21.1.19

2012. Luciano Canfora dalla Grecia alla Grecia. Un’intervista sullo choc europeo (Massimo Stella)


Al tempo dell'intervista che segue imperversava il governo Monti, frutto di un golpe oligarchico “europeista” che la sinistra politica e sindacale non ebbero la forza e/o il coraggio di contrastare e che è all'origine di molte disgrazie italiane. Nonostante i sette anni trascorsi le sue riflessioni anticonformistiche mi paiono assai utili. (S.L.L.)


Luciano Canfora negli anni 80 del Novecento
TORINO
Abbiamo incontrato Luciano Canfora a Torino, la città che egli definisce «la vera capitale d’Italia». Il suo ultimo libro, Il mondo di Atene, Laterza, è un vasto affresco sulla democrazia antica che giunge in tempi di grave crisi dei sistemi democratici contemporanei e riattiva la memoria storica del lettore intorno a temi e problemi del nostro mondo, dalla crisi della rappresentanza, al tramonto della concertazione politica, al neoimperialismo del villaggio globale.

Partiamo dalia Grecia di oggi. Dal dopoguerra, in Occidente, consideravamo naturale che stato, istituzioni e democrazia costituissero un trinomio solidale. Ma, se guardiamo quanto avviene oggi in Europa, e in Grecia soprattutto, può venirci il lecito sospetto che stato e istituzioni tornino a essere macchina dispotica di una classe dominante. Dobbiamo recuperare, per fare un esempio, l'analisi di Lenin in Stato e rivoluzione?
Il caso Grecia è un caso limite dei processi economici e dei movimenti istituzionali dall’alto verso il basso che coinvolgono ormai l’intera area euroatlantica, perché di tali processi la Grecia è anche vittima. Ciò che accade oggi in Grecia - paese molto più di confine dell’Italia - risale sicuramente alla posizione geopolitica che essa ha avuto nel confronto tra Est e Ovest dal 1945 al 1991. La guerra civile greca fu un episodio tragico: l’abbandono dei partigiani a se stessi, la brutale tutela sulla sovranità greca, la messa al bando di una serie di formazioni politiche, e poi, dopo la parentesi democratica del patriarca Papandreu, i Colonnelli, diretta emanazione dei servizi americani, in un momento di conflitto totale tra Ovest e Est dell’Europa. Oggi la Grecia è un paese massacrato, con una casta ricca totalmente svincolata dalla popolazione e dal territorio, il che rende la situazione ancor più umiliante e il dramma del povero Papademos è quello di essere sempre prono e tuttavia di deludere sempre i suoi mandanti.

E quanto alla lettura leninista dello stato padrone?
Io non starei così vicino nel tempo. Ci sono due testi, antipodici, più lontani cronologicamente: tra il 1819 e il 1848 ci sono Benjamin Constant e Karl Marx. I due dicono sul punto che ora ci interessa sostanzialmente la stessa cosa: ad alcuni piace ad altri dà disagio. Constant dice: la ricchezza è più forte del governo, il governo si deve inchinare, la ricchezza alla fine si nasconde e vince. Marx dice: i governi sono il comitato d’affari del capitale. Poi uno si schiera come gli pare.

