Venivano, molte, insieme con i loro uomini e bambini nei circoli operai. Che erano proprio un istituto particolare torinese; a Torino ce n'erano molti, una trentina. Ogni quartiere aveva il suo. Erano stati tutti costruiti dai socialisti, socialisti di vecchio tipo, molto capaci in questa attività. E c'era sempre una stanza per i bambini, con qualche divertimento, e a turno una donna li guardava, perché magari le altre partecipavano alle riunioni. Che riguardavano generalmente i problemi del quartiere. Allora le donne Intervenivano, perché si trovavano fra gente che conoscevano, amici.
Rossanda — E fin quando è durato?
Ravera — Fin quando vinse il fascismo. Qualche circolo durò ancora un anno o due. Ma poi vennero completamente chiusi. Spesso finirono bruciati. Distrutti, proprio.
Rossanda — Questi sono i primi anni. Poi vengono gli anni del grande silenzio. Poi si ricominciano a tessere i fili, a parlare. Ecco, nella tua memoria, che cosa rimette le donne in circolazione? E non solo le vecchie compagne ma le giovani?
Ravera — Prima di tutto anche durante il fascismo pieno — quando c'era il Tribunale speciale, le condanne altre, almeno fino al 1930 quando anche io fui arrestata — un contatto fra le donne restò. Io lo ebbi sempre. Lo mantenni comunque. Perché sebbene dirigessi il Centro interno, e avessi una grande responsabilità naturalmente, e anche moltissimo da fare, tuttavia non cessai mai di occuparmi di loro. E di tanto in tanto volevo fare quel giornaletto che avevo pubblicato prima, Compagna. Magari solo quattro facciatine, tanto perché era un mezzo di collegarle. Qualche volta gli cambiavo titolo.
Per esempio, ci fu una grande lotta delle risaiole che coraggiosamente s'erano messe in sciopero per ottenere una branda per dormire — perché le facevano dormire per terra, sui sacconi pieni di granturco nel periodo della monda. Lo sciopero dilagò in tutto il vercellese e novarese. Io ero andata un po' sul posto per vedere questo movimento, di scioperi non ne avvenivano più da parecchio tempo. Mandarono i fascisti armati e ci fu qualche sparo; ma poi non osarono continuare, perché le mondine si misero schierate come nella falange greca, sai, strette una a braccio dell'altra, in una prima fila, e la fila dopo stretta stretto dietro alla prima. Proprio come una falange. Non osarono aprire il fuoco, i fascisti, perché sarebbe stato un macello. Le mondariso vinsero, quella volta. Ebbene per sostenere quella lotta il mio giornalino lo avevo fatto col titolo: La risaia. Quindi me ne occupavo sempre, avevo qualche contatto. Facevo anche delle assemblee. Le facevo nella campagna. Ebbi persino l'ardimento, come mi fu poi detto, di tenere ancora una grande assemblea di donne attorno a Torino, sulle rive della Stura. C'era un posto che chiamavano «la cùa del ratt», la coda del topo, un grande viale lungo il fiume, fuori della città. I compagni avevano organizzato l'incontro, io credevo di trovare al massimo una ventina di donne, ne trovai più di cinquanta. Aveva l'aspetto di una passeggiata, di una scampagnata, ma fu un'assemblea che durò tutto il pomeriggio. E pensa, quando entrai alla Camera nel 1948 una delle prime persone che mi venne incontro fu un deputato democristiano, Rapelli, forse te lo ricordi?
Rossanda — Lo ricordo.
Ravera - Lo ricordi. Venne a salutarmi e mi disse «Lei non si ricorda sicuramente di me». Sai che proprio non me lo rammentavo; ero stata tanti anni in carcere, al confino eccetera. E lui: «Non si ricorda la cùa del ratt? Io avevo accompagnato la mia fidanzata ed ero rimasto tutto il tempo in quell'assemblea». Per dirti che il contatto non cessò mai. E quando cominciò la guerra partigiana fu con stupore che la gente vide tante donne impegnate. Non solo quelle che combatterono — che furono 43.000, e non poche morirono in combattimento —, ma quelle che ci davano aiuto, portavano messaggi, portavano le armi anche. Come mai — si diceva la gente — tante donne entrano adesso che è così pericoloso, nella lotta? Molte erano state nostre compagne.
Rossanda — Le donne sono straordinarie nella guerra. Più nella guerra che nella gestione della politica in tempi di pace. Perché?
Ravera — Probabilmente c'è nel fondo di ogni donna, quasi inconsapevole, un disagio, un malcontento, che le viene dalla coscienza di subire qualche volta - più che qualche volta, spesso - dei torti. Sente che c'è nel fondo della sua condizione di donna qualcosa di ingiusto. E questo fa sì che viva nella vita quotidiana molti momenti di inquietudine, altri di vera e propria rivolta che deve reprimere dentro di sé. Allora nei grandi sollevamenti generali, lei, magari senza consapevolmente introdurvi le sue ragioni specifiche (ora questo avviene già in molte), si getta nella mischia. Ed è la rivolta che covava in lei da tempo che esplode.
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