1.6.14

Tolomeo e l'America. Un libro di Lucio Russo (Paolo Zellini)

La mappa "ecumenica" di Claudio Tolomeo (II sec. a.C.)
«In questo libro si fa qualche luce su un problema generale di grande rilievo risolvendone uno molto particolare». Così inizia un notevolissimo saggio di Lucio Russo, L'America dimenticata. I rapporti tra le civiltà e un errore di Tolomeo. Il problema generale riguarda la storia delle civiltà: le culture si sono evolute separatamente, per via di un determinismo biologico e di leggi universali, oppure si sono sviluppate per via di interferenze di cui si sono perse le tracce? Gli oceani che separano i continenti parrebbero dimostrare che le diverse civiltà hanno seguito percorsi indipendenti. Ma la tesi reggerebbe ancora se scoprissimo, come confermano numerosi indizi, che alle coste dell'America approdarono le navi di Fenici e Cartaginesi?
Claudio Tolomeo, autore nel II secolo d.C. di un trattato di geografia, ci consegnò una mappa deformata e rimpicciolita dell'ecumene, cioè del mondo ritenuto abitabile. Era la terra che si estendeva a Nord fino a Tule, all'intersezione della Groenlandia col Circolo polare artico (già raggiunti nel IV secolo a.C.), e si allargava in longitudine tra le "Isole Fortunate" e la capitale della Cina. Assumendo una lunghezza di soli 500 stadi per grado di meridiano, invece dei 700 di Eratostene, Tolomeo finiva per spostare Tule a Est dell'Irlanda e avvicinare le Isole Fortunate alla costa africana fino a confonderle con le Canarie. A queste isole assegnava pure latitudini sbagliate, con errori che equivalevano a collocare Napoli in Svezia. Anche alle luci di altre fonti, sarebbe allora evidente per Russo che le Isole Fortunate identificate da Tolomeo erano piuttosto le Piccole Antille, verosimilmente già conosciute in epoche remote.
Il rimpicciolimento dell'ecumene di Tolomeo diventa così una grandiosa immagine del decadimento scientifico e del brusco tracollo culturale del mondo antico tout-court provocato dalle conquiste romane nel biennio 146-145 a.C.. Proprio a quei due anni fatali risalgono infatti la distruzione di Cartagine e di Corinto di cui riferisce in modo drammatico Polibio e quindi lo smantellamento di intere biblioteche ridotte a prede di guerra. Paradossalmente, sarebbe stato l'Impero romano a restringere l'ecumene nei confini di un imponente sistema militare, politico-amministrativo e giuridico. Abituati a vedere in quell'Impero il simbolo di una vasta civiltà, dimentichiamo che già nel V millennio a.C. il mondo era solcato da linee di transito tali da consentire viaggi a lunga distanza e interferenze tra culture diverse. Le comunicazioni tra Mesopotamia e valle dell'Indo sono documentate da antichi testi sumerici e già da tempo le affinità tra le matematiche greche, indiane e cinesi hanno autorizzato l'ipotesi di una loro origine comune.
Ma il libro di Russo non è solo lo scoop di una scoperta dell'America antecedente a Colombo. Gli errori di Tolomeo si spiegherebbero, anche in base a un trattato precedente di Russo, La rivoluzione dimenticata, con l'oblio della geografia matematica di Eratostene e Ipparco e della scienza ellenistica del III-II secolo a.C., quando vissero pure Euclide, Apollonio e Archimede. Sarà stato forse l'attento confronto di scienziati di quella grandezza con autori post-ellenistici di mediocre genio scientifico a suggerire a Russo un'ardita definizione di scienza mutuata sul modello di quella ellenistica: un sapere teorico rigorosamente deduttivo, applicabile a problemi concreti grazie a precise "regole di corrispondenza" tra teoria e mondo reale. Di per sé si tratta di una definizione problematica, anche se chiarisce quale scienza andò smarrita. Per Russo la scienza nacque una sola volta: con l'Ellenismo; ma certe idee nacquero prima dell'Ellenismo e la "rivoluzione" ellenistica "dimenticata" se ne è a tratti dimenticata a sua volta. So che Russo potrebbe eccepire, ma tra i suoi meriti c'è anche quello di accendere la passione del dibattito. Proprio il suo stile erudito, a volte ruvidamente polemico, serve a recuperare il valore inestimabile delle lingue antiche e del sapere trasmessoci da quelle fonti. Certo, se ci si attiene alle fonti, le navi che solcano il mare non incontrano sempre un destino benevolo. L'esplorazione di Tule, come il mitico viaggio di Giasone alla conquista del vello d'oro, assumono nei poeti tragici un senso ambivalente, in cui prevale se mai il pessimismo e il tono apocalittico. Il Coro della Medea di Seneca profetizza che «Giorno verrà, alla fine dei tempi, che l'Oceano scioglierà le catene del mondo, si aprirà la terra, Teti svelerà nuovi mondi e non ci sarà più un'ultima Tule». Ma la conquista dei "nuovi mondi" (un presagio delle scoperte di Colombo) si accompagna a colpe e vendette che evocano le potenze infernali e risvegliano le fiamme del drago della Colchide. Il mare infido e infinito già narrato da Euripide ritorna così nei versi di Seneca, in cui "il prezzo del viaggio" degli Argonauti è Medea, un "male maggiore del mare", il rischio incombente per chiunque osi affidarsi a «un legno sottile, confine troppo gracile tra le vie della vita e della morte».


“la Repubblica”, 19 agosto 2013  

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