Non sembra esserci via di mezzo: o il monumento o la caduta rovinosa. Per gli scrittori, come per gli artisti, il destino post mortem non è quasi mai lusinghiero. Possibile che non si possa dare a Cesare ciò che è di Cesare? Non sembra.
Prendiamo il caso di Italo Calvino. A un certo punto è diventato un classico, condito in tutte le salse, citato a proposito e a sproposito, autore passepartout buono a tutti gli usi. Di converso, si sono abbattute su di lui le accuse più varie: postmodernista, disimpegnato, giocoliere della parola, prudente e calcolatore, tutta testa e niente corpo; o peggio ancora: mafioso delle patrie lettere. La gloria, si sa, ha sempre un contrappasso. Forse è venuto il momento di stabilire un punto di equilibrio, di riportare le cose al loro giusto assetto, senza fanfare e senza crucifige.
Ci aiutano tre libri apparsi nell'arco di un anno. Il primo, in apparenza dedito al sottotono sin nel titolo, Italo Calvino, le linee e i margini (il Mulino), è opera di un calvinologo di rango, Mario Barenghi, curatore delle opere letterarie e saggistiche dello scrittore ligure. Preciso e puntuale, Barenghi inizia proprio dalla fama di Calvino, precisando che la beatificazione è recente: rimonta a un arco di tempo piuttosto breve che corre tra la pubblicazione di Se una notte d'inverno un viaggiatore (1979) e l'uscita postuma delle Lezioni americane (1988). Dati alla mano - ovvero tirature e vendite - lo conferma anche l'ultimo capitolo della monografia di Francesca Serra (Calvino, Salerno Editrice). Se si eccettuano le avventure di Marcovaldo, opera minore, bestseller scolastico, che dal 1966 nella collana einaudiana «Letture per la scuola media» assomma in vent'anni 1.230.000 copie, tutto il resto della produzione dello scrittore si vende lentamente, con tirature medie di 6.000 copie a titolo, nell'arco di quasi trent'anni. L'esplosione si ha solo con l'iperomanzo del '79, arrivato in quindici edizioni a 195.000; in verità, una cifra quasi irrisoria per un bestseller. Ma allora dove sta il piedistallo di questo monumento? Barenghi equanime, nonostante il suo tifo per Calvino, apre il volume, che raccoglie pezzi scritti tra il 1984 e il 2005, sostenendo che per tre decenni, a partire dal folgorante esordio nel 1947 (3.000 copie di tiratura del Sentiero, sino a 25.000 negli anni seguenti), Calvino è stato considerato uno scrittore brillante ma atipico, se non addirittura marginale: «Un narratore di vaglia e di talento, ma non molto rappresentativo dei valori e delle tendenze del panorama letterario nazionale». E poi cosa è successo? Che è stato promosso a grande classico del secondo Novecento. Come è potuto avvenire? Potere della critica? Favore dei lettori? Entrambe le cose, e anche altro ancora.
Calvino, lo spiega bene uno storico della scienza, Massimo Bucciantini, in Italo Calvino e la scienza (Donzelli), si è trovato in un punto cruciale di passaggio della società e della cultura italiane (e internazionali), e ne ha interpretato, anche contro se stesso, uno dei possibili paradigmi. Se si legge il libro pur egregio, ben scritto, chiarissimo della Serra, si capisce cosa è accaduto, seppure al negativo. Francesca Serra ferma l'orologio di Calvino al 1963, alla sua crisi come narratore realista e neorealista. Come tanta critica, e con qualche ragione in più, la Serra ne premia l'aspetto favolistico (le Fiabe italiane sono il suo capolavoro) a svantaggio dello scrittore che inizia (o continua) nel '65 con Le Cosmicomiche il proprio percorso. In realtà è proprio lì che Calvino diventa Calvino, a prezzo di una grave crisi - simmetrica e opposta a quella che attraversò Pasolini, passato al cinema - e di un progressivo isolamento. Cosa è acca¬duto? Due cose: la grande trasformazione della società italiana e il crollo delle ultime attese politiche. Vero che la caduta delle speranze della Resistenza è datata 1954-'56, e che il '56 è l'anno della definitiva disillusione verso il «socialismo reale» dell'Est, ma vero anche che sino alla Belle Epoque del boom qualche illusione la sua generazione l'ha ancora coltivava, come si vede nel più giovane Arbasino. Poi di colpo è finito tutto, e nell'arco di cinque anni è arrivata la contestazione studentesca, il '68. Calvino e Pasolini si sono trovati spiazzati, entrambi estranei all'estremismo politico degli anni settanta – Pasolini perfino nemico. Eppure Calvino, cosa di cui si ricorda solo Franco Fortini, è rimasto sempre comunista, un comunista un po’ particolare, razionalista con venature anarchiche, illuminista, e soprattutto moralista.
