3.12.18

Sessantotto, una eredità senza eredi. Un convegno a Perugia (Salvatore Lo Leggio, micropolis)




Il 25 e 26 ottobre alla Facoltà di Lettere di Perugia, durante il convegno Eredità e memorie del '68 italiano, organizzato dall'Istituto per la Storia dell'Umbria Contemporanea (ISUC), dall'Istituto Ferruccio Parri e dalle due Università perugine, forse la più ambiziosa tra le celebrazioni del Cinquantenario che si sono svolte e si vanno svolgendo in Umbria, ho avuto anch'io qualche momento di commozione. La locandina con le immagini che la corredano, il titolo e il tema dell'incontro, l'età media dei presenti di sicuro superiore ai sessant'anni: tutto cospirava ad alimentare un clima di nostalgia, che in alcuni momenti propriamente rievocativi, velava gli occhi di alcuni ascoltatori. Mi è venuta in mente una canzone, di Trenet, tra le più belle e nostalgiche del secolo scorso: “Que reste-t-il de nos amours? / Que reste-t-il de ces beaux jours? / Une photo, vieille photo /de ma jeunesse ...”.
L'intenzione del convegno, del resto, era proprio di cercare i segni impressi nel nostro presente dallo sconvolgente movimento sociale, politico e culturale di carattere internazionale che in Italia è chiamato convenzionalmente Sessantotto (una “rivoluzione” - si legge nell'invito – seppure “sognata e mai compiuta”), l'ambizione quella di rintracciare ciò che ne è rimasto nelle memorie individuali e di gruppo, nelle istituzioni, nella legislazione, nel costume, nel linguaggio. È il tema dell'eredità, insomma, quello su cui in illo tempore scrisse parole che pesano Franco Fortini, l'intellettuale che con più consapevolezza rappresentò il nesso delicatissimo tra il Sessantotto e un'altra rivoluzione sperata e incompiuta, la Resistenza: “Non c’è eredità senza eredi, non si è eredi se non si sa di esserlo e se non ci si situa in prospettiva fra un ieri e un domani, un donde e un dove”. A noi sembra che l'eredità di cui nel convegno si discorreva sia sfuggente proprio perché mancano eredi in grado di raccoglierla e nella palude in cui ci muoviamo, ribollente di umori mefitici, si stenta a intravedere un “dove” verso cui dirigersi.
Veniamo al resoconto. Il venerdì le relazioni di studiosi di varia età e provenienza hanno riguardato la memoria orale, la psichiatria, le relazioni con il femminismo, le arti, la moda, la musica del “lungo 68” (definito processo più che evento); il sabato s'è ragionato del ruolo dei cattolici, dell'università, di letteratura, di cinema, di modelli comunicativi. Ha concluso Marco Boato, a suo tempo leader studentesco trentino, successivamente parlamentare di lungo corso con i radicali e i verdi, autore de Il lungo '68 in Italia e nel mondo, pubblicato all'inizio di quest'anno per La Scuola Editrice di Brescia.
Gli interventi avrebbero dovuto incardinarsi sull'asse dell'eredità, ma non tutti l'hanno fatto, né è parsa omogenea la qualità delle comunicazioni, alcune delle quali ricordano un'antica stroncatura di Croce: “Nel libro c'è del nuovo e c'è del buono, ma ciò che è buono non è nuovo e ciò che è nuovo non è buono”; per un giudizio meditato occorrerà attendere la pubblicazione degli atti, in cui si spera si possa reperire una selezione più ampia delle interessanti interviste ai “sessantottini” di cui ha parlato Valerio Marinelli dell'ISUC. Molto incisive anche le riflessioni con cui Salvatore Cingari, dell'Università per Stranieri, ha introdotto la seconda giornata che, senza tacere la vena anticapitalistica che lo percorse, ragionava delle aporie del movimento, illuminando la tensione tra il libertarismo individualista e la forza attrattiva del collettivo e dell'ugualitarismo.
