6.5.17

“Il gran rifiuto” di Reinhold Schneider. Bonifacio e i suoi tormenti (Italo A. Chiusano)

Ritrovare in una busta di ritagli religiosi la recensione che segue, di quasi 40 anni fa, riflettere sulle oramai dimenticate provocazioni del recensore mi ha fatto venire la voglia di leggere le opere scritto­re cattolico di cui si ragiona, questo Reinhold Schneider, e non solo il testo qui recensito su Celestino V e sul cardinale Caetani, futuro Bonifacio VIII, ma ancor più il dramma su san Francesco e papa Innocenzo, reso interessante dal peculiare “francescanesimo” dell'attuale papa gesuita. Proverò a procurarmelo. (S.L.L.)
Arnolfo di Cambio, Bonifacio VIII
Oggi di Reinhold Schneider si parla poco, o non se ne parla più. Non dico in Italia, ma nella sua stessa Germania. Morì nel 1958, a cinquantacinque anni. Era un cattolico della statura e dellospirito degli Urs von Balthasar, dei Romano Guardini, dei Karl Rahner. Anche lui, teologo e filosofo, critico letterario; ma, a differenza di costoro, proteso alla creatività poetica, soprattutto sui versanti della narrativa e del teatro. Nell'Italia molto democristiana dei suoi ultimi anni, Schneider era spesso invitato per presentazioni e conferenze. Talvolta lo si vide tra noi, con la sua faccia triste e intensa, il naso lievemente pulcinellesco, una maschera che ricordava quella dell’attore Salvo Randone. Poi ci fu molta buriana, qui da noi e in Germania, Schneider se ne andò e sul suo nome calò il silenzio.

Che cosa è un cattolico
Peccato. Bisogna dir grazie all’editrice Città Armoniosa che dopo aver pubblicato di lui gli aforismi e i pensieri intitolati Parole dal profondo, ora ha avuto l’ottima idea di riproporre uno dei suoi due drammi maggiori (l'altro s'intitola Innocenzo e Francesco): Il gran rifiuto (pagg. 364, lire 15.000), nella traduzione assai corretta di Luigi Porsi. Dico peccato, perché la lettura di un simile testo teatrale — ma è anche un saggio, un romanzo squadernato in scene — a parte il suo valore assoluto, che per noi permane alto, può rivestire una notevole utilità.
Per i cattolici, forse? No, i cattolici, se informati e documentati, queste cose le hanno succhiate col latte, e magari oggi hanno trovato ragioni più o meno valide per dimenticarle, per «superarle». Se sono cattolici estranei alla problematica culturale, non leggerebbero, o metterebbero subito da parte Reinhold Schneider, come tantissime altre cose. E magari per snobismo, oggi si farebbero un punto d’onore di leggere Charles Bukowski. L’utilità di leggere un testo come questo la ravviso soprattutto o quasi esclusivamente per i laici.
I laici, oggi, sono molto coccolati. Non solo da loro stessi — con la segreta implicazione che chi non è laico, ossia areligioso, non sia praticamente da prendere sul serio — ma persino dai credenti, anzi in modo particolare da questi ultimi. Credente io stesso, parlo per esperienza personale. Non so perché, ma sento una certa responsabilità — più o meno come il laico Beniamino Placido — per ogni gaffe, distrazione, ingiustizia, faziosità commessa dai laici. Se le stesse cose vengono commesse dai miei compagni di fede nel soprannaturale, provo solo rabbia. Ora, la responsabilità è cosa ben più seria e profonda, intima e affettuosa della rabbia. Il laico, anche noi credenti lo vorremmo mandare in giro tirato a lucido, impeccabile e bello come uno sposo. Se la sua cravatta stona o il bavero ha una macchia di unto il cuore ci dà una fitta.
Una cosa che vorrei regalare ai miei amici laici è una comprensione rispettosa e penetrante di che cosa sia un cattolico. Un cattolico può essere anche un ministro ladro o un prelato furbesco, una pinzochera spietata o un professore trombone. Ma, credetemi, qualche volta un cattolico è anche qualcos’altro. E se un cattolico — o, diciamo meglio, un credente — «funziona», va studiato con cura, perché ha alcune cose strane da offrire, che per lo meno dovrebbero attirare la curiosità dell’entomologo. Dopo, magari, si potranno anche rifiutare tutte le peculiarità e le «ubbie» dell’homo religiosus: ma prima vorrei tanto che si capisse di che cosa si tratta.
Reinhold Schneider, pur tenendo conto degli anni in cui scrisse (suppergiù dal 1930 al 1958), è un modello di tutto rispetto, in cui un cattolico non troppo «extravagante» può riconoscersi. Si vocifera ad esempio, tra i laici, che il credente di tipo «romano» sia portato al trionfalismo, magari bene mascherato. Schneider dimostra il contrario. Ossessionato per tutta la sua vita di uomo e di scrittore dal problema dei tragici rapporti tra fede e potere, tra spiritualità evangelica e machiavellismo cruento della storia, in questo suo ampio dramma sventagliato su mezza Europa presenta con finezza di tocco, ma anche schiacciandoci sotto quintali di orrore, la bestialità dei rapporti umani, specie là dove la barra del comando passa in mano ai preti, ai vescovi, ai papi, ai «santi padri».

