24.2.15

Globalizzazione. Il vino dal territorio al marchio (Sebastien Lapaque)

«I Romani sono stati i primi globalizzatori», osservava non molto tempo fa Pierre Legendre. A loro, dunque, il regno, la potenza e la gloria, come si rallegrava Plinio il Vecchio, naturalista di lingua latina nato nel 23 dopo Cristo, con l’entusiasmo di un Jacques Attali in toga e sandali: «Chi non crede, in effetti, che, unendo il mondo, la grandezza dell’Impero romano abbia fatto progredire la civiltà, grazie agli scambi commerciali e alla diffusione di una pace felice, e che tutti i prodotti, anche quelli che prima erano sconosciuti, non abbiano visto il loro uso generalizzarsi?». È il XVI libro della Storia naturale, dedicato alla vigna, al vino e alla vinificazione, che Plinio apre così, su un panorama di una prima mondializzazione felice.
Il commercio del vino era una pratica molto antica nel Mediterraneo. Dopo la fine della Repubblica e l’inizio dell’Impero, l’Italia ne esportava tanto quanto ne importava. Molto presto, mercanti e agronomi presero l’abitudine di classificare i vini distinguendone l’origine. Alla fine del II secolo avanti Cristo, si conveniva sul fatto che la qualità di un vino dipendeva più dal terroir (territorio) e dal paese d’origine (patria) di produzione che dal modo di prepararlo – essendo quest’ultimo importante soprattutto nell’elaborazione di innumerevoli vini corretti, profumati e aromatizzati per ritoccare una coltura pigra e una vinificazione difettosa. Plinio evoca i grandi vini italiani, gallici e spagnoli, poi i vini greci, asiatici ed egiziani, la cui consumazione era un segno distintivo a Roma. Non erano ancora stati inventati i crus bourgeois (prestigiosi vini della zona bordolese del Médoc, ndt), ma si apprezzavano già i vini d’oltremare. Il naturalista si rammarica di questa tendenza. A proposito del vino, egli prende in considerazione i mali della moda e la minaccia che l’estensione del commercio fa pesare sull’arte degli uomini, soprattutto su un’arte così delicata come quella di fare il vino.
«Un tempo, essendo gli imperi e gli uomini d’ingegno confinati del tutto nei propri territori, a causa della mancanza di occasioni si era costretti a coltivare le facoltà dell’animo (…). L’estensione del mondo e l’ampiezza delle ricchezze furono causa di decadimento per le generazioni successive». In materia di viticoltura, Plinio deplora le conseguenze pratiche di questo cambiamento di costumi: «La nostra epoca ha mostrato solo pochi esempi di perfetti vignaioli».
Per comprendere la posizione del vino nell’economia globalizzata, risulta sempre inquietante ricordarsi di ciò che osservava il naturalista romano al momento di una prima unificazione del mondo attorno al Mediterraneo. Ed è stupefacente trovare in lui il testimone antico di una «battaglia del vino» che è nostra oggi più che mai: vini naturali contro vini truccati, vini di territorio contro vini di vitigno, vini artigianali contro vini commerciali, vini di qui contro vini di altrove.
Non si beveva soltanto vino all’epoca romana. Ma si capiva già che non era una bevanda come le altre; si sapeva che esistevano dei vini più gradevoli di altri e che «due vini provenienti dalla stessa cuvée» potevano essere differenti, «a causa del recipiente o di qualche circostanza fortuita»; ci si stupiva dell’importanza del terroir; si distinguevano i vini del Piceno, di Tivoli, della Sabina, di Aminea, Sorrento, Falerno; si bevevano anche birra e idromele, ma si riconosceva al vino privilegio e mistero.
Nato dalla convergenza di un vitigno (o di un assemblaggio) particolare, di un territorio dato, dell’arte di un vignaiolo e delle condizioni climatiche dell’annata, un vino è sempre il fiore e il frutto di un equilibrio unico e non riproducibile. Gli antichi se ne stupivano, la società industriale ci perde la testa. Per le multinazionali dell’agroalimentare che amano imporre una bevanda universale sul mercato, un alcol di cereali – whisky, vodka o gin – sarebbe più adatto: nessun obbligo geografico di produzione, nessun problema di approvvigionamento di materia prima, nessuna angoscia meteorologica, nessuna difficoltà di adeguamento dell’offerta alla domanda. È probabile che George Orwell ne abbia tenuto conto facendo del «gin della vittoria» l’unica bevanda alcolica disponibile nell’universo totalitario del suo romanzo 1984. Un liquore acido e trasparente ma consolatore che Winston Smith beve alla fine del libro, dopo aver accettato il potere del Grande fratello.
