28.2.11

Rivoluzione nel Maghreb e inflazione. Parla Fitoussi.

Su “La Stampa” di ieri (27 febbraio 2011) uno dei “pezzi forti” è costituito dall’intervista di Marta Dassù a Jean Paul Fitoussi, il celebre economista francese d’origine tunisina. Due gli argomenti: la “rivoluzione” in Tunisia e gli effetti delle rivolte maghrebine sull’inflazione. Fitoussi sul rischio inflazione è relativamente ottimista, pensa che sarà contenuta, eppure…
Ecco qui “postato” uno stralcio dall’intervista. (S.L.L.)
Non c’è un'interpretazione univoca su ciò che ha scatenato le rivolte maghrebine. L’unica cosa che sappiamo è che nessuno le aveva previste: né i politologi, né i governi. Ma sulle cause non c’è accordo. C’è chi pensa che l’aumento del prezzo dei beni alimentari sia stato determinante: si tratterebbe di una nuova «rivolta del pane». E c’è chi guarda invece alla disoccupazione giovanile o alla voglia di democrazia.
«Nella protesta tunisina queste cause si sono sovrapposte. Ma io la definisco una rivoluzione democratica, paragonabile al 1989 europeo. La Tunisia è un Paese che, grazie alle riforme di Burghiba degli Anni 50, aveva due dei pilastri essenziali delle società democratiche: l’uguaglianza di diritti fra uomini e donne e l’istruzione obbligatoria fino a sedici anni. Sono elementi che hanno consentito una crescita economica abbastanza sostenuta, del 4-5% l’anno; con la nascita di una borghesia moderna. Un dato è indicativo: più dell’80% dei tunisini è proprietario della casa, come in Italia. Una società del genere non poteva più coesistere con l’altra faccia della medaglia: un regime dittatoriale, la corruzione estrema della famiglia di Ben Ali, la mancanza della libertà di stampa, la repressione di qualunque forma di opposizione. Un aneddoto: qualche anno fa ho incontrato il principale consigliere di Ben Ali, che mi ha chiesto cosa pensassi della stampa tunisina. Ho risposto che non la leggo proprio, visto che in prima pagina ci sono solo le foto del Presidente e che notizie vere non esistevano. È vero, ha risposto lui, non abbiamo giornalisti come si deve. Insomma: è a tutto questo che la classe media si è ribellata. La voglia di libertà è stata più importante dei problemi di reddito. D’altra parte, l’aumento dei prezzi del cibo ha permesso di aggiungere a una protesta borghese, giovanile e intellettuale, anche gli strati poveri della popolazione. Il fondamentalismo islamico non c’entra, almeno in Tunisia. È stata una rivolta per avere più libertà. L’islamismo sarebbe un incubo».

Eppure la sensazione, almeno dalla nostra riva del Mediterraneo, è che per ora i tunisini e gli egiziani si siano solo liberati dei vecchi dittatori: un vero e proprio cambio di regime non c’è stato. Per ora è l’esercito a garantire la stabilità e sembra presto per parlare di una rivoluzione democratica riuscita.
«Non sono d’accordo, almeno per quel che riguarda la Tunisia, sta nascendo un nuovo Paese. Certo ci vorrà tempo, visto che il regime aveva fatto tabula rasa di qualunque opposizione. Ma nella testa della gente deve nascere un Paese democratico. Un’Europa che funzionasse aiuterebbe la Tunisia a gestire la transizione verso una vera democrazia. Lo abbiamo fatto per i Paesi dell’Est, dopo il 1989. Lì l’Europa è stata capace di avere una politica. Verso il Maghreb non ce l’ha. E onestamente non si capisce perché: investire in questi Paesi sarebbe, ragionando da economisti, un investimento modesto e ad altissimo rendimento».

Invece l’Europa sembra esitare: è incerta se difendersi o aiutare. È incerta perfino la Francia, stretta fra l’abbraccio a Berlino e una politica mediterranea che non ha funzionato affatto. E d’altra parte affrontare l’89 del Maghreb non costerebbe così poco: la crisi del debito sovrano, in Europa, riduce i margini.
«Parlare di costi eccessivi non ha senso. Aiutare la Tunisia ci costerebbe circa 20 miliardi di euro, un quinto di quello che abbiamo allocato per la Grecia. E se gli americani aiutassero la gente, in Egitto, invece che i militari, spenderebbero di meno. Non stiamo parlando di un Piano Marshall: il problema non è la ricostruzione, è la costruzione delle condizioni per la democrazia. Qui si misura quella che ho definito la “politica dell’impotenza” europea. […] La posta in gioco, per l’Europa, è molto alta: se non aiuteremo noi il Maghreb, i soldi verranno dalla Cina e dai sauditi, con tanti saluti alla democrazia».

Guardando al gioco globale da un altro punto di vista, ci si chiede che effetto avrà lo tsunami del Maghreb sull’economia internazionale. Secondo i dati discussi in un recente convegno dell’Aspen, l’aumento del prezzo delle commodities (prima il pane, poi il petrolio) produrrà inflazione e comprimerà la crescita. Giulio Tremonti vede in quest’ultima crisi un «terzo mostro», dopo lo choc finanziario del 2008 e la crisi del debito sovrano in Europa.
«Ci sarà un effetto inflativo ma sarà modesto: dal 2 al 4-5%, non al 15%. La differenza, rispetto allo choc petrolifero dei primi Anni 70, è che allora c’era piena occupazione; oggi la situazione è opposta, specie fra i giovani. Il vero problema è che l’aumento dei prezzi di cibo e petrolio colpirà di più gli strati che sono già più poveri. Aumenterà la disuguaglianza, che è la causa vera della crisi del 2008. I tre mostri di cui parla Tremonti hanno tutti alle spalle questo stesso problema: oltre un certo livello di disuguaglianza, l’economia non riesce più a crescere».

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