10.2.15

Morte della nazione (S.L.L.)

Giuseppe Mazzini
Ho "postato" di recente su questo blog e linkato su fb qui due riflessioni da un articolo di Fortini di più di trent'anni fa, che girano intorno al tema della nazione; tema su cui Chabod e Hobsbawm scrissero nel 900, a distanza di alcuni decenni, due libri che più diversi non potrebbero essere, ma entrambi bellissimi, tema su cui (si parva licet...) da alcuni giorni mi accade di arrovellarmi, anche involontariamente.
A me sembra, per esempio, paradossale che si parli tanto di "partito della nazione" proprio adesso che la nazione è sostanzialmente morta, benché insepolta, e si finge di tenerla in vita con complicati macchinari. E mi sembra altrettanto paradossale che i segni di questa morte li avvertisse più di altri Fortini, cioè uno degli intellettuali più consapevoli del fatto che le "nazioni" non sono un'entità "naturale", ma - quasi sempre una costruzione intellettuale piuttosto arbitraria -, frutto di necessità storiche avvertite soprattutto dai ceti borghesi. 
In Italia tra letteratura e nazione, tra lingua e nazione il rapporto è stato strettissimo. E la costruzione nazionale è stata lenta e lunga prima e dopo il Risorgimento. 
La "sparata" che rese famoso Galli Della Loggia, quella della "morte della patria" che sarebbe avvenuta l'8 settembre con lo sfaldamento dell'esercito, è - con tutto il rispetto - una stupidaggine. Qualcuno ha detto che la "nazione" la fecero i partigiani del 1943-45, che la realizzò davvero, come avrebbero voluto Mazzini e Garibaldi, solo la guerra di popolo resistenziale, non le guerre del re. Questo mi pare sostituire una retorica ad un altra. La Resistenza è poco più che un embrione. Quel poco di "nazione" che abbiamo avuto l'ha fatta il compromesso da cui è nata la Repubblica, tra ceti proprietari e imprenditoriali, Chiesa cattolica, movimenti operai e contadini, Nord e Sud, burocrazie e apparati statali, partiti del cosiddetto arco costituzionale. A costruire quel poco o tanto di comunità nazionale che siamo riusciti ad avere sono stati insomma la Democrazia cristiana e il Partito comunista, la televisione, la scuola dell'obbligo, le riforme sociali degli anni 60 e 70. 
Era una costruzione che traeva vantaggi dal fatto che nella guerra fredda (o nella pace armata) tra Est e Ovest l'Italia fosse vissuta come un paese di frontiera; ed era nondimeno costruzione fragile, con gravissimi squilibri ed elementi di conflitto, realizzata a pezzi e bocconi, il che ha fatto giustamente parlare di un paese incompiuto. 
Una nazione siffatta non ha retto già ai primi venti della globalizzazione capitalistica iniziata negli anni 80: Non c'è stata (ed era difficile che vi fosse) una disgregazione regionalistica su base etnica come per l'ex Jugoslavia o anche per la Cecoslovacchia, ma già negli anni Ottanta s'era fortemente attenuato il legame sociale faticosamente costruito. Poi, nella cosiddetta seconda repubblica il "farsi i cazzi propri", le guerre di tutti contro tutti, i particolarismi, le gelosie interne si sono accompagnate ad una progressiva cessione di sovranità, non solo e non tanto all'Europa, quanto ai poteri finanziari dominanti in Europa e in tutto l'Occidente. 
Quello che Fortini notava negli anni Ottanta, l'agonìa della lingua come agonìa della nazione, mi pare che abbia oggi trovato compimento: la lingua italiana e la nazione italiana sono tenute in vita artificialmente. Per questo un tentativo come quello attribuito a Renzi, di rivitalizzazione leaderistico-autoritaria dello stato nazionale, non mi pare abbia molte frecce al suo arco. E' verosimile che l'attuale cvapo del governo riesca a cambiare la Costituzione, che alcune sue scelte segnino profondamente (più nel male che nel bene) l'economia e l'organizzazione sociale, ma non "farà" l'Italia; potrà durare dieci o quindici anni, ma il suo resterà un "governicchio" subalterno ai grandi poteri internazionali.
Se qualcuno mi chiede la soluzione, io rispondo che a volte soluzioni progressive immediate non ci sono, che a volte la scelta è tra il peggio e il meno peggio. Io credo che, senza aspettarsi nell'immediato altro che risultati parziali, bisogna puntare su un Europa politica istituzionalmente democratica e su una nuova sinistra europea, di cui si intravedono i primi segni, capace di costruzione e in grado di condizionare la grande palude della conservazione filotedesca. Non è detto che vada bene: i rischi di qualcosa che assomiglia a una guerra mondiale sono forti e questo farebbe saltare le coordinate su cui ragiono. Ma credo che occorra puntare sulla soluzione più favorevole, se si vuol cambiare il mondo nel senso del benessere e dell'uguaglianza.

Questo è ovviamente un ragionamento astratto, da intellettuale "fottuto" e isolato, con pochissimi agganci nel mondo politico, i miei amici e compagni di "micropolis" e pochissimi altri; ma nelle condizioni date (anche personali) non riesco a chiedere a me stesso di più. Vedo che qualcosa si muove, anche forze giovani con le vocazioni apostoliche che la congiuntura richiede; capisco che dalla Grecia viene una spinta, ma so che la Grecia ha tanti problemi suoi e che è comunque una piccola realtà. A noi vecchi, sconfitti non senza una qualche nostra responsabilità, tocca di stare attenti a quanto accade, a quanto di nuovo e di buono può emergere, senza aggrapparci a schemi inattuali e senza pretese di dettare la linea. Sono convinto che nella battaglia delle idee possa essere utile anche il nostro contributo.

Stato di fb, 8 febbraio 2015

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