23.6.14

Spudorato Petronio (Alfredo Giuliani)

Un'immagine dal Satyricon di Federico Fellini
Del Satyricon di Petronio Arbitro, dal 1928 a oggi, saranno comparse in Italia a dir poco una quindicina di traduzioni; e alcune sono state più volte ristampate, come quella di Nino Marziano ora ripubblicata da Mursia (pagg. 200, lire 6.000). Le ragioni di tanta fortuna sono abbastanza ovvie, ma forse varrà la pena farci su qualche osservazione. Intanto, notiamo che quindici traduzioni (ma non pretendo che il numero sia esatto) in pressappoco un cinquantennio sono veramente troppe. Vuoi dire che nessuna è soddisfacente o che nessuna ha saputo imporsi quale insuperabile (se non altro, stilisticamente).
Di fatto è proprio così. Azzarderei a distinguerle in due categorie: le filologiche e le disinvolte. Alla prima categoria, assai sparuta, appartiene per esempio la traduzione di Cesareo riveduta da Terzaghi (Sansoni), che tutto sommato io continuo a preferire, sebbene alquanto impettita e argutamente professorale («quand'ecco ci si para alla vista», «ti fo veder io»). La categoria delle disinvolte è ormai inflazionata, e se volessi consigliarne una sceglierei quella di G.A. Cibotto, ristampata due anni fa dalla Newton Compton, perché costava poco e col testo latino a fronte.

Un santissimo scapaccione
Un caso a sé è Il gioco del Satyricon di Edoardo Sanguineti (Einaudi), che si presenta come una «imitazione» da Petronio; in realtà è una traduzione vivace e filologicamente corretta, però rifusa dentro una maniera di stile parlato che civetta con la ridondanza («Ma dunque, che siccome sappiamo che ci dobbiamo morire, viviamoci un po'! Ma vi voglio vedere contenti, voi, io, che ci gettiamo tutti nel bagno, adesso, che ci giuro che non ve ne pentite niente, voi, che quello è caldo come un forno»). Insomma, si tratta di una disinvoltura ultrasofisticata.
La disinvoltura del Nino Marziano va invece per le spicce e riduce la scrittura di Petronio a un volgarismo un po' trasandato, e di toni banali. Oltre alle corrività bisogna poi lamentare le imprecisioni: un semplice caput percussi, lo picchiai sulla testa, diventa «gli rifilai un santissimo scapaccione», e nel capitolo precedente (95) una sventola robustissima diventa «un solennissimo ceffone»; ma che c'entrano il santissimo e il solennissimo? E i compediti, quelli destinati ai ceppi, gli schiavi, è lecito farli diventare «quelli che ci hanno i complessi»?
E perché il patrono meo, il padrone, di Trimalcione diventa «quella buon'anima di mio padre»? E la vecchia Enotea (138) infila il fallo di cuoio nel sedere di Encolpio, a scopo magico-terapeutico, non già nel proprio, come accade in questa versione. Non del tutto affidabile, anche se l'intenzione è di rendere filata e gradevole la lettura, mi sembra dunque il lavoro di Marziano. Lo stile, questo è il punto dolente di ogni traduzione da Petronio; e i disinvolti, chi più e chi meno, secondo le loro forze, l'hanno perfettamente intuito: che bisogna andare sul leggero e giocare coi volgarismi perché la scrittura di Petronio è così, tutta una parodia, una peripezia di mimetismi che mette in burla, in fondo con bonario cinismo, un mondo intero di persone, culti, istituzioni.
Il gaglioffo eroe del Satyricon, il narratore Encolpio, studente squattrinato e allegramente disponibile a qualsiasi bassezza, si moltìplica in tutti i personaggi che racconta dando a ognuno la sua voce particolare. La forma plurisoggettiva della narrazione, la crudezza inconsapevole con cui ogni personaggio vive la propria parte, l'assoluta mancanza di moralismo, l'ironia effervescente delle situazioni, la spudoratezza degli appetiti, la comica voracità con cui si consumano le avventure del romanzo, di cui l'episodio della cena di Trirnalcione è l'abbuffante allegoria, sembrano caratteri fatti apposta per gratificare il lettore contemporaneo e per sedurre i traduttori alla disinvoltura. Ma se si va troppo sul leggero, se non si azzecca un tono fondamentale che consenta di rendere le svariate sfumature parodistìche, se si appiattisce la scrittura di Petronio si finisce per ottenere quasi l'effetto contrario: la scrittura peso-morto.
Si sa che il Satyricon è conservato in piccola parte; un'antica annotazione su un codice ci fa sapere che il testo raccoglie frammenti del quindicesimo e sedicesimo libro; da che si deduce che l'intero romanzo doveva spiegarsi in una grandiosa odissea comica fondata sul motivo dell'eroe viaggiatore (un motivo che dalla letteratura greca risale almeno fino all'Ulysses di Joyce). Sul contenuto generalmente ipotizzabile valgono ancora perfettamente le parole del Cesareo: «Le imprese che conosciamo ci danno a un dipresso l'idea di quelle che dovettero formare la materia dell'opera: furti, sacrilegi, tranelli tesi a gente credula e ricca, servigi inverecondi resi o accettati presso signore rotte a ogni lussuria. Il continuo mutamento dei luoghi da modo all'autore di descrivere tutta la vita del tempo: fori, bagni, ville, scuole, alberghi, cripte, cene, orti, pinacoteche, santuari, forse tribunali e teatri, dove vanno e vengono, agiscono, piangono, ridono, persone d'ogni condizione...».

