9.8.13

La vita di Oscar Wilde (di Beniamino Placido)


Beniamino Placido
Una bella pagina di Beniamino Placido, esemplare del suo modo di far critica, strutturalmente interdisciplinare. Può destare qualche stupore l’approccio pudibondo alla “questione omosessuale” in un intellettuale aperto e illuminista come il grande divulgatore lucano, ma è un segno dei passi avanti compiuti su questo terreno specifico nei 35 anni trascorsi dall’articolo, effetto di un grande sommovimento di culture. Il titolo originario dell’articolo era Londra e i suoi mostri girovaghi.  (S.L.L.)
Oscar Wilde

Perché è così difficile raccontare la vita di Oscar Wilde, oggi? E pensare che è stata raccontata tante volte questa esistenza, esemplare per scandali processi paradossi. Anche al cinema. L'ultima (forse) dia Ken Hughes, in un film del 1960 (I processi di Oscar Wilde) che porta lo scrittore in tribunale con la faccia di Peter Finch, E guarda caso, doveva essere proprio questo grandissimo attore — da poco scomparso e giustamente rimpianto — a darci per la prima volta (Domenica, maledetta domenica, 1971) la rappresentazione dignitosa e dolorosa di una vita esplicitamente omosessuale. Ma se l'omosessuale — che l'Enciclopedia Britannica definisce pudicamente ala voce « Wilde », «obliquità morale » — può essere portata apertamente sullo schermo, perde di interesse drammatico. Può darsi che stia accadendo a Oscar Wilde quello che è accaduto secondo alcuni alle dolenti protagoniste di Ibsen. I cui palpiti e i cui drammi — dicono i maligni — derivavano soprattutto dal disgusto per gli imperfetti scarichi igienici del tempo. Perfezionati questi, hanno perso d'interesse quelle.
A furia di pensarci, mi sono sorpreso ad immaginarmi nella parte di un produttore cinematografico che voglia fare ad ogni costo un film sulla vita di Oscar Wilde, oggi. Cosa suggerirgli?

Il giglio in mano
Ecco, gli suggerirei — per cominciare —- di non cominciare con l'immagine del solito Wilde dandy-esteta-decadente che passa di .trionfo in trionfo per i salotti londinesi stupefacendo tutti con il giglio che ha in mano e la conversazione scintillante che ha in bocca. Né con il Wilde spavaldo del processo per « obliquità morale » del 1895. Né con il Wilde depresso e detenuto che dal fondo della prigione di Reading intona il De Profundis all'odìata-amata ragione dei suoi guai, il giovane Lord Alfred Douglas, familiarmente detto « Bosie ».
Comincerei dalla fine. Da Wilde morente in un albergo di Parigi — a quarantasei anni, e proprio allo scadere del secolo (novembre 1900) — che pronuncia le sue ultime parole famose: « sto morendo al di sopra dei miei mezzi ». E di qui procederei con una serie di flashback.
Il primo flash-back lo collocherei nell'anno 1887, quando l'Inghilterra celebra il giubileo della Regina Vittoria, da cinquant'anni sul trono. E con la Buona Regina, celebra anche il culmine del «compromesso vittoriano», della pace sociale intervenuta dopo le dure lotte politico-parlamentari di metà secolo.
Ma che pace sociale è questa se gli scrittori si inventano cose terribili, avventure allucinanti? Se proprio in questi stessi mesi R.L. Stevenson immagina che un medico, l'esimio dottor Jekyll si trasforma di notte in un mostro, Mister Hyde, e si mette a girare con cattive intenzioni nei bassifondi di Londra?

Un maggiordomo di classe
Come consulenza letteraria suggerirei al mio produttore di non rivolgersi ai soliti critici letterari — eccellenti — che leggono l'ambiguità paradossale di Wilde come una critica alla borghesia filistea del suo tempo. Ne verrebbe fuori lo stesso film di sempre. Ma di consultare un grandissimo critico inglese, quel William Empson che ha descritto da par suo i « sette tipi di ambiguità » del linguaggio poetico. Empson sostiene che a confronto di Alice nel paese delle meraviglie (quella sì, che è una vera critica eversiva), Wilde ha la classe di un « maggiordomo di classe ». Poi di consultare un sociologo della letteratura, quel Romolo Runcini che si è occupato del dottor Jekyll e di Mister Hyde nella rivista Nuovi Argomenti (1970). E di chiedergli se la sua tesi interpretativa può essere applicata anche a Wide.
Questo Dorian Gray che si aggira anche lui di notte — mostruoso — per i bassifondi londinesi, non è per caso anche lui un artista che cerca disperatamente di prendere le distanze dalle classi popolari, di «distinguersi?».
Se è così allora è pronto anche il «messaggio» da iniettare nella pellicola (ogni film ne vuole uno): che fatica questa borghesia che si illude sempre di aver preso le distanze — definitivamente — dal popolo. Di essersi costituita in aristocrazia. Che vive sempre (finché dura) «al di sopra dei suoi mezzi».

“la Repubblica”, 27 agosto 1978

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