Ma cosa c'entra la politica con la letteratura? Senza questo aspetto Calvino lo si capisce molto poco (lo conferma l'utilissima Bibliografia di Italo Calvino di Luca Baranelli, Edizioni della Normale). Il libro della Serra, già autrice di un bellissimo Calvino e il pulviscolo di Palomar ('96), buca completamente: non si può parlare di Calvino senza mettere in campo letteratura e politica. Barenghi lo ribadisce: Calvino appartiene a una generazione che ha avuto un'esperienza storica, concreta e determinante; scordarselo è un errore critico imperdonabile. Del resto, per lui letteratura e progetto politico (di una nuova società) sono inscindibili. Dopo il 1965, e sino alla morte, cambia tattica, non strategia. Non ha esaurito le scorte narrative - l'ispirazione -, come spesso si dice; è mutato il contesto: il dettagliato, calibratissimo libro di Bucciantini lo dimostra. Non scopre cose nuove su Calvino - salvo le pagine su Galileo, stupende -, ma da un punto di vista inusuale dimostra che è proprio così: la scienza - e anche le scienze umane, l'epistemologia, come aveva già scritto anni fa Mario Porro - sono il nuovo terreno di confronto e di scontro con il reale. La chiave di volta è ancora la letteratura. A partire da Le Cosmicomiche, passando per Le città invisibili e arrivando a Se una notte, «ogni volta che Calvino s'impegna a definire la letteratura si sofferma sui suoi limiti» (Barenghi). Rubando il titolo a un libro oggi dimenticato di Fortini, suo sodale in questo, seppur con esiti diversissimi, si può dire che è Una “questione di frontiera”. Meglio, di frontiere. Per salvare la letteratura dal suo scollamento dalla politica e ritrovarne un 'senso politico' -, Calvino promuove un'idea non totalizzante della letteratura («per lui la letteratura non coinvolge la totalità della realtà e dell'esperienza»). Letteratura come episteme, «mappa del mondo e dello scibile».
Barenghi aggiunge un ulteriore elemento: quest'idea si congiunge a quella di «desiderio». La letteratura nasce da una mancanza, e il suo segreto «è saper conservare intatta la forza del desiderio» (Mondo scritto e non scritto). La forza del desiderio, in uno scrittore che ha della letteratura una visione agronomica (Barenghi), si traduce immediatamente in desiderio di forma. Altro che postmoderno!, Calvino è un moderno che cerca di attraversare la crisi della letteratura come capacità di rappresentare il mondo. Costretto a verificare su di sé «la perdita dell'esperienza» (Benjamin letto anche attraverso Agamben) nella e della modernità, finita la guerra - quella calda e quella fredda -, scontata a denti stretti la sconfitta del progetto socialista e comunista, patita l'illusione dell'estremismo, all'alba degli anni ottanta, quando tutti si volgono altrove e inizia la letteratura post-politica, egli si volge verso un'idea gnoseologica della letteratura: qualcosa che gli intellettuali e i critici italiani, crociani e gentiliani nonostante tutto, non riescono neppure oggi a digerire.
Da "alias - il manifesto", anno 2007
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