11.8.13

Il marxismo di Cesare Luporini (Bruno Accarino)


Riprendo qui uno dei testi di uno speciale pubblicato dal “manifesto” dopo la morte di Cesare Luporini, un pensatore molto italiano dalle radici europee. (S.L.L.)

Quando molti di noi, giovani e meno giovani, veleggiavano, non solo in senso metaforico, verso terre straniere, insofferenti com'erano di quella che appariva come la gabbia culturale italiana, nei primi anni '70 Luporini accettò, per la Storia d'Italia di Einaudi, di riflettere sul rapporto tra il marxismo e la cultura italiana del Novecento.
Parlò poi di quelle sue pagine con un tono da understatement, ma è difficile pensare che fosse uno scritto d'occasione. Luporini è stato un pensatore molto italiano, e non solo per via di Leopardi. Lui che un diritto di cittadinanza nell'arena europea e internazionale non doveva certo andare a racimolarlo, scavò spesso nella cultura italiana e tentò quasi di dare, alla sua riflessione spontaneamente e biograficamente priva di frontiere, un'identità nazionale. Eppure guardava con simpatia a quelli che, foss'anche solo per ragioni anagrafiche e generazionali, non si erano formati - come disse una volta - alla scuola di Gramsci e di Togliatti.
Luporini aveva, io credo, strumenti di accesso ai testi di Marx più raffinati di quelli di cui disponeva Louis Althusser, ma accettò a tratti, almeno all'altezza del Pour Marx, di essere un modesto mediatore e di lasciare al filosofo francese una funzione trainante e quasi magisteriale: perché sperava che quanto veniva configurandosi, o anche organizzandosi, attorno al nuovo marxismo transalpino e alla sua vena di eterodossia, potesse rimbalzare in Italia.
Così, all'alba di quei difficilissimi anni '70, in un periodo in cui si succedevano a ritmo frenetico archiviazioni e scoperte, entrambe classificate come epocali e irreversibili, Luporini decise di rivisitare Croce e Gentile, Labriola e Gramsci. E di riconoscere un nocciolo di verità profonda a quanto aveva affermato Croce: il marxismo teorico non solo era nato, ma era morto in Italia con Labriola, già alla fine del secolo scorso. Si trattava di capire come fosse rinato, a partire dalla meditazione carceraria di Gramsci.
L'esperienza più intensa, e per certi versi più curiosa, della difficoltà di armonizzare, o almeno di connettere, cultura e politica, fu probabilmente non quella dell'immediato dopoguerra, ma quella dei primi anni '60. In quella circostanza Luporini si trovò schierato dall'altra parte rispetto a Galvano della Volpe e alla sua scuola: e corse consapevolmente il rischio di essere fagocitato nell'ospitale serbatoio degli storicisti italiani, giacché la scuola dellavolpiana si presentava apertamente come una cesura con la tradizione storicistica nostrana. La polemica assunse toni di una certa asprezza e andò avanti in una sede - il settimanale di partito “Rinascita” - piuttosto particolare e anche incongrua. Luporini temeva, in realtà, che i toni accesamente antihegeliani e la spregiudicatezza con cui l'indirizzo dellavolpiano attingeva ad altre tradizioni epistemologiche non fossero sufficienti a vaccinare il marxismo italiano dalla sindrome storicistica.
Non lo erano perché non riuscivano a gestire il fondamento materialistico di un'impresa scientifica che in qualche modo fosse legata al marxismo; ma anche perché, forse, postulavano la discontinuità con la presunta zavorra della cultura italiana per il tramite di un'operazione intellettualistica ed elitaria, destinata a non lasciare tracce e sedimenti sulle forme concrete di interpretazione dell'agire politico. Nella seconda metà degli anni '60 Luporini avviò un itinerario che, se mai ve n'è uno, è lo specchio documentato, e filologicamente agguerrito, della crisi dello storicismo marxista. Una delle intuizioni più durevoli merita qui di essere rammentata: il passaggio dalle forme semplici alle forme complesse di una formazione sociale non ha, in Marx, un carattere diacronico o banalmente empirico, ma un carattere sincronico.
C'è un modello di economica mercantile semplice, nel quale la generalizzazione della forma di merce dei prodotti del lavoro non implica sfruttamento della forza-lavoro, e c'è il territorio dei rapporti capitalistici di produzione. La transizione dall'uno all'altro, diceva polemicamente Luporini, non è decisa dal calendario: è una transizione morfologicamente guidata e incanalata, che non può essere dissipata in un accadere storico generico e - appunto - amorfo. Se non avessimo il quadro delle condizioni formali in cui si scambiano merci, ma non la merce forza-lavoro, non riusciremo neanche a delimitare dove subentra lo sfruttamento.
Dei modi in cui si coniugano, o confliggono, i due tronconi del marxismo - il materialismo storico e la critica dell'economia politica - Luporini non venne forse (e si lasciò andare in questo senso a qualche ammissione) mai in chiaro. Ma se avesse dovuto optare e dare ad uno dei due il timbro dell'irrinunciabilità e della fondatività, avrebbe scelto il primo. Non bisogna spaventarsi, scriveva nella prefazione a Dialettica e materialismo (1974), del naturalismo, del fisicismo e perfino del cosalismo di Marx; e ricorreva a questa sequenza pour épater non solo les bourgeois, ma magari anche colleghi e amici più scaltriti e diffidenti. La prima natura non lascia mai il soggetto umano, comunque si configuri la sua seconda natura.
La concezione del soggetto umano come individuo naturale non è un pronunciamento difensivo o negativo - in funzione anti-idealistica - ma un gesto filosoficamente propositivo e primario, non riducibile a una funzione polemica e controversiale.
Ecco perché l'immagine marxiana della natura appariva a Luporini dirimente quanto poteva esserlo l'analisi del capitale. E forse alcuni dei suoi anni più produttivi furono dedicati al tentativo di dimostrare che di quella finitezza naturale si poteva discutere senza languori esistenzialistici (che nel suo caso avrebbero suscitato il sospetto di un'escrescenza autobiografica): all'interno, semmai, di un progetto di padroneggiamento scientifico della realtà che, a quel punto, non aveva più nulla di piattamente e di arrogantemente razionalistico.

“il manifesto”, 28 aprile 1993

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