Quando nel 1911 viene pubblicato il primo testo scientifico incentrato sulla relatività einsteiniana (opera di Max von Laue, uno dei giovani fisici teorici tedeschi che per primi erano stati attratti dalla teoria), il fatto che in seconda pagina di copertina fosse riprodotta una fotografia di Einstein suscitò non poche perplessità e irritazioni negli ambienti scientifici. La ricerca era serio affare di una élite, quel genere di esibizioni cosa estranea che ne ledeva la dignità.
Dieci anni più tardi, Einstein è in tournée internazionale, dagli Stati uniti al Giappone, le conferenze sulla relatività sono frequentate da migliaia di persone (che verosimilmente capiscono assai poco), l'uomo di scienza diventa figura popolare. Non è un mistero che dietro a questa disseminazione per il globo del verbo relativistico c'è l'interesse delle autorità politiche della giovane Repubblica di Weimar a rinsaldare i legami internazionali della Germania, nel clima teso del dopoguerra, giocando a tal fine la carta della reputazione internazionale dello scienziato. Comunque, un'immagine pubblica della scienza comincia a formarsi, e proprio in questa occasione due suoi tratti distintivi si vengono delineando: quello che potremmo chiamare dell'internazionalismo scientifico, e quello relativo al carattere paradossale, e comprensibile solo da pochi esperti, delle moderne teorie scientifiche.
Il carattere internazionale dell'impresa scientifica permetterà di dimenticare il coinvolgimento degli scienziati dei vari paesi nello sforzo bellico (dietro la guerra chimica e l'efficienza tecnologica dell'esercito tedesco ci sono i migliori nomi della ricerca fondamentale in Germania: i chimici fisici Nernst e Haber erano sulla lista dei criminali di guerra, a Versailles) o la presa di posizione degli intellettuali tedeschi (cui aderirono numerosi tra i più noti scienziati, tra cui lo stesso Planck) in difesa della aggressione al Belgio neutrale («la cultura tedesca e il militarismo tedesco sono una stessa cosa»). Il sensazionalismo che contraddistingue l'interesse per la relatività sarà il punto di partenza di larga parte degli stravolgimenti e delle banalità che accompagneranno, in diversa misura, i successivi tentativi di divulgazione scientifica.
Ancora una decina d'anni (poco più) e Einstein è in America, a Princeton, esule dalla Germania nazista. Sono gli anni del New Deal, dell'intervento dell'industria e dello stato nella ristrutturazione della ricerca, della nascita della big science. La scienza si viene legando sempre più saldamente al potere, la scienza è potenza; la sua immagine pubblica dovrà esaltare e nobilitare questa sua funzione, occultandone però i meccanismi.
Nel mondo disneyano, ad Archimede Pitagorico, erede della tradizione empirica degli inventori alla Edison, si affianca il dottor Neutron, la nuova fisica teorica degli Slater e degli Oppenheimer. Nella lotta contro il male entra in campo la superiore potenza della ricerca fondamentale. La macchina di produzione del mito marcia più veloce; quindici anni separano la nascita della relatività dalla sua diffusione al di fuori degli ambienti scientifici: molto meno tempo divide la scoperta del neutrone dalla sua comparsa sui fumetti. Sotto quali vesti? Il dottor Neutron scrive formule incomprensibili ma efficaci, è gioviale e distratto, ha lunghi e scomposti capelli bianchi: il dottor Neutron è Einstein.
Perché Einstein? Cioè, perché proprio lui, tra tanti, ha rivestito questo ruolo? Può essere utile, per rispondere, analizzare il mito che ha generato; mito che presenta, d'altronde, più di una faccia. C'è un mito scientifico di Einstein, che vuole la sua statura di scienziato legata fondamentalmente a due momenti: la creazione della teoria della relatività e la sua appassionata difesa della causalità e del determinismo in polemica con l'interpretazione probabilistica della meccanica quantistica, momenti rispetto a cui viene relegato in secondo piano il resto della sua attività scientifica. Si tratta, appunto, di un mito: il dibattito sui fondamenti della meccanica quantistica diventa ben presto un dialogo tra sordi in cui Einstein si trova solo a difendere il suo punto di vista, in una disputa che è del tutto marginale rispetto alle linee dominanti della fisica del periodo (non si vuol dire con questo che chi vince ha sempre e comunque ragione; ma è certa la scarsissima rilevanza di quel dibattito nel determinare le tendenze che allora si imposero).
