16.5.17

Parigi dal mito alle rovine. Con Macchia senza paura (Italo Calvino)

Parigi 1871. Il Ministero delle Finanze dopo l'incendio
Ancora un venticinque anni fa, Parigi era la città che accumulava le stratificazioni delle epoche senza che il vecchio fosse spodestato dal nuovo e - soprattutto per noi che venivamo dall'Italia del miracolo economico, così frettolosa nell'assumere in superficie gli aspetti più futuribili e nel cancellare le umili tracce del passato - una delle ragioni del suo fascino erano le botteghe antiquate, le insegne stinte, le facciate lebbrose. Aspetti d'una tradizione risparmiatrice e misoneista coesistevano coi segni dell'opulenza di capitale d'un impero coloniale ancora non del tutto liquidato e ci permettevano di recuperare ultimi riverberi di belle èpoque e periferie di film di Carnè anteguerra.
Gli Anni Sessanta si aprirono coi ravalements voluti da Malraux che restituivano il pristino biancore alle facciate fuligginose, ed era una novità che andava ancora nel senso della perennità del passato. Ma ormai il boom edilizio era maturato anche a Parigi e le costruzioni nuove, i negozi lustri, le insegne moderne infiltravano inattese prospettive milanesi in una città che dalla guerra in poi non aveva cambiato che minimamente la sua immagine; i grattacieli e i nuovi complessi affacciavano Tokyo agli spalti della Senna; la severità fiscale falcidiava il pulviscolo di bottegucce che da tempo immemorabile perpetuava la minuta vita commerciale e artigiana di Parigi, e al loro posto le catene di supermercati e le onnipresenti banche estendevano le loro anonime superfici.
Un'idea moderna di Parigi prese a profilarsi col regno di Pompidou; ne va dato merito all'uomo, che - caso raro tra i reggitori francesi di questo secolo - aveva nel campo delle forme visuali gusti precisi e propositi non banali; ma non ebbe fortuna e quasi tutto gli andò storto. Ancora il grande giocattolo di Beaubourg fu tra le realizzazioni volute da lui la più felice, perché oggetto completamente inedito e che si ricollegava in qualche modo all'euforia delle Esposizioni universali. Ma il buco lasciato aperto dalla scomparsa delle Halles (la coscienza del valore delle architetture in ferro battuto di Baltard e del crimine irreparabile commesso fu chiara a tutti solo un momento dopo che la distruzione fosse compiuta, e già era troppo tardi) restò una piaga dolente nel cuore di Parigi, che l'attuale sistemazione a ipogeo commerciale ha peggiorato anziché sanare. Poi la Dèfense, che restò uno scostante campionario d'architettura manageriale, le cui torri spuntando di lato all'orizzonte sciupano senza integrarvisi la prospettiva Arco del Carrousel - obelisco della Concorde - Arc de Triomphe, compendio dell'Ottocento restauratore.
Oggi domina un senso d'insicurezza, perché da un lato si sa che solo le decisioni coraggiose danno grandi risultati e dall'altro si sa che ogni decisione potrebbe rivelarsi sbagliata a breve scadenza, e questa insicurezza si riflette nelle discussioni che continuano attorno alla ristrutturazione del Louvre, con la piramide trasparente dell' architetto cino-americano Pei che sorgerà nella gran corte, e - soprattutto - lo sventramento sotterraneo. Tutte queste cose mi tornavano alla mente leggendo l'ultima raccolta di saggi di Giovanni Macchia, Le rovine di Parigi (Mondadori) la cui ultima parte (che dà il titolo al volume) è dedicata all'origine di questo dramma, definibile sinteticamente così: il mito di Parigi come città assoluta, sommario dell'universo - la Parigi di Hugo, di Sue, di Balzac, poi di Baudelaire e delle acquaforti di Mèryon - nasce nello stesso momento in cui s'affaccia un presagio di distruzione, e dietro la multiforme ricchezza dello spettacolo urbano s'intravede un paesaggio di deserto con rovine.
