8.12.18

Letteratura. Le menzogne narrative del «neorealista» Bernari. Un convegno (Cecilia Bello Minciacchi)



Soluzioni stilistiche mai ovvie e talvolta accostabili alle avanguardie per l'autore di «Tre operai» e di «Amore amaro»

Che gli scrittori - gli artisti - sfuggano a delimitazioni e classificazioni è sempre segno salutare, garanzia di vitalità e di longevità: così avviene, felicemente, per un narratore considerato antesignano del neorealismo ma che non è solo neorealista. Carlo Bernari, di cui ricorrono i vent'anni dalla morte, esordì nel 1934, giovanissimo (era nato a Napoli nel 1909), con Tre operai, romanzo di grande energia e novità in un panorama letterario - pieni anni Trenta -, che iniziava sì a protendersi alla forma narrativa lunga, ma in cui era ancora amata la prosa d'arte. E in cui, soprattutto, la poesia conosceva la sua stagione ermetica. Senza esitare Mussolini censurò Tre operai con uno stizzito «comunismo!». Già struttura e tessitura dell'opera d'esordio rivelano l'urgenza da cui era mosso Ber-nari: il desiderio di approssimarsi il più possibile alla verità cercando «la realtà della realtà», come diceva. Non si limitava alla mimesi, né fletteva verso il populismo.
La sua scrittura prediligeva soluzioni stilistiche non ovvie - «una punteggiatura non convenzionale, usata in funzione espressiva (come in Tozzi)», ha scritto Francesca Bernardini cui si deve una riedizione in Oscar di Tre operai (2005) -, soluzioni talvolta accostabili alle avanguardie - «tecniche visive e sensoriali (tra l'espressionismo e il surrealismo)», ha notato Rocco Capozzi -, o dovute a forme individuali di sperimentazione. Dovute, in particolare, all'equilibrio (meglio cooperazione strutturale) di ragione e fantasia. È stato un autore sensibile a divari e difficoltà sociali e culturali dei suoi personaggi - che è forse riduttivo, oggi, considerare solo «personaggi» -, eppure capace di soluzioni prive di patetismi, e ricche di aperture, di commistioni tra soggettività emotiva e storia, come Amore amaro (1958). Tanto che si è parlato, per lui, di «realismo critico» (Capozzi) e di «realismo spettrale», come ha fatto Goffredo Bellonci a proposito di Tre operai e Tre casi sospetti (1946); o di «memoria, meraviglia e angoscia», come fece lo stesso Bernari per un suo romanzo del '71, Il foro nel parabrezza.
Bernari ha sempre sentito un grande bisogno di aderenza e partecipazione ai tempi, di testimonianza e azione nel presente, basti pensare che nel 1929, in pieno fascismo e secondo futurismo, con Guglielmo Peirce e Paolo Ricci firmò il Manifesto UDA – Unione Ditruttivisti Attivisti. Ma si pensi anche al suo impegno antifascista pagato con interdizione della sua firma dalla stampa e clandestinità forzata.
A questo scrittore di produzione sfaccettata, fotografo fine e percettivo, autore di reportages di guerra in Norvegia, Grecia e Albania, e poi di viaggio e di testimonianza dalla Cina e da Napoli, co-autore di sceneggiature - nel 1962 per Le quattro giornate di Napoli, nel 1967 per L'immorale -, sarà dedicato a Roma il convegno internazionale Carlo Bernari, nel ventennale della morte, il 10 e 11 dicembre, presso il Museo Laboratorio della Sapienza. Il convegno, cui parteciperanno, tra gli altri, Francesca Bernardini, Aldo Maria Morace, Rocco Capozzi, Silvana Cirillo, Anthony Verna, Ugo Vignuzzi, Aldo Mastropasqua, Enrico Bernard, Patrizia Bertini Malgarini, indagherà il rapporto della scrittura di Bernari con le arti visive e performative, ottimi strumenti d'analisi socio-politica, e presenterà ricognizioni su dattiloscritti, documenti e corrispondenza conservati presso l'Archivio del Novecento della Sapienza.
Quelle che Bernari definiva le sue «menzogne narrative» non sono estranee a una linea alta di narrativa didattica e morale o, come ha dichiarato in un'intervista, a un impegno inteso non in senso sartriano ma «come coscienza conflittuale del mondo reale». D'altro canto, in una lettera del 1950 a Gastone Manacorda, scriveva che le grandi opere «non sono mai spuntate nei pascoli di Arcadia, ma sono germinate sulle steppe della Paura, non sono testimonianza di un pargoleggiamento idillico, ma di una concezione tragica della vita».

“il manifesto”, 7 dicembre 2012

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