3.5.17

Nel cesso (S.L.L.)

Anche in Italia, paese in cui per antica tradizione allignano pregiudizi e bigottismi, il tabù omosessuale perde colpi; ne segue il riconoscimento di una dignità pari (o quasi pari) per ogni orientamento sessuale, che tuttavia inevitabilmente comporta una normalizzazione, un imborghesimento. Ancora qualche decennio fa l'omosessualità - condannata senza attenuanti come depravazione, e non solo dai bacchettoni - era nello stesso tempo compatita come malattia: l'omosessuale era posto al confine della società civile, ma non mancavano luoghi in cui si tollerava la caccia al ragazzo dell'omosessuale maschio, specialmente se il ragazzo era povero (gli spazi dell'omosessualità femminile erano più riservati e nello stesso tempo più garantiti). 
Oggi, più liberamente e con sanzione legale, gli omosessuali si accoppiano tra loro, mettono su casa e, se ricchi, riescono con qualche artifizio a generare e allevare figli come accade nella normalità borghese. Non è perciò improbabile che siano tra i primi a stigmatizzare quelle cacce, tutt'al più giustificandole solo per artisti e poeti come Penna o Pasolini per i quali (chissà perché) vigerebbe una morale speciale.
Come che sia c'erano un tempo i froci da cesso. Correrò il rischio di una infondata accusa di omofobia da parte di qualche fanatico (ce ne sono in ogni compagnia) e li chiamerò così anche se l'espressione non corrisponde al galateo oggi in uso: eufemismi come “gay da toilette” o “omosessuali da bagno” emanerebbero un odore di saponetta per me insopportabile. Si trattava di individui, che posti ai margini della società e delle città, frequentavano i gabinetti pubblici, di preferenza quelli delle stazioni ferroviarie e dei cinema di periferia, e lì cercavano qualche brandello di gioia erotica. 
Immagino che non ce ne siano più in attività, ma nella città dove vivo se ne può vedere ancora alcuni, ormai in pensione da tutti i punti di vista, nelle panchine davanti alla stazione: l'assassino torna sempre nel luogo del delitto. Il mestiere prevalente in questa congrega di reduci era quello del barbiere, ma non manca qualche ex cameriere e c'è perfino un ex operaio della grande fabbrica di dolciumi, un tempo provetto ballerino, che avevo conosciuto al partito. Mi ricordo che non c'era bella donna, alle feste dell'Unità, che non volesse fare con lui un passaggio di danza, forse perché non suscitava gelosie di mariti, fidanzati o amanti. Era peraltro disponibile anche con le meno belle e con le principianti, un vero gentiluomo. 
I froci in disarmo della stazione stanno tra loro in cinque o sei sotto il sole pomeridiano, ragionano del clima, si lamentano degli acciacchi della vecchiaia, della solitudine, dell'ingratitudine, e non di rado rievocano gli attimi lieti della loro giovinezza. Se si convincono di non essere oggetto di disprezzo, scherno o riprovazione, parlano volentieri anche in presenza di persone dell'altra sponda. Uno, alto, per esempio, mi ha spiegato perché il WC della stazione fosse il luogo ideale per alcune piccole soddisfazioni. 
Venivano dai paesi vicini o dalle campagne per svolgere lavori in città, nelle botteghe, avevano quindici, sedici, diciassette anni. Lui, a suo dire, aveva la straordinaria capacità di trovarsi nell'orinatoio accanto quando uno di loro andava a soddisfare un bisognino. Erano garzoncelli di primo pelo, ma spesso dotati di un bell'attrezzo, di un certo interesse anche in stato di quiete. Quando avevano finito di svuotare la vescica il lungo era sveltissimo ad acchiapparlo in mano e a chiedere: “Te lo sbatacchio un po'?”. Il ragazzotto, più confuso che persuaso, di solito rispondeva educatamente: “Fate pure a vostro comodo”. Il più delle volte il frocio doveva contentarsi di quello smaneggiamento, ma succedeva che l'incontro si chiudesse con una ciucciata nel gabinetto chiuso.
Un altro ai ragazzi pagava il cinema e degli antichi convegni raccontava un particolare curioso. In quegli anni aveva avuto un momento di gloria una canzonetta cantata da Luisella, Andiamo a mietere il grano, che faceva, appunto: “Andiamo a mietere il grano, il grano, il grano”. Come segnale per il ragazzo, nei momenti di stanca della pellicola, il frocio ne canticchiava a bassissima voce una parodia da lui stesso inventata: “Vieni a pisciare nel cesso, nel cesso, nel cesso”. Il finale era uguale nella parodia e nell'originale: "E troveremo l'amore, l'amore, l'amore". Nel cesso si trattenevano qualche minuto, sempre con la paura di essere scoperti: “Erano ragazzi normali, preferivano le donne. Poi si sono sposati, hanno figli, nipoti. Da noi si facevano fare qualche servizietto”. 
Mentre raccontava, gli occhi gli si illuminavano.

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