18.8.10

Le origini del sicilianismo tra Settecento e Ottocento (di Giuseppe Carlo Marino)


Giuseppe Carlo Marino è autore di una Storia della mafia capace più di altre di scavare sul nesso mafia-politica, con una conclusione diversa da quelle correnti e, a mio avviso, più convincente: la mafia non è un organizzazione criminale che entra in rapporto con la politica, ma una forma di potere, un fenomeno immediatamente politico. Nei mesi scorsi ha rilasciato alla rivista Diacronie una lunga intervista (raccolta da Deborah Paci e Franco Pietrancosta e trasferita sulla pagina scritta da Jacopo Bassi) che fa il punto su alcuni nodi decisivi della storia siciliana contemporanea, di quelli con una fortissima ricaduta sul presente e, credo, sul futuro: il sicilianismo, la mafia, l’autonomia, il milazzismo. Qui propongo (senza le domande) la parte dedicata alle origini del sicilianismo tra Settecento e Ottocento. Ma l’intervista è da leggere integralmente. (S.L.L.)
Michele Amari
Nell’ambito dell’operazione politico-culturale tentata da Domenico Caracciolo in Sicilia si distinsero come maitres à penser del riformismo alcuni intellettuali ai quali può farsi risalire, in età moderna, la formazione di una cultura siciliana i cui caratteri si sarebbero ulteriormente rafforzati. Si avviò un processo di ideologizzazione della condizione siciliana (da me riassunto nella definizione ideologia sicilianista, in un vecchio libro del 1971 più citato che letto, L’ideologia sicilianista: dall’età dei lumi al Risorgimento, Flaccovio) processo alimentato dal pensiero di un’élite di intellettuali autorevoli, che risultava comunque funzionale anche alle esigenze di identità e di potere dei ceti dominanti agrario-baronali. Si cominciò, infatti, a teorizzare l’esistenza di specificità siciliane dipendenti da una peculiare condizione insulare, di clima, di cultura, di assetti sociali, di tradizioni popolari, alla quale i “baroni”, i grandi latifondisti, avrebbero fatto costante riferimento per rivendicare l’intangibilità dei loro privilegi. La riflessione su un’identità siciliana da fondare o da ritrovare nella storia fu la piattaforma per l’elaborazione di un sicilianismo degli intellettuali e dei ceti egemoni nel quale furono inevitabilmente coinvolte quote assi rilevanti di popolo. Tra gli intellettuali di riferimento di un siffatto processo si possono citare scrittori di “patrie” storie siciliane quali Giovanni Evangelista Di Blasi e Isidolo La Lumia; senza tralasciare quel grande storico – forse uno dei più grandi in assoluto del panorama storiografico settecentesco italiano, per quanto poi oscurato dal corso dell’evoluzione culturale successiva della Sicilia nel Regno d’Italia — che risponde al nome di Rosario Gregorio – nonché di Giovanni Meli, noto poeta e scrittore in lingua siciliana. La ricerca d’identità siciliana sarebbe proseguita nell’età del Risorgimento con riferimenti illustri, tra i quali è da ricordare Michele Amari che esordì da “sicilianista” come autore del Catechismo politico siciliano, ma poi, sotto l’influsso del pensiero mazziniano, pervenne all’approdo dell’unitarismo italiano, testimoniandone le conquiste ideologiche e culturali con la sua nota, eccelsa produzione storiografica e con l’impegno politico di ministro del Regno all’ombra della Destra storica.
Il luogo privilegiato (della riflessione sul sicilianismo) è stato Palermo anzi, per certi versi, direi che Palermo ne è stato il luogo esclusivo, essendo il luogo dei luoghi delle proiezioni urbane della Sicilia profonda del latifondo, il “salotto buono” della cultura politica siciliana, l’area più ampia e articolata del mondo delle professioni e degli affari, la “capitale” della burocrazia del regno preunitario.
In principio, il sicilianismo, ben più che una richiesta di “autonomia”, recava con sé (in termini più o meno espliciti) una vera e propria rivendicazione di indipendenza. Tanto più se ne avvertiva l’istanza quanto più i fatti storici si incaricavano di renderla impossibile sotto sovranità “straniere” ininterrottamente succedutesi nei secoli. Alla deprivazione di “indipendenza” i ceti dominanti siciliani, la classe dirigente agrario-baronale, avrebbero reagito con una specie di orgogliosa e mitica esaltazione delle loro originarie e indomite “virtù” (così come ho cercato di spiegare ne L’Ideologia sicilianista). Resi incapaci dalle forza degli eventi storici, e dagli stessi limiti della loro natura premoderna o antimoderna, di costruirsi un loro Stato indipendente, elaborarono l’idea di una sicilianità astratta e favolosa, facendone quasi una quintessenza idealizzata della loro impotente insularità. La rivendicazione, e poi la reale conquista dell’autonomia nel quadro dello Stato unitario italiano, sarebbe stata ben altra cosa: un processo dai caratteri e dai contenuti nient’affatto aristocratico-baronali, ma, se si vuole, borghesi e infine democratici, sul quale, avendone qui occasione, mi piacerebbe ritornare. Tuttavia la cultura politica siciliana è rimasta per così dire sempre divisa tra un separatismo corrispondente al sentire degli antichi “baroni” e una richiesta di autonomia nello spirito di un’opposizione democratica alla centralizzazione burocratica dello Stato unitario.

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