L'ira di Priapo
Da quanto conosciamo si ricava anche qual è l'incalzante e irresistibile agente provocatore del viaggio: il narratore Encolpio ha profondamente oltraggiato il dio Priapo e la gravis ira, il tremendo furore, di costui lo perseguita implacabile. Dopo ogni malandrinata, c'entri o no Priapo, Encolpio se la squaglia portandosi dietro l'efebo Gitone e la minaccia del dio. E' questa la chiave parodistica (e Marziano non manca di sottolinearlo nell'introduzione) che apre le avventure del romanzo al gioco esilarante della dissacrazione.
L'ironia di Petronio, a quanto pare, affabula con imparziale serenità i culti, le credenze, i costumi, le sciocchezze e le nefandezze, le volgarità e le miserie di un campionario sociale molto vasto; non possiamo dire se questa universale ironia toccasse direttamente anche la classe più in alto e i reggitori dello Stato imperiale (siamo nell'epoca neroniana). Forse indirettamente. Quel che si può dire è che Petronio non risparmia quelle che noi chiameremmo le istituzioni letterarie. Quanto ci resta del Satyricon comincia con una sbeffeggiata delle scuole di retorica; ed è evidente nelle pagine che seguono, prima della cena di Trimalcione, la caricatura del romanzo erotico greco; non parliamo poi della sminchionatura che si accanisce con insuperabile grazia satirica nel raffigurare lo spiantato, frenetico e priapesco poeta Eumolpo, personaggio altrettanto immortale del prodigo arricchito Trirnalcione.
Se poi aggiungiamo le imitazioni burlesche della poesia epica, soffiate attraverso le declamazioni di Eumolpo, e le perorazioni più sottilmente caricaturali dello stesso Encolpio (vedi il delizioso capitolo 132 di cui tra poco diremo qualcosa), ci viene il sospetto che quanto ci resta miracolosamente del Satyricon derivi da una sola trascrizione originaria, per mano di un letterato che badava a stralciare dal romanzo i passi che sfottevano, in un modo o in un altro, la letteratura. Sfottimenti, intendiamoci, allegri e di suprema abilità, maliziosamente rispettosi della fatica letteraria: il fabulosum sententiarum tormentum, l'ingegnoso macchinario della fantasia.
Veniamo così per un momento al capitolo 132. Castigato da Priapo, il misero Encolpio per ben due volte ha fatto cilecca con la bellissima e bramosa Circe, gentildonna di Crotone (è lì che si trovano alla fine i nostri eroi, Encolpio, Eumolpo e il cinedo Gitone, scampati a un naufragio). Frustato, sputacchiato e buttato fuori della porta dai servi di Circe, Encolpio si caccia nel letto e comincia a inveire, in versi e in prosa, contro quella parte del proprio corpo che ormai non merita più di essere noverata tra le «cose serie» e di cui, del resto, le persone serie non vogliono sapere niente. La forbita rabbia di Encolpio verso il proprio «coso» contumace è una tale novità che Petronio si diverte a rilevarla con gran finezza retorica. Dopo le invettive, Encolpio ha un buffo moto di pentimento e di vergogna. Come ho potuto parlare al mio coso? Poi ha un soprassalto riflessivo, e grattandosi la fronte si dice: Ma che male c'è a sfogare il dolore con un po' di insulti? Ulisse non parla col proprio cuore prima di affrontare i Proci? E non ce la pigliamo malamente ora col ventre, ora con la gola, ora col capo o con gli occhi, quando ci dolgono?
Di qui Encolpio trapassa a declamare il famoso epigramma che comincia: “Perché, Catoni censori, mi guardate con cipiglio severo e condannate la moderna franchezza della mia opera?”. Ecco il punto essenziale: novae simplicitatis opus esprime ovviamente la consapevolezza lucida di Petronio, che si serve di Encolpio per concludere il capitolo con la persuasione che nihil est... ficta severitate ineptius, niente è più stupido che la falsa severità. Questo è forse l'unico tratto in cui ci è dato di avvertire, appena camuffata, la filosofia esplicita, la poetica dell'autore.
La fortuna crescente di Petronio negli ultimi decenni ha buone ragioni formali e materiali. La ragione principale è probabilmente questa: che il Satyricon rappresenta non gli uomini, ma gli homunci, gli omettini, i poveri diavoli magari invasati, che sono poi gli uomini che conosciamo e che sappiamo di essere (non intendo ingiuriare i sublimi, che esisteranno nel ciclo delle idee). Nello stravaccamento vanitoso, nell'orgiastica pacchianeria e ignoranza di Trimalcione si rispecchia troppa realtà perché sia il caso di insistervi. Ma è anzitutto lo stile, letterario e morale, a fare di Petronio un nostro contemporaneo. Il grottesco e l'ironia inesorabile mescolati con una sferzante e serena indulgenza. Proprio ciò che ci vuole per rassicurarci.


“la Repubblica” - ritaglio senza data, ma 1982

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