Fin d’ora non si può comunque tacere il fastidio provato per due colpevoli omissioni relative alla comunicazione di Aldo Iori su arte e 68 e di Marco Impagliazzo sul ruolo dei cattolici. Il primo, pur parlando diffusamente della contestazione all'Accademia di Belle Arti perugina, ove insegna, ha citato solo di passaggio Colombo Manuelli, senza nulla dire delle sue opere e battaglie. Dal secondo, professore universitario e oggi presidente della comunità di Sant'Egidio, che ha avuto a lungo come assistente ed ha oggi come protettore Monsignor Paglia, ci si poteva aspettare, come è avvenuto, che valorizzasse un Sessantotto cattolico moderato, vicino ai “poveri” ma obbediente alla gerarchia, senza fantasie “socialiste”. Ma dieci anni fa, vivo don Franzoni, animatore nel 68 della comunità di San Paolo fuori le mura, Paglia lo aveva rappresentato come un fanatico dell'ideologia e della lotta di classe, dimentico del Vangelo. Oggi Impagliazzo fa calare su Franzoni un feroce silenzio. Varrebbe la pena di leggere a questa gente la poesia di Pasolini per la morte di Pio XII, quella che ricorda che i peccati più gravi, quasi senza assoluzione, siano i silenzi, le deliberate omissioni.
Altra cosa è l'inconscia rimozione che è parsa gravare sull'insieme del convegno. Certo, qua e là si è affacciato il ricordo degli studenti davanti alle fabbriche e Boato nella conclusione ha affiancato il 1968 studentesco e il 1969 operaio, ma i riferimenti alla storia, all'organizzazione sindacale e alle forme di lotta operaie non c'erano ed è strano che in un convegno “a tutto campo” fosse assente una specifica comunicazione sui rapporti tra 68 e movimento operaio organizzato. Eppure le occupazioni di facoltà e scuole si richiamavano esplicitamente ad antiche “occupazioni delle fabbriche”, mentre gli studenti si chiamavano compagni e impugnavano bandiere rosse; era tutta ideologia? E, all'inverso, le forme di democrazie diretta come le assemblee, i delegati e i consigli, che anche il sindacato fece in parte proprie, non hanno alcuna relazione con ciò che accadeva nelle scuole e nelle università? Laura Schettini, dell'Orientale di Napoli, interrogandosi sul nesso tra Sessantotto e femminismo, lo ha fortemente ridimensionato. È una conclusione discutibile, ma è inspiegabile che sul movimento operaio non ci si pongano neanche le domande. O forse è fin troppo spiegabile: l'eclissi attuale come soggetto sociale e politico di quella che fu la “classe operaia” porta a ignorarne l'esistenza e il ruolo anche nel passato, l'attualità modella la storia.
Si spiega così il consenso alla lettura “antiautoritaria”, moderata, interclassista del Sessantotto internazionale, rappresentata dal libro di Boato, che nelle conclusioni l'ha esplicitamente contrapposta ad un'altra, retorica, ideologica, giacobina, che esemplificava in Mario Capanna, maliziosamente ricordando il ritratto di Stalin che per qualche tempo il tifernate innalzò.
Tornano utili a questo punto i versi di Walter Cremonte, poeta grande e sottovalutato e sessantottino “resistente”. Nella raccolta appena uscita, Cosa resta, è contenuta la poesia Esempio: “C'è stato un tempo / spiegò il professore / che 'giacobino' diventò un insulto / come oggi, per fare un esempio, / succede alla parola 'comunista' // così spiegò, e io guardai Roberto / cercando nei suoi occhi un dispiacere / ma lo vidi serio assentire // insultassero pure / ce lo saremmo preso / quel po' di gioia / da prendere”.
Collego i versi di Cremonte alla relazione che nel convegno ho trovato più bella e interessante, quella di Francesco Scotti sulla psichiatria. Ci ha raccontato del mix di scienza, etica e politica, del coraggio e della pazienza che furono necessari nella battaglia per chiudere i manicomi e ha parlato con amarezza dell'odierna regressione, quasi una restaurazione: “Usano di nuovo i letti di contenzione. E per di più li giustificano con il benessere dei malati”. Ma ha una convinzione Scotti: che niente vada perduto e che quando nuovi “matti”, medici, operatori, cittadini, riprenderanno nella psichiatria o altrove il percorso di liberazione, non dovranno ricominciare da capo, ma troveranno memorie da recuperare, esperienze da studiare.
L'eredità del Sessantotto è lì, gli eredi prima o poi arriveranno.

"micropolis", novembre 2018

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