Il vino ha l’inconveniente di porre un problema territoriale. La tenuta Romanée-Conti è di 1,8 ettari e produce seimila bottiglie all’anno. Per un gruppo mondiale che questo gioiello del vino di Borgogna farebbe sognare, una tale restrizione della produzione è particolarmente vincolante. Piuttosto che di un appezzamento cinto da mura – fosse anche il più prestigioso del mondo –, ci si concentrerà dunque sull’acquisto di un marchio. Per esempio, nella regione della Champagne, dove nessuno si interroga sull’esplosione nella quantità dei prestigiosi Krug o Dom Pérignon dopo il loro acquisto da parte di Louis Vuitton-Moët Hennessy (LVMH), incontestabile leader mondiale del lusso. Educatamente, la stampa specializzata parla di «approvvigionamenti d’eccezione». Un marchio ha del resto il vantaggio di servire nel mondo intero. Vedrete Chandon e i suoi effervescenti prodotti in Argentina, California, Brasile, Australia, ma anche in India e Cina. In Champagne, si producono trecentocinquanta milioni di bottiglie all’anno. La domanda della nuova classe media mondiale in «bolle» è dieci volte superiore. Ciò che il territorio non può dare, lo dà il marchio approvvigionando il mercato di sparkling wines (spumanti). Siamo onesti: questi Chandon tecnologici, di laboratorio, sono perfettamente bevibili, addirittura piuttosto buoni. Certo non vi si trova traccia di ciò che Francis Ponge chiamava il «segreto del vino». Ma come sarebbe possibile su così grande scala? Il segreto del vino ha in sé qualcosa di fragile e di mutevole che non si accorda con la globalizzazione degli scambi. Affinché il vino sia meno fragile, vogliono che sia ben «protetto» dai solfiti, come reclamano i critici Bettane & Desseauve, questi Stanlio e Olio del discorso enologico dominante; affinché sia meno mutevole, i laboratoristi pazzi della viticoltura industriale dispongono di tutta una gamma di prodotti cosmetici.
Nel suo film documentario Mondovino, presentato al Festival di Cannes nel 2004, il regista americano Jonathan Nossiter ha mostrato che il vino era diventato un prodotto come un altro nella società della concorrenza totale. La tecnoscienza economica globalizzata ha esteso il suo dominio su tutti i vigneti del mondo per mezzo dei marchi. Nelle cantine piastrellate del Médoc, di Mendoza (Argentina) e della Nappa Valley (California, Stati uniti), si inseminano i mosti, si corregge l’acidità dei succhi, si colora o si decolora, si elaborano e si filtrano i vini prima di commercializzarli in bottiglie bordolesi con un’etichetta internazionale. Allo stesso tempo, vi è qualcosa di irriducibile nella logica del territorio. Il cineasta lo ricorda filmando dei vignaioli ribelli nei Pirenei, in Sicilia e in Argentina. Delizioso paradosso della globalizzazione: è in Brasile, Cile, Uruguay, Grecia, Georgia, Serbia, Giappone e Cina che un domani appariranno altri artigiani renitenti agli ordini dell’agroindustria. Perché il movimento dei vini naturali, che acquista ogni anno nuovi domini, diventa anch’esso globale e mondiale. Come all’epoca di Plinio il Vecchio, una ruvida battaglia oppone quelli che considerano il vino come un prodotto agricolo e quelli che lo vedono come un prodotto commerciale. Niente è cambiato, se non in termini di scala, con l’apparizione dell’industria, lo sviluppo del marketing, l’apertura infinita dei mercati.
Esistono certo dei Dottor Stranamore del capitalismo totale che sognano un vino unico, così come vorrebbero un’acqua unica, demineralizzata per cancellare ogni traccia della sua origine, poi rimineralizzata e venduta nei cinque continenti. «Ciò che vogliono, è cancellare la memoria del gusto», ci ha confidato una volta Marcel Lapierre, apripista improvvisato di una guerriglia gioiosa condotta contro i vini tristi nel Beaujolais. Il loro potere nel mondo ci inquieta, la loro volontà di potenza ci allarma, i loro obiettivi ci terrorizzano. Allo stesso tempo, detestiamo questi esseri senza patria né memoria capaci di far dimenticare ciò che osservava Plinio il Vecchio: «Ognuno tiene al suo vino e, ovunque si vada, è sempre la stessa storia».


“Le Monde diplomatique – il manifesto” - Ottobre 2013

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