Questo è già vero nel Settecento, quando il culto delle rovine delle capitali dell'antichità porta ad anticipare per Parigi il destino che fu di Babilonia, Menfi, Atene, Roma, e a proiettare sulla città vivente panoramiche spettrali cosparse di relitti archeologici. Partendo da visionari e ruinografi settecenteschi come Mercier, come Volney, come l'avvenirista catastrofico Grainville (che conoscevo solo perchè rievocato da Queneau), Macchia s'innesta sul periodo della prima esplosione di modernità urbanistica come violenza all'immagine del passato, cioè allo sventramento compiuto durante il Secondo Impero per iniziativa del prefetto Haussmann (nominato barone dopo questa impresa) che aperse i grandi viali sconvolgendo la topografia parigina e il mondo dell'immaginazione poetica e romanzesca.
Baudelaire, con cui la metropoli moderna diventa topos poetico dominante, è anche colui che vede nei segni delle trasformazioni urbanistiche - palazzi in costruzione, impalcature, come nel Cygne - l'immagine della distruzione, della perdita del proprio mondo, dell'esilio nel deserto: la forme d'une ville / change plus vite, hèlas, que le coeur d' un mortel... E per sottrarre la città al divenire e all'effimero sogna una città tutta minerale, una concrezione di cristalli (Rêve parisien). Prima di lui Lamartine, che non condivideva l'allergia di Baudelaire per il regno vegetale, aveva sognato Parigi inghiottita dalle foreste e dal fango della Senna. Le rovine di Parigi si chiude come un travolgente poema su questa straordinaria concentrazione del potere trasfiguratore della letteratura: tra Ottocento e Novecento la poesia francese si investe nel perenne rifarsi di una città e insieme nell'immagine della sua fine, e particolarmente nel dramma che ebbe come antagonisti il razionalismo autoritario delle grandi prospettive rettilinee aperte dal piccone haussmanniano e la nostalgia della caotica topografia medievale e della minuta vita popolare a essa legata.
Tra i nostalgici più accesi, troviamo proprio i rivoluzionari più barricaderi: in politica come Blanqui e in letteratura come Zola. (E non a caso - possiamo aggiungere - visto che ancora nel maggio 1968 le barricate nascono come evocate dalla topografia dei vecchi quartieri, la stessa delle rivoluzioni del 1830 e del 1848, a conferma di quanto l'elemento mitologico e archeologico sia inseparabile dall'idea di rivoluzione). Mentre d'altro canto l'idea di città del peccato porta a evocare distruzioni bibliche, un angelo sterminatore in Alfred de Vigny, così come un aereo tedesco della Prima Guerra Mondiale che sorvola la Sodoma e Gomorra di Proust. L'aereo nemico, l'Angelo sterminatore: il fitto tessuto che intreccia erudizione e sottile intelligenza dei testi rende i saggi di Macchia godibili come opere creative, quali essi effettivamente sono. Leggendoli uno per uno, ma ancor più di seguito, si è presi dalla cadenza delle "rime" di situazioni e di immagini che si specchiano da un autore all'altro, da un secolo all'altro. Sto parlando d'un libro nel libro, o meglio d'un superlibro o metalibro che traversa le varie raccolte del nostro maggiore saggista. Perché nei volumi che egli pubblica con regolarità biennale (l' ultimo era stato Saggi italiani, Mondadori, 1983, che contiene uno dei suoi capolavori assoluti: Tasso e la prigione romantica) si possono sempre distinguere filoni che passano dall'uno all'altro. E questa suite parigina ha la sua logica premessa ne Il mito di Parigi, breve saggio finale del volume omonimo (Einaudi, 1965; ma il motivo era presente fin dall'introduzione 1958 a Il paradiso della ragione), che è anche la premessa a tutto quel che ho aggiunto di mio in quest' articolo.