Quanto alla produzione scientifica, perché la relatività e non, per esempio, la lunga serie di contributi fondamentali sul terreno della statistica? Si può pensare che l'enfasi sulla teoria della relatività sia conseguenza della difficoltà di rendere facilmente accessibili i concetti intorno a cui ruota la problematica della meccanica statistica o della meccanica quantistica; la relatività coinvolge invece lo spazio e il tempo, stravolge direttamente il senso comune. Ma soprattutto, mentre gli altri settori della nuova fisica acquistano le loro caratteristiche attraverso l'apporto dei contributi di numerosi ricercatori, in un continuo confronto a più voci, la relatività può essere agevolmente presentata come l'opera di un uomo solo. Non esiste un unico creatore della meccanica quantistica, mentre l'immagine del creatore della relatività ha fatto breccia. Così, unico ideatore di teorie rivoluzionarie o isolato difensore di una concezione del mondo, questo Einstein ridimensionato è sempre solo. Nella vittoria o nella sconfitta, egli rappresenta il pensatore solitario; attorno a lui può sorgere la leggenda del genio.
La dimensione ideologica del mito appare qui scopertamente: è la confezione, per le masse, di un'immagine dell'attività scientifica come ricerca solitaria della verità, come illuminazione improvvisa e geniale, e dunque non controllabile e fondamentalmente incomprensibile. Unita alla attenzione per gli aspetti paradossali, sensazionali, più conflittuali col senso comune delle teorie scientifiche, questa immagine dell’uomo di scienza finisce con lo svolgere un ruolo oscurantista: questa divulgazione scientifica evoca la figura dello stregone. E l’esito oscurantista del mito dello scienziato è tale perché esso svolge una precisa funzione di occultamento; occorre perpetuare l’inganno del genio solitario per non svelare, al contrario, la profonda natura sociale della scienza.
Scienza che proprio negli anni del aggiorno americano di Einstein vede accelerare i tempi della propria integrazione col tessuto produttivo e col potere politico, economico e militare, con conseguente modifica dei propri meccanismi di funzionamento e formazione di un nuovo tipo di management scientifico-industriale, di nuova professionalità scientifica e nuove linee di ricerca dominanti. La rottura che la generazione di Einstein ha operato trenta anni prima in Europa si sviluppa e conduce, nel mutato contesto sociale e culturale dell'America a cavalo della seconda guerra mondiale, ad esiti in cui la tradizione della fisica europea stenta a riconoscersi. L'isolamento scientifico di Einstein («qui mi considerano un vecchio fossile», dirà di se stesso a Princeton) può allora essere letto in una chiave più strutturale, meno legata alla eccentricità o alla formazione culturale della persona.
Il prestigio che lo circonda, dentro e fuori dall'ambiente scientifico, sarà allora usato per ergerlo come consolante paravento davanti ad una scienza in cui è ormai un estraneo; la nuova fisica si trova così, in modo solo apparentemente paradossale, ad essere rappresentata dall'uomo che riassume in sé larga parte delle caratteristiche che essa è sul punto di perdere, o che non ha mai posseduto.
Così i fisici americani chiederanno ad Einstein di firmare la lettera a Roosevelt che darà il via al progetto della costruzione della bomba atomica. Per quella firma, il pacifista Einstein è stato indicato come il padre della bomba. Dietro l'immagine dello stregone, capace di evocare le potenze misteriose della natura, compare il fungo distruttore dell'esplosione nucleare.
Naturalmente, la bomba non l'ha fatta Einstein, l'hanno fatta le centinaia di persone che hanno lavorato nei laboratori di Los Alamos al primo grande progetto «industriale» di ricerca scientifica, atto di nascita della big science. Ancora una volta, il mito svolge la sua funzione di copertura della concreta natura della scienza. Quanto Einstein sia stato vittima, e quanto complice cosciente della costruzione della sua leggenda, è in fondo irrilevante. Ciò che conta è che, come scrive J. M. Lévi-Leblond, «è ora che l'albero cessi di nascondere la foresta».
“il manifesto”, 14 marzo 1979
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