7.5.17

Fine Novecento. La riscoperta del Paradiso (Fabio Troncarelli)

Sul finire dello scorso millennio (in una con l'implosione dell'Urss e l'agonia del movimento comunista) tornò di moda il Paradiso. Non mi pare del tutto fallace l'impressione che ebbi allora, e cioè che l'interesse per un Paradiso nell'aldilà facesse da pendant al tramonto dell'illusione che si potesse costruire in terra una sorta di paradiso.
Quest'articolo divulgativo, da un settimanale per un pubblico mediamente colto, cerca di andare un po' più a fondo nella questione. È opera di uno studioso di letteratura e antropologia di valore, capace di una divulgazione efficace. Così almeno mi pare. (S.L.L.)

Hans Memling - Trittico di Danzica
Pannello destro,  Porte del Paradiso
Se vi domandano all’improvviso: «Ma il paradiso dove si trova esattamente?» quanti di voi sapranno dare una risposta precisa? Molti saranno imbarazzati, qualcuno sorriderà: tutti penseranno che è una domanda fuori luogo. Infatti che cosa ce di più remoto ed astratto per noi che il concetto stesso di paradiso? Eppure dietro l’apparente scetticismo di tutti si nasconde una selva oscura di sentimenti, contraddittori e confusi, che non lasciamo affiorare. È il minimo che si possa dire considerando il successo di pubblicazioni che hanno per oggetto l’aldilà, soprattutto nella sua dimensione paradisiaca.
L’ultima è una Inchiesta sul Paradiso, curata da Paola Giovetti, nota al pubblico per aver condotto la discussa trasmissione televisiva Mister O, dedicata ai fenomeni peranormali. Il libro raccoglie una serie di interviste a intellettuali, politici, scienziati, su un tema che sembra degno degli hippies e della cultura degli anni Sessanta: il paradiso oggi, «paradise now». L’aspetto più curioso è che tutti gli intervistati non solo hanno risposto, ma si sono dilungati con molti particolari, come se in vita loro non avessero aspettato altro che un'occasione simile per aprire il loro cuore.
Il rabbino capo di Roma Elio Toaff e lo psicanalista Emilio Servadio, l’arabista Francesco Gabrieli e l’attrice Paola Borboni, lo scrittore Alberto Bevilacqua e il musicista Roman Vlad - insomma un miscuglio non certo omogeneo di credenti e miscredenti, stinchi di santo e libertini - sono tutti d’accordo su un punto: parlare del paradiso è la cosa più bella che ci sia.
C’era da aspettarselo? Forse sì. Paola Giovetti non è nuova a queste imprese. La sua trasmissione sul paranormale, Mister O, ha scatenato ogni sorta di reazione: dai balzi vertiginosi degli indici d’ascolto ai balzi furiosi degli scienziati sulla sedia. In ogni caso emozioni. Mai indifferenza.
Una giornalista abile e spregiudicata che sa come si tiene in pugno il pubblico? Non si direbbe. A incontrarla per strada Paola Giovetti ha un’aria seria, un po’ spenta: per niente grintosa. E allora? Allora è evidente che le reazioni nascono dal contenuto delle domande, non dall’intervistatore. E del resto, basta entrare in libreria, basta sfogliare le riviste più recenti per capire che l’interesse per l'aldilà non è una moda, ma una vera e propria ossessione culturale degli ultimi anni, che non si placa ed anzi cresce col tempo. È nata perfino “Abstracta”, una rivista di divulgazione raffinata, sul modello di Fmr, dedicata all’arcano e ai rapporti con l’aldilà, a cui collaborano storici come Franco Cardini, scrittori come Stanislao Nievo, teologi come Corrado Balducci. Le fanno eco le riviste specialistiche: sull’ultimo numero di “Quaderni Medievali”, l’estrosa ed originale pubblicazione diretta da Giosuè Musca, è apparso un brillante saggio di Margherita Lecco, sulle rappresentazioni medievali dell’aldilà.