L'idea di partenza è questa: il mito di Parigi è l'esatto contrario di quello della "città ideale"; perché la "città ideale", capitale della ragione e dell'ordine e della bellezza, era Versailles, tutta geometrica e cartesiana, e Parigi rappresentava l'antitesi, il rovescio: "un enorme organismo in movimento, bello perchè vivo, animato nel suo divenire da una vita sotterranea, piena d'ombre e profonda". Un altro metalibro che continua attraverso tutti i libri di Macchia è quello dei moralisti, che ingloba varie letterature a partire dal Cinquecento e prima: Le rovine di Parigi (così come Il mito di Parigi) s'aprono con un testo su Montaigne. (Come guida preliminare a questo percorso resta fondamentale l'antologia curata da Macchia nel 1961 per Garzanti, I moralisti classici, più volte ristampata). Nelle Rovine il Seicento, secolo dei moralisti per eccellenza, è meno rappresentato che negli altri libri di Macchia, ma in compenso c'è un nutrito numero di capitoli sul Settecento, che fanno il punto su personaggi-chiave come Lamettrie, ma anche su costellazioni di prima grandezza come Rousseau e Voltaire (e anche Sade).
La grande dote di Macchia è d'essere il più chiaro e equilibrato e onnicomprensivo dei critici e al medesimo tempo d'esprimere tutto se stesso tra le pieghe della sua erudizione e della rete di rapporti che tende tra i testi. Poi c'è un altro filone - non so se nessuno l'ha mai commentato -, forse il più singolare e prelibato: quello delle opere ipotetiche, che avrebbero potuto essere e invece non sono mai state scritte. Macchia è un critico (forse il solo al mondo) che tiene conto non solo degli infiniti libri che sono stati scritti, dai più illustri ai più oscuri, ma destina una speciale sottilissima attenzione a indagare le possibilità che la letteratura ha perduto: una biblioteca virtuale che comprende (si veda Il libro da fare, che apre i Saggi italiani) le opere progettate dagli autori e di cui resta il titolo o poco più (Baudelaire covava una miniera d'opere non realizzate), non solo, ma anche quelle a cui gli autori non hanno mai pensato e che pure ci saremmo aspettati che scrivessero. Perchè lo struggente episodio virgiliano di Andromaca (quando la nostalgia della vedova esiliata ricrea in Epiro la topografia di Troia) non è entrato nella Divina Commedia? (Eppure Dante l'aveva ben presente, visto che lo cita nel De Monarchia). E come mai Racine scrivendo la sua Andromaca si lascia sfuggire uno spunto così teatrale? E perché a Baudelaire l'Andromaca di Virgilio fa venire in mente un cigno che muore di sete? A tutte queste domande risponde un saggio delle Rovine di Parigi, un capolavoro assoluto anche questo.
Continuare l'elenco dei fili conduttori delle indagini di Macchia sarebbe troppo lungo, ma ce n'è ancora uno che non posso trascurare, soprattutto parlando di questo libro: quello apocalittico. Si direbbe che questo signore gentile, dall' apparenza rosea e ilare, custodisca nella calma della sua biblioteca, come un tesoro accumulato negli anni, una collezione di catastrofi telluriche. O per esser più precisi, una documentazione dell'aspettativa di catastrofe che cova nei cuori come paura o come malcelato desiderio. Già in altri libri come La caduta della Luna (Mondadori, 1973) cominciava a profilarsi questo aspetto, che acquista ora più evidenza, anche per un' altra eredità raccolta cammin facendo. Infatti Le rovine di Parigi, tema e titolo, prendono spunto dalle rovine del libro che Walter Benjamin voleva scrivere sulla città dei "passaggi" e di cui non restano che frammenti e una montagna di citazioni. Gli autori delle citazioni di Benjamin sono gli stessi su cui Macchia lavora, riplasmando nel suo discorso la stessa figura. Per cui questo libro è in qualche modo un'incarnazione compiuta del fantasma di quell'altro: nella nitidezza e nella solida acribia di Macchia passa un fremito della tensione escatologica del profeta berlinese. A questo punto qualcuno sarà tentato d' arruolare Macchia nella schiera dei cavalieri dell'apocalisse, oggi folta più che mai. Io preferisco trarre anche da lui conferma al convincimento opposto: la scaramanzia come metodo sovrano di dominio della Storia; la consuetudine con la visione della fine del mondo come stabile condizione perché il mondo continui.

“la Repubblica”,19 giugno 1985

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