Quasi trent’anni fa, in occasione dei 150 anni di Carducci Giovanni Raboni sull’Europeo e Alfredo Giuliani su “la Repubblica”, selezionavano all’interno dell’opera poetica di Giosué Carducci quel poco che ritenevano ancora leggibile con risultati convergenti. Ecco qui l’articolo di Raboni. (S.L.L.)
Povero Giosuè (anzi Giosue, senza l'accento) Carducci! Il centocinquantesimo anniversario della sua nascita - 1835 a Valdicastello, frazione di Pietrasanta, tranquilla località dell'amena, a quei tempi, Versilia - non poteva cadere in un anno meno propizio. Dal triplo tricentenario di Bach, Handel, Scarlatti al bicentenario manzoniano, dal centenario della nascita di Dino Campana a quello della morte di Victor Hugo, giornali e sale da concerto, reti radiofoniche e canali televisivi sono letteralmente intasati di grandezze (accertate o in via di accertamento, vere o verosimili) da celebrare. Non sarà facile, temo, trovare spazio per un poeta così terribilmente fuori moda e, d'altra parte, ancora così ingombrante, così fastidiosamente «ufficiale»...
In effetti, con tutta la buona volontà, come si fa a «riscoprire» un poeta che continua, per inerzia, a essere sin troppo presente? È vero che specialisti e studiosi non lo prendono più sul serio da decenni, e che l'ultimo suo estimatore davvero autorevole è stato Benedetto Croce; ma è anche vero che non c'è antologia scolastica in cui l'autore di Davanti San Guido e del famigerato sonetto che inizia «T'amo, o pio bove» (e che, sia detto fra parentesi, non è poi così brutto come si tende a ricordarlo) non continui a troneggiare accanto a Pascoli e a D'Annunzio, perpetuando agli occhi dei fanciulli e degli ignari quell'incongrua «triade» di cui il nostro massimo critico, Gianfranco Contini, ha decretato una volta per tutte la caduta in prescrizione.
Siamo, insomma, almeno a prima vista, di fronte a un caso anomalo ma disperato: una morte clinica ma non anagrafica, un encefalogramma piatto accompagnato da un'imbarazzante continuità del battito cardiaco. Se uno non si decide a morire, sembra proprio impossibile farlo resuscitare.
Impossibile anche rileggerlo, allora? Non esageriamo. Basta avere un po' di pazienza, girargli attorno, cercare dei varchi, delle aperture: i punti in cui la sua maschera di poeta-vate, di guida e interprete autorizzato dell'Italia post-risorgimentale, mostra le crepe più vistose o luccica nel modo più inattendibile e sinistro.
E, prima di tutto, cominciamo col riconoscere che questo colto professore, passato con gli anni da un radicalismo quasi rivoluzionario alla bella posizione di senatore a vita e a una devozione comicamente fervida per la persona della regina Margherita, aveva un orecchio straordinario per la poesia propria e altrui.
Quanto al secondo punto, la poesia altrui, non c'è dubbio che Carducci sia stato un buon filologo e un buonissimo critico. Il già citato Contini, tutt'altro che tenero con lui, ammette, sia pure sorridendo sotto i baffi, che «da rivalutare è dunque il professore»; e, con minore malizia, lo colloca vicino «ai romantici tedeschi che fondarono la filologia romanza». Va aggiunto, più in generale, che c'è una tendenza abbastanza diffusa, da Renato Serra e Emilio Cecchi in poi, a innalzare il Carducci delle prose, non solo critiche, a tutto svantaggio del Carducci dei versi.
Quanto invece al primo punto, la sua stessa poesia, è chiaro che avere orecchio non significa ancora essere un poeta; ma, evidentemente, è già un buon punteggio a favore. Se non ci fossero state le instancabili, multiformi sperimentazioni metriche di Carducci (si pensi soprattutto, ma non
soltanto, alle Odi barbare, puntigliosa e ingegnosa trascrizione sillabica del¬la prosodia greca e latina), non ci sa¬rebbero stati, probabilmente, né D'Annunzio né Pascoli, il che equivale a dire che non ci sarebbe stata la poe¬sia italiana di questo secolo quale si è venuta evolvendo e quale la conoscia¬mo. Ultimo epigono di rilievo della grande poesia ottocentesca, Carducci si trova dunque a essere, involontaria¬mente e di fatto, una sorta di nonno o di prozio della poesia del Novecento.
Ma veniamo alla sostanza. Di versi belli ce n'è quanti se ne vuole, in Car¬ducci: versi che ti colpiscono come una sassata e che, dopo, non riesci più a toglierti dalla testa. Senonché -lo sappiamo, e l'abbiamo appena ri¬cordato - i bei versi sono un ingre¬diente tanto indispensabile quanto in¬sufficiente a costituire quell'organi¬smo infinitamente più complesso, de¬licato e misterioso che è una bella poesia. Ebbene, quante sono le belle poesie nelle mille e più pagine di versi del vate «démodé»?