Il saggio di Margherita Lecco non è che l’ultimo esempio di questo genere di interventi, se andiamo indietro negli ultimi due o tre anni troviamo una sfilza di storici, semiotici, filosofi di grido che si sono occupati di questi temi. Medievalisti come Jacques Le Goff, che ha studiato la nascita del mito del purgatorio in un’opera classica, già esaurita (La nascita del purgatorio, Einaudi) semiologi come Cesare Segre che ha analizzato le strutture mentali delle rappresentazioni dell’aldilà (La nascita dell’altro mondo, in “Autografo”, n° 1); studiosi di religioni e lingue orientali come Ugo Marazzi, autore di un magnifico volume sugli sciamani, gli stregoni che parlano con i morti (Testi dello sciamassimo, Utet); antropologi come Luigi Lombardi Satriani, il cui volume Il ponte di San Giacomo (Rizzoli) sulle rappresentazioni popolari dell’aldilà ha vinto nel 1983 il premio Viareggio. L’ultimo della serie è uno studio, uscito in questi giorni, di Jean Couliano, che affronta il problema dell’aldilà nell’aldiquà, ovvero l’esperienza del paradiso in terra nei mistici di ogni razza e paese (Esperienze dell’estasi dall’Ellenismo al Medioevo, Laterza).
Perché tanto interesse? Non si può rispondere alla domanda senza chiedersi prima: perché tanto interesse proprio per il paradiso? E cioè: perché il paradiso sì e l’inferno no? E infatti innegabile che tutti i libri, gli articoli, le interviste su questo argomento parlano quasi esclusivamente del paradiso, al massimo del purgatorio, ma non certo dell’inferno, un luogo che, a detta di un cattolico ultraortodosso come Roberto Formigoni, esiste, ma «non è detto che dentro ci sia qualcuno o che ci finirà qualcuno» (Inchiesta sul paradiso).
Dunque, perché solo il paradiso?
Per capire questa complessa e contorta «fede senza fede» in un aldilà positivo più dell’aldiquà, occorre fare un salto indietro nel tempo, fino alle origini della cultura occidentale. Essa ha infatti un carattere particolare che la differenzia dalle altre: una fiducia spiccata nella vita e nell’uomo.
Le concezioni dell’altro mondo riflettono chiaramente questo ottimismo antropocentrico, per cui la vita è il bene più grande, la morte il male peggiore. A differenza di altre religioni, per i greci e per i latini l’oltretomba ha un carattere tristissimo ed opposto alla vita terrena: dopo la morte tutti precipitano nella stessa angosciosa terra di nessuno, il Regno delle Ombre. Ridotti a pallidi fantasmi, gli uomini continuano a sopravvivere a se stessi, tristi, inutili, rimpiangendo la vita perduta. Il loro stato d’animo è ben esemplificato da ciò che Achille dice ad Ulisse nell'Odissea: l’astuto eroe riesce a scendere nel Regno delle Ombre e incontra il suo ex compagno d’armi: e questi, desolato, gli dice che preferirebbe essere «l’ultimo degli schiavi sulla terra piuttosto che il re dei morti». Questa concezione dolorosa dell’oltretomba nasceva appunto dalla concezione ottimistica dell’esistenza: la vita solare ed esuberante dei popoli del Mediterraneo era sentita come il massimo dei valori; dopo non c’era che nostalgia e turbamento.
Le cose cambiano in epoca ellenistica. Dopo la morte di Alessandro Magno (323 avanti Cristo) si formano i vasti imperi che annullano ogni ambizione politica ed ogni libertà individuale. I cittadini delle popolose ed esuberanti città-stato divengono sudditi di questo o quel monarca, senza più prospettive democratiche. Si potrebbe dire che la loro vita terrena assomiglia ormai alla loro vita ultraterrena: privi di stimoli, di iniziativa, di possibilità di miglioramento, possono solo obbedire, chinare il capo e sopravvivere. Ed ecco allora che fioriscono dovunque nuovi culti, nuove concezioni dell’aldilà, che riflettono le speranze di tutti in un mondo migliore. Culti misteriosi che si richiamano a Orfeo, a Pitagora, agli Oracoli dei Caldei, promettono la salvezza. Il motivo comune a tutti questi culti è che l’uomo è prigioniero della materia, schiavo del corpo e della vita terrena. Se riesce a liberarsi, con tecniche appropriate, ritroverà la sua vera natura: egli è un essere divino.