Nel suo libro appena uscito, la democrazia ateniese risulta essere il prodotto di «una grande élite che accetta di governare un popolo bigotto e oscurantista». Si tratta forse di un principio strutturale che genera il sorgere dei grandi sistemi democratici occidentali?
È strutturale. Certo, può sembrare controcorrente dirlo per chi sostenga una versione deamicisiano-democraticistica, o se vogliamo anche mazziniana, risorgimentale, «quando il popolo si desta Dio si mette alla sua testa...». Il culto del popolo come tale, di per sé portatore sano di valori, è una generosa, simpatica ingenuità, perché non esistono portatori di valori innati, se non nella fantasia o nei mistici. Il popolo ha bisogno di un contrasto, di un’élite dirigente - parola antipatica, diciamolo pure - che si ponga in termini di educazione politica. Nessun perbenismo politico ci deve impedire di comprendere questo e comprenderlo sdrammatizza il dramma caratteristico di ogni formazione di sinistra, cioè disperarsi perché non ottiene la maggioranza. La maggioranza non è data dal padreterno: si conquista attraverso la pedagogia politica, ormai da lungo tempo dismessa. Il demo ateniese, nel piccolissimo della società di V e IV secolo, è al tempo stesso egemonico rispetto ai sudditi finché può e incline a sfruttare coloro che ritiene subalterni: il popolo della Lega, oggi, ritiene che gli immigrati siano o dei potenziali schiavi o degli sfruttatori - quindi ha lo stesso atteggiamento ostile e repulsivo, perché disabituato a frequentare un’educazione di tipo progressivo. Ed è un popolo bigotto nel senso che è vittima di pregiudizi di ogni genere: nel caso ateniese pregiudizi di carattere religioso - come quando un noto capo democratico propone di chiudere le scuole di filosofia per andare incontro alla sua base, e in una situazione molto simile si trovò anche il clan pericleo di Anassagora rispetto all’ateniese medio democratico.

Un aristocratico inglese di antichissima famiglia, lord Romney, commentò in questo modo, nel 2008, la perdita del proprio posto ereditario alla Camera dei Lords, in seguito alla riforma già avviata da Blair, non ci vuole democrazia, ma «magnanimità e dirigenza di chi è ben educato», perché la democrazia è «un trucco per consultare tutti e fare ciò che nessuno vuole». Sembra di sentir parlare il Vecchio Oligarca della Costituzione degli Ateniesi. Secondo lei è auspicabile oggi il governo di un'élite «magnanima e ben educata»?
Mi piace quest’episodio evocato che si riannoda ad altri tasselli, uno dei quali è la parola stessa democrazia, controversa in sé stessa e malvista in Inghilterra fino agli inizi del Novecento. La reazione di fronte al fenomeno democratico può essere di due tipi: uno è comprenderne la dinamica e indirizzarla verso gli obiettivi dell’uguaglianza sociale; l’altro e opposto, è quello che accomuna il Vecchio Oligarca, gli artefici del colpo di stato del 411 a. C. ad Atene e Lord Romney: i quali, tutti, sanno benissimo mettere in luce i difetti del potere popolare in virtù di un cinico sofisma: poiché siete una belva incondita, allora il potere passi a noi perché siamo gli unici a potervi educare. Costoro vogliono trascurare che il potere popolare può essere indirizzato in un senso piuttosto che in un altro a seconda della cosciente avanguardia politica che lo guida. Antifonte, nel suo scritto Sulla verità colpisce al cuore l’antiegualitarismo sostanziale dei democratici liberi cittadini primo iure e, però, come rimedio, propone il restringimento del corpo civico ai ben educati. Ecco perché bisogna guardare il fenomeno popolo-governante con due ottiche completamente diverse.

Lei cita più di una volta la definizione che Max Weber dà della democrazia antica come d’una «gilda politica che si spartisce il bottino». Possiamo dirlo anche delle democrazie postmoderne e del nuovo imperialismo globale, sia delle sue élites che dei suoi ‘popoli’?
Io sono un sostenitore dell’analogia come forma a priori del conoscere storico, ma occorre precisare alcune specificità. L’esempio del «vero ateniese» di V sec. a. C. ha delle grandi potenzialità diagnostiche, a più uscite. Da un lato ci fa pensare al meccanismo di esportazione del modello in prospettiva giacobina, poi bonapartista, ovvero all’imposizione di modelli di tipo collettivistico-sovietico, dopo il '45: paesi fratelli, ma in realtà chi diserta viene schiacciato, proprio come accade a Samo quando si ribella all’egemonia ateniese, e allora Pericle porta dieci strateghi, una flotta immensa e la schiaccia. Ma l’impero ateniese si può leggere anche da un’altra ottica analogica che ci porta sul versante opposto. Ad esempio, il fenomeno del gingoismo: il sindacalismo americano, nazionalistico, patriottico, egoistico al massimo, che in nome del benessere d’una parte cospicua della classe operaia americana, era intimamente imperialistico, e riteneva, ad esempio, cosa sacrosanta l’America del Sud come cortile di casa. Il demo ateniese che «si spartisce il bottino» è la stessa cosa, perché compartecipa del vantaggio dell’impero.

