30.8.10

Libertini e il Pci. Ovvero il vizietto di aggiustare le vite.


Credevo che il vizietto di aggiustare le altrui vite secondo il proprio comodo, tipico dello stalinismo, fosse scomparso. E invece no! Continua.
Rileggendo ieri, nel bel libro di Maria Attanasio Di Concetta e delle sue donne, del “giovane e marxista barone”, ultimo erede della potente famiglia Libertini, cui “alla fine degli anni quaranta” era stata negata la tessera dal Pci di Caltagirone, mi chiedevo se si trattasse di Lucio Libertini, le cui ascendenze aristocratiche e siciliane mi erano note, ma non nei particolari.
Ne conoscevo assai bene, invece, la biografia politica. Nel segno della sinistra e dell’inquietudine. E qualcosa non mi tornava.
Libertini, nato a Catania, era politicamente attivo a Roma dal 1946 militando - le testimonianze sono concordi - tra i giovani socialisti e poi nella corrente di “Iniziativa socialista” di Mario Zagari e Matteo Matteotti. Si trattava di un’area politica e culturale che non nutriva speciali simpatie per lo stalinismo e il togliattismo. Libertini, per molto tempo da allora in poi, sarebbe stato esponente di una sinistra marxista, radicale nei progetti e nei programmi, ma molto critica nei confronti del Pci, che allora si muoveva dentro la sfera dell’ortodossia sovietica. Mi sono perciò chiesto se il Libertini di Caltagirone fosse un altro o se l’episodio narrato nel libro non fosse da collocare tra il 45 e l’inizio del 46. In questo caso l’espressione “alla fine degli anni quaranta” rientrerebbe nella deliziosa vaghezza dei narratori.
Ho cercato nella rete una soluzione al (piccolo) problema. Non l’ho trovata, non sono cioè riuscito a sapere con certezza se il Libertini di Caltagirone fosse Lucio o un altro. Mi terrò per ora il dubbio: lo scioglierò un’altra volta o lo porterò nella tomba. Nella rete, tuttavia, attraverso Google, ho trovato cose che hanno urtato la mia sensibilità.
Una biografia dell’uomo politico ampia e particolareggiata come la desideravo non c’era; c’erano invece alcune pagine che ne ricordavano con accenti assai simili (e reticenti) l’ingegno e le gesta. L’unica che mi è sembrata rendere merito senza gravi omissioni o falsificazioni alla complessa vicenda politica di Lucio Libertini era in un sito del Movimento Radical-Socialista, ove uno scritto di Giancarlo Iacchini lo colloca accanto “agli altri grandi radicalsocialisti Vittorio Foa e Lelio Basso” : quantunque ne appiattisca le ragioni in una sorta di apologia, non tace i passaggi del suo percorso. (http://www.radicalsocialismo.it/index.phpoption=com_content&task=view&id=104&Itemid=1)
Tra le altre pagine di Internet la più scandalosa mi è parsa quella di Wikipedia (http://it.wikipedia.org/wiki/Lucio_Libertini), l’enciclopedia telematica la cui conclamata obiettività dovrebbe essere garantita dalla compilazione e correzione plurale e cooperativa. Ne riporto qui la prima parte: “Membro della Federazione giovanile del Partito Socialista Italiano, nel 1946 diede vita alla corrente "Iniziativa socialista", favorevole ad un'alleanza con i comunisti. Nel 1958, quando ormai la politica del Fronte Democratico Popolare era già stata abbandonata dai vertici del PSI, scrisse le sue Sette tesi sul controllo operaio, in cui rilanciava la necessità dell'abolizione della proprietà privata”.