Queste concezioni, alimentate e approfondite dai filosofi neoplatonici, portano a un radicale cambiamento della visione dell’aldilà. Dopo la morte vi possono essere due possibili destini: o si ritorna alla divinità perché ci si è liberati dal peso delle costrizioni; o si rimane ancora prigionieri del carcere terreno e ci si deve purificare con una lunga serie di tormenti e, secondo alcuni, addirittura con la reincarnazione in una nuova esistenza. La vita diviene così sempre più un peso: la vera vita è quella di chi si libera da questo peso e ridiviene simile al Dio che l’ha creato. Allo stesso modo per gli induisti, l’anima si dissolve nello Spirito divino, il Brahman.
Il passaggio successivo fu, naturalmente, il cristianesimo. Nel pensiero cristiano ritroviamo molti elementi della cultura orfico-pitagorica: l’anima si deve liberare dalla catena della carne, per riconquistare il paradiso perduto. Ma la differenza, la novità del cristianesimo fu proprio nel concetto di «paradiso perduto». Infatti, secondo il racconto della Bibbia, l’uomo ha perduto il paradiso per una colpa, oscura ma terribile, all’origine. Dunque non è solo un prigioniero del corpo: è un prigioniero che sconta un reato, un crimine che è stato commesso una volta da Adamo, ma che si ripete ogni volta che i suoi discendenti violano le leggi di Dio.
La novità consisteva nel concetto di redenzione e di merito che l'idea di colpa introduceva. Per la prima volta nella storia della cultura occidentale l’uomo poteva scegliersi l’aldilà che voleva. Non era più una vittima della morte che lo riduceva a un’ombra; neppure era vittima di un destino che lo incatenava al corpo. Era vittima solo delle sue passioni, della sua superbia: in una parola di se stesso.
Cominciarono a diffondersi, così, visioni a forti tinte della vita ultraterrena, che sottolineavano il diverso destino del giusto e del peccatore. Severi moralisti come Tertulliano si abbandonano a descrizioni del giudizio divino degne del marchese de Sade: lo spettacolo dei cattivi, dei potenti, dei peccatori fatti a pezzi, squartati, bruciati, torturati per l'eternità è un grande sollievo per chi soffre le pene dell’esistenza.
In ambienti ereticali simili visioni furono ancora più furenti: nell’altro mondo si realizza ciò che in questo mondo è vietato. Ed ecco allora le Apocalissi degli gnostici, con terrificanti immagini di punizione; ecco le condanne senza appello dei manichei per chi non è «eletto», salvato direttamente da Dio da una vita che non può che essere peccaminosa.
L’armamentario delle punizioni ripesca vecchi motivi del folklore, insieme a nuove fantasie: il fuoco, tormento tipico e tradizionale di molte religioni, si mescola a spezzettamenti e torture spesso legate all’orfismo (Orfeo fu fatto a pezzi dalle Baccanti).
E il paradiso. Quanto più truce, feroce, bestiale è l’inferno, tanto più ineffabile, aereo, luminoso è il paradiso. Il cristianesimo sviluppa all’estremo le suggestioni neoplatoniche: libero dalla materia, dal corpo e soprattutto dalla colpa e dall’angoscia, chi è in paradiso è felice in modo indicibile; è una specie di ubriaco lucido che vola nell’aria. Una concezione che ricorda quella del volo estatico dello sciamano nelle religioni primitive.
Le due realtà opposte si fronteggiarono per secoli durante il Medioevo: l’invenzione del purgatorio, come ha mostrato Le Goff, è un fenomeno tardo, nato per attenuare l’urto tra due destini così radicalmente opposti. Il purgatorio accoglie i borghesi, i piccoli peccatori, le puttane, i truffatori che pullulano nelle città, nei comuni che si stanno liberando del Medioevo. Costoro non sono sufficientemente cattivi per essere dannati, ma neanche sono anime candide e meritano una qualche punizione. Nasce così l’idea di un tormento a tempo determinato: pene simili a quelle dell’inferno (fuoco; fatica; dolore) ma meno violente e soprattutto solo temporanee.
Non si trattava però di una vera innovazione: come abbiamo visto già nella filosofia neoplatonica si ammettevano delle pene di espiazione temporanee: ed Origene, grande teologo del III secolo dopo Cristo, aveva proclamato che l’inferno non poteva durare per sempre, provocando le ire della Chiesa.
In ogni caso, nuova o meno, l’idea del purgatorio piacque: e l’immagine dell’aldilà, consacrata da Dante Alighieri, si cristallizzò definitivamente. Tre Regni, uno della dannazione senza rimedio, uno della sofferenza redentrice, uno della letizia. Inferno, purgatorio e paradiso.