E l’attuale «gilda» europea?
La novità nella quale oggi ci troviamo è che, finito il periodo della contrapposizione di sistema, con il disfacimento di uno dei due poli, si è determinato un fenomeno che io amo chiamare la vittoria della Germania nella Seconda Guerra Mondiale. Nella situazione nuova, la Germania ha vinto la seconda guerra mondiale, diventando, con la riunificazione, il pilastro di un impero continentale, che è la cosiddetta Unione Europea, in cui c’è spesso un condominio a due, di antica data, cioè l’asse franco-tedesco.

È una cosa molto forte quella che dice...
In questo sono molto legato a Teopompo: perché Teopompo prosegue Tucidide fino al 394? Per dire che non è vero che Sparta ha vinto la Guerra del Peloponneso, in quanto Conone ricostruisce le mura, ricrea la flotta e, quindi, la vittoria spartana del 404 si è dissolta. Ora, il fenomeno che abbiamo adesso sott’occhio è che l’Unione è una gabbia d’acciaio. Un uomo sicuramente intelligente, Tremonti, ha scritto un libro, se vogliamo tardivo, intitolato Uscite di sicurezza, dove si diverte a mettere tra virgolette le parole di coloro che scrissero le regole di Maastricht, in primis Jacques Attali, eminenza grigia dello staff Mitterrand: «abbiamo creato un meccanismo che impedirà a chiunque di uscire dall’euro». Il senso di questo gioco è creare la certezza che il mercato non si sarebbe disfatto, perché esso è la base dell’egemonia. Noi siamo costretti a stare là dentro perché la Germania ha bisogno del mercato europeo e ha bisogno che abbia una moneta unica. Quindi non c’è solo il processo di svuotamento della democrazia, ma c’è anche un processo specifico di subalternità al paese dominante, cioè al vero vincitore della Seconda Guerra Mondiale.

Lei ha dedicato un libro, tempo addietro, alla filologia come scienza della verità e della libertà. L’intellettuale, lo storico, almeno a partire dalla Rivoluzione francese e in tutte le vere democrazie, ha questa consegna: coltivare la verità e la libertà. Secondo lei, nell’attuale quadro politico ed economico, qual è il compito dell’intellettuale?
Io sono tendenzialmente prudente quando qualcuno vuole additare i compiti dell’intellettuale. L’intellettuale è molto più veloce: egli arriva cioè prima a capire i processi. Quando si parla di opportunismo dell’intellettuale, si dice una cosa vera, ma al cinquanta per cento: perché è in virtù di questa velocità di comprensione che l’intellettuale si spinge a fare per tempo cose le quali poi, a posteriori, sembrano opportunistiche, cioè frutto dell’allineamento rapido sul cangiamento del reale. E questo è un vantaggio e un limite. È un vantaggio perché l’intelligenza va apprezzata comunque. È un limite, perché quello intellettuale è un gruppo sociale che ha bisogno di gratificazioni e, quindi, dove può ottenerle se non dal potere al quale si propone come interlocutore privilegiato? Nell’attuale panorama, in cui tutto è disperso o frammentato in mille situazioni concrete, io credo che il modello socratico del tafano, questo Socrate-tafano che dà una molestia continua, sia un valore positivo, sgradevole sul momento, ma produttivo sulla distanza.