Il povero eremita
Si dice anche, dei credenti e degli autori cosiddetti «spiritualisti» (brutta parola, al mio orecchio), che in fondo hanno pur sempre pronta una consolazione. Sarà vero. Chi non ce l’ha, del resto, una consolazione: le generazioni future, o il partito che finirà per trionfare, o la morte che tutto annienta? Ma quando Schneider vi fa vedere che ignobile fine viene imposta al promettente papato del povero eremita Pietro da Morrone (Celestino V, colui che «fece per viltate il gran rifiuto», se Dante alludeva proprio a lui), credo che parlar di consolazione sia piuttosto incongruo, una vera «allegria di naufragi».
Si è detto anche che un cattolico, per il tipo della sua fede, è incapace di vera tragedia, perché ogni conflitto ai suoi occhi è già risolto in seno a Dio. Già, se fossimo angeli in terra, o uomini di pura contemplazione, o defunti già in gloria. Ma siamo esseri di carne e di incertezza, di dubbio e di paura. E la tragedia, per chi crede che ogni nostra decisione ha una portata eterna, si vorrà ammettere che sia ben più lancinante che per chi vede assai più circoscritta la sfera delle nostre azioni.
Il ritratto di papa Bonifacio VHI, il nemico di Dante e di Jacopone da Todi, ci fa capire fino a che punto di straziante dilemma possa apparire una creatura umana, per di più «consacrata», agli occhi di un credente. Com’è facile parlare di Hitler e di Stalin nel mondo d’oggi, privo di trascendenza! Belle condanne rotonde, globali, magari spersonalizzate per addossare quasi tutta la responsabilità a una classe sociale o a una degenerazione di partito. Ma il Bonifacio VIII di Schneider ha molte sfaccettature in più: ora è un pazzo criminale da mettere ai ferri, ora un’anima disperata che vorrebbe credere ed essere santa, ora un despota asiatico scivolato nell’Italia del Medioevo, ora un povero infelice che andrebbe amato e capito. La disperazione, in Schneider e in ogni credente di alta qualità ma non santo, si annida ovunque. E infatti Schneider, negli ultimi anni, vide scendere su di sé un tal buio filosofico che, pare (altra cosa curiosa dei credenti: non si sa mai bene quando e se smettono di essere tali), morì nella notte del dubbio.
Tutto questo, con una delicatezza di mano che mette commozione; poi, di colpo, con sferzate che snudano l'osso. Un gioco forsennato, forse, per chi sta a vedere senza accettarne le regole. Ma non certo un gioco laico, né sciocco, né noioso. Meno che mai un gioco messo già agli atti dalla storia. Perciò è bene studiarlo su testi autentici: come questo.

"la Repubblica", ritaglio senza data, probabilmente 1981

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