È a questo punto, quando tutto è chiaro e ordinato, che comincia tutta un’altra storia che arriva fino a noi.
L’uomo si disinteressò sempre più di ciò che accadeva dopo la morte, in quella mirabile tripartizione che era stata così maniacalmente preparata: e cominciò a interessarsi sempre più ossessivamente a ciò che accade prima di morire. E alla morte in sé e per sé. La storia della cultura moderna è la cronaca di una partita a scacchi giocata tra l’uomo e la morte.
All’inizio con la riscoperta dell’antichità e dei suoi valori, nel Rinascimento, l’uomo sente di nuovo, come i greci, che la vita è il valore supremo: e teme la morte, rappresentandone gli aspetti più terrificanti.
Nascono allora le Artes Moriendi, arti del ben morire, trattati ascetici che dovrebbero insegnare ad accettare la morte e che di fatto contribuiscono solo ad aumentare l’orrore nei suoi confronti. Così come tutti i quadri e le sacre rappresentazioni, i Trionfi della morte e le Danze macabre, che hanno per soggetto la dissoluzione del corpo.
Col tempo, l’uomo finisce per dimenticare la morte e l’aldilà, vivendo come se il problema non lo riguardasse. È questo il meccanismo di rimozione della morte e dell’oltretomba
dalla vita quotidiana, il fenomeno studiato tanto approfonditamente dal tanatologo Philip Ariès. In pratica, dal Settecento ad oggi, la società si è difesa dal pensiero della morte evitando di parlarne e creando istituzioni specializzate che si occupano della cosa solo quando è necessario, come gli ospedali e i cimiteri fuori della città.
La cultura occidentale è così tornata alle origini: come i greci, anche noi pensiamo che l’aldilà sia un luogo angoscioso, dove ci si trascina in un’agonia perenne. Oppure, se siamo atei, come la maggioranza dei pensatori moderni, dopo la morte c’è il nulla.
In questo modo l’Occidente ha rifiutato tutte le speculazioni dei secoli precedenti sull’aldilà: al contrario dei musulmani, che credono in un paradiso molto concreto, in cui ci sono belle donne e divertimenti, e in un inferno con ghignanti diavoli che versano pece fusa sui dannati, gli europei hanno relegato questo genere di rappresentazioni in soffitta. Credere a simili immagini è puerile, infantile, grossolano. Più «virile», invece, credere solo a ciò che si vede: alla vita terrena, non all’ultraterrena.
Eppure questo meccanismo non funziona del tutto: non è un caso se il positivismo, cioè la fede assoluta nella ragione e nella scienza, sia nato alla fine dell’Ottocento negli stessi anni in cui è nato lo spiritismo, cioè la fede nella presenza dei morti tra noi. Razionalismo e terrori irrazionali sono due facce della stessa medaglia: la morte cacciata dalla porta rientra dalla finestra. Lo dimostrano casi famosi di illustri personaggi dell’Ottocento, positivisti e scettici di giorno, angosciati cultori di spiritismo di notte, come lo studioso Achille Ardigò. Da allora ad oggi le cose non sono cambiate. La società opulenta evita di parlare dell’aldilà: ma i suoi membri, privatamente, non parlano d’altro.
E torniamo così alla questione iniziale: perché il paradiso e non l’inferno? Visto che si parla dell’aldilà solo nell’intimità, ma non pubblicamente, è naturale che ciascuno pensi solo al proprio destino dopo la morte.
Nessuno ha il coraggio di confessarlo: ma di fatto tutti pensiamo di andare in paradiso, o al massimo in purgatorio. Ed anche se l’immagine di questi regni d’oltretomba è sbiadita e fuori moda, anche se il fuoco e i diavoli fanno sorridere l’uomo d’oggi, nessuno è disposto ad accettare di dover pagare un conto troppo salato alla fine del viaggio. Così, ufficialmente, l’altro mondo non esiste; ma se si accetta che esista in qualche modo, allora non può che essere un mondo migliore di questo. Un paradiso dunque. Chissà se tutto questo non significa, indirettamente, che la vita terrena di oggi, di cui andiamo talmente fieri da dimenticare perfino la morte, non sia in fondo un inferno.

EUROPEO/15 MARZO 1986

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