E’ un esempio tipico di “falsificazione per omissione”. La corrente “Iniziativa socialista” - si legge – era “favorevole ad una alleanza con i comunisti”. Vero! Ma voleva, appunto, un’alleanza, una associazione tra “diversi”, valorizzando il ruolo autonomo del Partito socialista con critiche estese e generalizzate al modello stalinista di stato e di partito. (Rinvio chi volesse saperne un po’ di più in questo stesso blog al seguente post: (http://salvatoreloleggio.blogspot.com/2009/12/palazzo-barberini-una-scissione-di.html ). La politica del Psiup (era questo al tempo il nome del Partito socialista) nel 1946 era quella “frontista” dell’unità e più d’uno aveva avanzato l’ipotesi “fusionista”, del partito unico della classe operaia. Insomma erano Nenni e Morandi i “filocomunisti”, non Libertini e “Iniziativa” che erano semmai erano “acomunisti” e perfino un po’ “antisovietici”.
Anche la frase successiva, quella sulle Sette tesi (che furono scritte insieme a Panzieri, anzi più da Panzieri che da Libertini), è costruita in modo da far apparire Libertini amico del Pci o, almeno, più amico di quanto non lo fossero gli altri dirigenti socialisti che avevano abbandonato la politica del Fronte popolare. Lui invece, figuriamoci, “rilanciava l’abolizione della proprietà privata”, come in Russia. Come se non bastasse la “voce” di Wikipedia salta 10 anni cruciali per Lucio Libertini, tra il 46 ed il 57.
Tra i protagonisti della scissione di Palazzo Barberini con Saragat nel 1947, egli avrebbe, un paio di anni dopo, abbandonato il nuovo partito (Psli), perché subalterno alla Dc e alla Nato: entrò nella magmatica area di dissidenza comunista, socialista e marxista che aveva rapporti con lo scisma del “traditore” Tito, ottenendone qualche (scarso) sostegno finanziario. Poi partecipò, con gli scissionisti del Pci Cucchi e Magnani, alla formazione dell’Unione socialista indipendente, che partecipò alle elezioni politiche del 1953 non apparentata né con la Dc né con Pci e Psi: Libertini era tra i redattori più assidui della rivista del movimento, il Risorgimento Socialista.
Nel Psi Libertini confluì proprio con l’Usi, agli inizi del 1957, quando, dopo i fatti di Ungheria, si era accentuato l’autonomismo dal Pci. Per effetto della confluenza entrò nella redazione di “Mondo operaio”, che, sotto la responsabilità di Nenni, era di fatto guidato dal condirettore Raniero Panzieri. Libertini pertanto non era affatto, come Vecchietti, Valori e altri quadri “morandiani”, un “carrista” (così erano chiamati i socialisti che avevano approvato l’intervento dei carri armati sovietici a Budapest). Tutt’altro. Le stesse Sette tesi non fecero scandalo perché rilanciavano l’abolizione della proprietà privata, cui come obiettivo di lungo termine restava fedele gran parte del Psi (Nenni, ancora nel 1967, criticando il modello sovietico, scrisse “l’abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione e di scambio non è sufficiente”), ma perché criticavano da sinistra sia la “programmazione democratica” di cui cominciavano a ragionare “Il Mondo”, La Malfa, Saraceno e alcuni comunisti, sia, ancor più, la pianificazione centralizzata dell’economia di stampo sovietico. Panzieri e Libertini avrebbero voluto che si affermasse, a Est come a Ovest, il “controllo operaio”, dal basso, di tutte le scelte produttive.
Insomma la storia di Libertini è del tutto diversa da quella che Wikipedia non dice, ma lascia immaginare. Ne è riprova quanto successe dopo. Quando, entrato il Psi nel governo, si costituì il Psiup (gennaio 1964), Libertini non confuse mai la sua posizione con quella dei “filosovietici” che governavano il partito e si schierò a sinistra nella nuova formazione, punto di riferimento di un’area politica importante che già allora dialogava con i gruppi del marxismo eretico.
Scrisse in quegli anni Capitalismo moderno e movimento operaio, nelle edizioni Samonà e Savelli, una vera e propria requisitoria da sinistra contro la “coesistenza pacifica”, intesa come spartizione del mondo in sfere di influenza, e contro la strategia delle “riforme di struttura” di stampo togliattiano. Nel 1968, per la stessa casa editrice, pubblicò le Dieci tesi per il partito di classe: questa volta le sue rampogne erano dirette senza mezzi termini a un Pci considerato sempre più interclassista.
