7.5.12

Dickens. Il viaggio in Italia e il "David Copperfield"

Giancarlo Giannini e Laura Efrikian nel "David Coopperfield" Rai (1965)

“Io che l’inglese non so”– come in una saggia canzonetta spiega Gino Paoli – di necessitàincontro molte difficoltà nell’innamorarmi e dire I love you. Per di più devo muovermi con circospezione quando azzardo giudizi su poeti e letterati d’Oltremanica o d’Oltreoceano conosciuti in traduzione, sicché spesso mi fermo al “mi piace – non mi piace” o mi pronuncio solo su questioni di contenuto. Con prudenza anche maggiore affronto questioni di storia e critica letteraria che comportino analisi testuali: se m’accade di leggere qualcosa in materia tendo a fidarmi dell’autorevolezza di chi scrive (quando c’è), evitando così personali verifiche necessariamente approssimative.
Non così questa volta. L’articolo qui postato, di Caterina Ricciardi, che ho recuperato da “alias domenica”, pone una questione che mi coinvolge, anche per ragioni sentimentali. Per me, tra quelli che ho letto, è senza dubbio il David Copperfield il libro dickensiano più bello: una storia di familiari ingiustizie che mi rammenta quelle quasi altrettanto terribili occorse a persone che mi furono molto care. Ora Ricciardi, con delicatezza e abilità, avanza l’ipotesi che quel capolavoro, da Praz considerato di “anglicità tipica”, sia il più “italiano” dei libri di Dickens e di un’italianità più meridionale che settentrionale, lasciando intendere che le pagine che scrisse dalla penisola non solo temprarono Dickens nell’uso dell’io narrativo, ma più ancora ne svilupparono la capacità di rappresentazione sociale. Intendo pertanto rileggere quel caro libro e spero di procurarmi le pagine “italiane” di Dickens, per farmi un’idea. So bene che una lettura in originale sarebbe assai meglio, ma a volte bisogna accontentarsi. (S.L.L.)
Charles Dickens
Ricordo, alle Medie, quando si iniziava a studiare la lingua straniera, di aver letto, con costrizione, una versione italiana di David Copperfield (1850), quale esempio, direbbe Mario Praz, di «anglicità tipica». Giusto. Ma, al di là dell’«anglicità», io non riuscivo a capire allora come un bambino potesse essere esposto ad avventure cosìaccanitamente avverse. Colpa, forse, di un altro secolo, di un’altra Inghilterra, e dell’Italia del boom, a cui un David Copperfield non apparteneva. Oggi è scomparsa l’emotività. Eppure, storicizzata la vicenda, quanto risulta ancora dura da accettare quella maschera autobiografica che il suo autore non riuscirà mai a staccarsi dal volto!
Charles Dickens pubblicava con scioltezza e competenza le sue storie di degrado e di ‘pittoresco’ londinese, ed era già celebre quando preferì allontanarsene per fare un primo giro (pro-abolizionista) in America (nel 1842) – che gli creò molti nemici – e in Europa, arrivando in Italia nel 1844, al tempo dei moti risorgimentali.
Genova era privilegiata nel Grand Tour. Era lì che di solito approdavano i pellegrini in cerca di rovine e di meraviglie artistiche. Dickens, tuttavia, era soprattutto un acuto osservatore dell’uomo nelle sue sorprendenti, accentuate sfaccettature caratteriali e contestuali. In questo senso Genova, che eleggerà a casa d’appoggio per un anno, gli dà un buon battesimo nell’osservazione dell’anima italiana. Le Pictures from Italy del 1846 – Impressioni italiane, più volte tradotte sin dal 1879, l’ultima presso la Biblioteca del Vascello nel 1989 – e le Lettere dall’Italia (Archinto 1987) offrono testimonianza delle esperienze che il suo occhio traeva dai paesaggi attraversati. Dunque, un Dickens per nulla trascurato in Italia su questo versante. Sono «annotazioni», spesso umoristiche, su
ciò che egli chiama curiosamente «mere ombre sull’acqua», un’acqua che si augura di non «agitare» o di contaminare con commenti al «buono o al cattivo governo di nessuna parte del paese», in modo che «le autorità locali, costituzionalmente gelose», non «diffidassero» di lui. Un’excusatio che suona come un obliquo rimando a sospetti di sorveglianza sabauda. Si ricordi, en passant, che il genovese Mazzini era in quegli anni in esilio a Londra, e che Dickens (oltre, sembra, a simpatizzare per la Giovine Italia) stimava il patriota e giornalista (e mancato regicida di Carlo Alberto) Antonio Gallenga, anch’egli a Londra. Pare che da lui egli apprese un po’ di italiano.