Invece di rispondere con un elenco - che sarebbe, ahimè, piuttosto breve, e del quale mi pentirei un attimo do¬po averlo steso - preferisco tracciare un rapido identikit dei vari Carducci che la sua opera riflette e propone.
Il primo che salta all'occhio, sia seguendo un ordine cronologico che per preponderanza quantitativa, è il Carducci poeta d'occasione o, se vogliamo dirlo in modo più nobile, poeta «civile»: un verseggiatore formidabile, pronto a fare la faccia feroce se si tratta di mettere in rima polemiche politico-letterarie e anniversari di rivoluzioni, ma anche abilissimo ad arrotondare e intenerire la voce per epidemie e genetliaci, fauste nozze e dolorose dipartite. A parte l'intermittente piacere della forma, il livello poetico di questo Carducci mi sembra di pochissimo superiore a quello di un articolo di giornale scritto con buona padronanza degli strumenti retorici.
Decisamente migliore è il Carducci poeta della storia: quello, tanto per intenderci, di Alle fonti del Clitumno, La chiesa di Polenta, la incompiuta Canzone di Legnano, ecc. La rievocazione prende luce e solennità dalla lontananza; ma non ogni lontananza ha le stesse virtù, la stessa carica di suggestione. Quando si commuove sugli «sparsi vestigi» della «dea Roma», o quando - nel celeberrimo ça ira - inanella sonetti per cantare i fasti cruenti della Rivoluzione francese, questo Carducci assomiglia terribilmente, nel bene ma soprattutto nel male, al Carducci «d'occasione» di cui ho appena parlato.
L'epoca da cui trae, invece, spunti quasi sempre efficaci, è il Medioevo, il Medioevo alto e cupo delle invasioni barbariche e quello fiero e solare dei Comuni. Oltre alle poesie già ricordate, si pensi anche a un gustoso «falso d'epoca» come Faida di comune, dove, fra l'altro, basterebbe la voluta stonatura dell'endecasillabo finale dopo la fittissima gragnuola degli ottonari a convincerci del grande talento metrico del nostro.
C'è insomma, in Carducci, una sorta di vocazione romanica, che sul piano formale si traduce in mosse e cadenze impetuose e al tempo stesso «quadrate», severe.
Dal romanico al romantico: non è un gioco di parole, e la qualità tende a salire ulteriormente. E il Carducci traduttore, ma anche emulo in proprio, dei preromantici e romantici tedeschi, da F.G. Klopstock a Heinrich Heine e ad August von Platen; il Carducci delle ballate, delle leggende germaniche o romanze. Quanto alle traduzioni vere e proprie, è sufficiente ricordare quell'autentico gioiello di soli otto versi che è Passa la nave mia, da Heine appunto: «Passa la nave mia con vele nere, / Con vele nere pe'l selvaggio mare...»; ma gli esempi potrebbero moltiplicarsi senza fatica. Mentre per le prove, diciamo così, «in stile», confesso d'avere una vecchia e mai sopita simpatia per Jaufré Rudel, a dispetto dell'ilarità irriverente e inevitabile che non manco mai di provare rileggendo i versi: «Contessa, che è mai la vita? / È l'ombra d'un sogno fuggente...»; ma dev'essere colpa, più che di Carducci, di qualche successiva «ipertestualizzazione» di impronta cabarettistica.
Naturalmente, fra il Carducci romanico e il Carducci romantico i punti di contatto sono molti, i confini spesso assai incerti; e, d'altra parte, nella composizione di entrambi entra per quattro quinti l'erudito e il metricista, per un quinto appena il poeta; ma è una miscela accettabile, e tale da garantire un'ottima leggibilità.
Infine, sul gradino più alto, c'è il Carducci privato, intimo, dolorosamente e felicemente dimentico di prerogative e doveri, ossessionato dall'idea della morte, del tempo che fugge, del buco che si spalanca e attende giù nella «terra negra»; il Carducci inatteso in cui la critica più recente ha riconosciuto la presenza di elementi «decadenti» e alcune anticipazioni della sublime nevrosi pascoliana.
Gli esempi compiuti non sono molti davvero, da contarsi, forse, sulle dita di una sola mano: Rimembranze di scuola, Nevicata, il famosissimo Pianto antico... Ma preferirei insistere su un esempio solo, sicuramente il più alto: la poesia intitolata Alla stazione in una mattina d'autunno, nel II Libro delle Odi Barbare. È una poesia che non sfigurerebbe accanto a un pagina delle Fleurs du mal di Baudelaire; viene da pensare, con qualche malinconia, a quale poeta sarebbe potuto essere l'eccellente letterato al quale dobbiamo il primo dei nostri premi Nobel, se avesse posseduto in maggior misura il coraggio della propria debolezza. □
Europeo/15 giugno 1985
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