Quando, nel 1972, il risultato elettorale negativo portò allo scioglimento del Psiup, Libertini, a sorpresa, si schierò con Vecchietti e Valori per la confluenza nel Pci. Il grosso della sinistra socialproletaria, intorno a Foa e a Miniati, diede invece vita a un Nuovo Psiup per poi confluire con “il manifesto” nel Pdup. La scelta di Libertini non piacque a molti comunisti, tant’è che Luciano Gruppi, un classico intellettuale d’apparato, pensò bene di scrivere una lunga lettera su “Rinascita” che ne ricordava le precedenti posizioni per chiedersi e chiedergli: “Che ci viene a fare nel Pci?”. In effetti Libertini, ch’era un vulcano di idee e un grandissimo lavoratore, fu tenuto per un paio d’anni ai margini degli incarichi dirigenti. Poi nel 1975, eletto consigliere regionale a Torino, entrò come assessore nella Giunta del Piemonte. L’anno dopo fu rieletto in Parlamento.
Il rapporto con il Pci, dunque, fino alla confluenza, fu pertanto tutt’altro che lineare e nel Pci fu sempre guardato con ammirazione e diffidenza. Di questa complessità nella biografia di Wikipedìa non c’è traccia e non c’è neanche in quella che correda la breve presentazione dell’archivio personale di Libertini all’Istituto Gramsci.
La pagina più demoralizzante che ho trovata, in ogni caso, si recupera nel sito “Comunisti a Cesena” (http://www.comunisticesena.it/libertini/lucio-libertini.html). Se non ho capito male doveva essere, prima dell’ultima scissione, il sito del Prc. I post più recenti non so bene chi li cura: sono tutti incentrati sulla difesa della Costituzione e, almeno su questo, vendoliani e ferreriani dovrebbero essere d’accordo. La pagina risale comunque al 2004 e, sotto il titolo Lucio Libertini: una vita per restare comunisti, è firmata Marco Sferini. L’articolessa si ritrova “para para” nel sito Prc di Savona e, temo, in altri ancora. La sua mendace efficacia, dunque, pur riguardando le nostre minuscole sette, tende a dilatarsi.
Libertini è lodato innanzitutto come uno dei padri fondatori del Prc ed è definito “un socialista che si era progressivamente allontanato dal riformismo socialista per chiedere il diritto di potersi dire comunista”. Sferini giustamente inserisce Libertini nel dibattito interno del Psiup e dell’“aspro confronto tra Nenni, Basso, Pertini, Saragat e tutti gli altri leader”. Aggiunge:“Ma queste battaglie interne permisero una crescita culturale a Lucio che divenne, nella sua espressione marxista un convinto sostenitore della teoria leninista dello Stato, del partito e del controllo operaio”. Poi passa alle Sette tesi raccontate alla meno peggio, presentando Raniero Panzieri come collaboratore “per anni” di Libertini (gli anni di collaborazione in realtà non arrivavano a due).
Insomma anche qui, con lo stesso metodo di Wikipedia, si tace sulla scissione di Palazzo Barberini e, forse a maggior ragione, si tace sul “lavorìo” intorno alla dissidenza del Pci con i trotzkisti di Livio Maitan, con i titoisti e con i “magnacucchi” scissionisti, quelli che Pajetta chiamava “pidocchi nella criniera di un cavallo di razza”. Il tutto per una maggiore gloria di Libertini, di cui, ovviamente, si tace l’ultima (deleteria) iniziativa politica interna al Prc, la congiura con Cossutta e Rizzo per abbattere la segreteria Garavini che aveva aperto ad Ingrao.
Sono cose vecchie che non giova rivangare? Forse; ma ancora più vecchio e decisamente più dannoso è l’uso di mutilare le altrui vite, ignorandone le contraddizioni, cioè la ricchezza, per poterli secondo convenienza beatificare o demonizzare.

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