Ma, in fondo, senza chiudere gli occhi, in Italia Dickens poteva fare a meno di toccare le urgenze storiche, concedendosi solo battute su un sistema generale «fermato qui secoli fa», su città «inerti», sugli eccessi dei costumi religiosi, su prigioni decrepite, su Masaniello. Se non le opere d’arte – di cui apprezza i soliti Guidi, Correggio, Domenichino, i Carracci, Raffaello e Michelangelo - è l’atmosfera socioculturale dei luoghi (più che la pittoresca), ricca di ossimori comportamentali, che egli insegue – spesso come in un «sogno» (è il caso di Venezia) – e, più concretamente, il carattere dell’Italiano (dal Nord al Sud), non proprio, come si soleva, in tinte ‘stereotipate’, ma appunto calato nella vita comune, nella ‘semantica’ locale, anche nei suoi risvolti ‘comici’ (l’eloquente gestualità degli italiani, per esempio), oggettivato, e letto, come egli avrebbe fatto in una narrazione in prima persona.
Basti citare, nel caso specifico, dalle Lettere il mirabile episodio dell’incontro con il presunto bandito (uno stereotipo, appunto) sulle alture di Radicofani, vicino a Roma, in una sera tempestosa. Un pezzo da romanzo, non riportato nelle Impressioni, dove invece, in quell’occasione, egli si diverte a cogliere macchiette regionali del tipico Carnevale romanesco: i personaggi ‘grotteschi’ dei romanzi londinesi ma in maschera. Eppure, nel 1911 Chesterton arrivò a definire le Impressioni una Dickensland (senza alcun profetico su Disneyland; alludendo piuttosto a Wonderland e alla sua innocente protagonista). Qualcun altro, più di recente, parla dell’autore come di un «travelling Pickwick». Praz invece ne esaltava la capacità di cogliere il «lugubre» e il «comico» delle scenografie (come nella molto goduta Roma) in «pezzi di bravura, formicolanti d’atti e di personaggi». Quel che è certo è che, dopo il viaggio in Italia – percorsa miracolosamente senza baedeker –, la tecnica narrativa di Dickens cambia direzione e maniera, approdando al David Copperfield, presentato, come mai era accaduto, in prima persona, quasi la stessa prima persona autoriale che egli aveva collaudato in Italia e ora spostava al suo milieu.
Edmund Wilson, il più entusiasta estimatore di Dickens (fra tanti non estimatori), nel 1939 sosteneva che in quel romanzo egli «rivela un tono fascinoso» che non aveva avuto prima e non avrebbe più ritrovato. È il «poema», Wilson aggiungeva, «degli amori e delle paure e delle meraviglie dell’infanzia, idealizzate nella memoria»; è il successo, in alcune scene, della rappresentazione della «lotta tra l’umano e l’antiumano, perché ha luogo sul piano della commedia piuttosto che su quello del melodramma». Ma è nelle Impressioni che la mistura del ‘deforme’ comico e dell’umano, della farsa e della desolazione, raggiunge una misura più oggettivata, forse dovuta all’occhio di un osservatore distaccato che si rapporta per la prima volta con un’alterità così diversa, confrontandola con la propria (un po’ alla Todorov della Conquista dell’America e del «noi e gli altri»). È il caso della «pantomima» e della miseria di Napoli, dove Dickens ha l’occasione di rimproverare gli accaniti del «pittoresco» straniero: «Ma, amanti e cacciatori di pittoresco, non distogliamo troppo accuratamente lo sguardo dalla miserabile depravazione, dal degrado e dalla miseria a cui questa gaia vita napoletana è indissolubilmente legata. Non sta bene trovare Saint Giles (un quartiere malfamato di Londra) così ripugnante e Porta Capuana così attraente. (…) Pur continuando sempre a poetare e a dipingere, se volete, le bellezze di questo angolo, il più bello e amabile della terra, cerchiamo, come nostro compito, di associare un ‘nuovo pittoresco’ ad un qualche timido segno di riconoscimento del destino e delle capacità dell’uomo». Come a dire: chi non ha panni sporchi in casa propria? La vita degli umili, generata da cattive condizioni sociali, ovunque sia, non è ‘pittoresca’, e lui l’aveva sperimentata sulla sua pelle fra tipi bizzarri e grotteschi nei bassifondi delle rive del Tamigi.
Se davvero lo scrivere sull’Italia – e su quella diversità – abbia influito sul futuro della sua arte, sarà questione da appurare meglio. Sembra, tuttavia, che si sia d’accordo sulla centralità ‘tecnica’ (di transizione) dell’autobiografico Copperfield nel suo canone, nonostante i limiti implicati da Praz quando nel 1952 affermava che Dickens apparteneva alla tipologia di scrittori che «costruiscono i loro piccoli universi dalle loro impressioni d’infanzia e si portan seco nella virilità le loro fantasie e le loro memorie di quel primo tempo. Quel che essi non possono capire e che non entra nella loro immaginazione durante la loro giovinezza, essi non lo capiscono mai, almeno agli effetti della loro arte». Si può simpatizzare in parte con il giudizio del vecchio Maestro (le impressioni dell’adolescenza). Sembra pur vero, tuttavia, che l’incontro di Dickens con l’Italia lo aiuti a universalizzare gli infiniti grotteschi umani, o le più sentimentali forme del pathos, senza appiattirli in una sola dimensione, sia essa autobiografica o nazionale.

“alias domenica”, 5/2/2012 

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