In che senso produttivo?
C’era un sofisma, un tempo, che aveva un certo fascino: il partito politico come intellettuale collettivo, un partito politico, cioè, che, educati i propri quadri alla disciplina mentale e alla conoscenza, si facesse catena di trasmissione di pensieri rispetto a una classe. Ora tutto questo non c’è più. Dopo un’egemonia reazionaria, con varie sfumature, il compito principale degli intellettuali è smascherare un rapporto di potere: ci avete raccontato la favola che questo mondo coniugava libertà e democrazia, non è né l’uno né l’altro e spieghiamo il perché. Si tratta di squadernare questo equivoco logoro, che è servito, durante una fase storica, a vincere una grande partita. Ora che è stata vinta, dobbiamo parlar chiaro: disturbare les fables convenues.

Le oligarchie, come ci insegna l’esperienza degli antichi fino ai nostri tempi, hanno bisogno di formazione e di cooptazione. E le democrazie - cioè noi oggi - come garantiscono i ‘migliori’? Attualmente in Italia è esploso il problema del reclutamento della dirigenza, finalmente...
Con la scuola. Secondo me l’unico grande argine e vivaio fecondo, nel crollo complessivo delle formazioni politiche, anche ormai per la loro povertà di pensiero, è la scuola. Infatti la scuola è il bersaglio: ecco perché viene umiliata, subissata di fatiche inutili, deprivata di risorse, ridotta a parcheggio, perché è il luogo più pericoloso e fecondo.

E l’Università?
Nell’Università è più facile demolire: la riduzione della validità sacrosanta del titolo di studio, la distruzione del sistema statale, le isole beate dell’eccellenza e la depressione da «serie C» di tutto il resto. L’Università è più debole perché non è un approdo obbligato e quindi si può dire meglio che bisogna rinunciare a un egualitarismo deteriore. Purtroppo, le premesse di questo sono state nel semplicismo della rivoluzione culturale sessantottesca, obiettivo altissimo che, poi, di fatto, ha dato una mano a intaccare il funzionamento di quell’istituzione contro cui oggi si può sparare. Fu una partenza sbagliata e si è rivelata tale. L’indurre un processo di banalizzazione o di abbassamento di livello sembrava, all’inizio, solo demagogia e il tutto è stato accolto con entusiasmo da chi voleva realizzare la disuguaglianza. Oggi capiamo che è servito a determinare le isole di quella parola insopportabile che è «eccellenza». E le riforme di centro-sinistra ci hanno sospinto verso il Quarto Mondo: l’Università dovrebbe alfabetizzare masse enormi, facendo passi spaventosi e gratuiti. La sinistra deve fare grossa autocritica su questo punto.

Nel suo libro, ha un ruolo importante l’occhio del comico, Aristofane, puntato sulla scena politica democratica, e d’altra parte lei concesse tempo fa un’intervista a Sabina Guzzanti per Viva Zapatero. Di che cosa ridiamo o vogliamo ridere, in questo momento...?
Sì, certo, ne ho precisa informazione. La gente adesso ride e vuole ridere di questa élite di cui non si fida perché è piovuta dal cielo, élite ancora una volta egemonica, scaturita da mediazioni più o meno credibili, come le ginnastiche elettorali. E ha ragione a non fidarsi: anche l’oligarca Antifonte era un uomo di primo ordine, ma ciò non toglie che non c’è la volontà giusta. Questa reazione nei confronti del nuovo governo si è prodotta in neanche due mesi ed è già sul proscenio.

Chiudiamo sul filo mordente della battuta comica. Ho sentito dire, da più di un amico filologo (non giovane), che l’attuale governo è paragonabile alla svolta oligarchica del 411 a. C. in Atene. Come commenterebbe?
Sì, lo è. Non so se si debba paragonare più a quella del 411 o a quella del 404: il 404 è ancora più ideologizzato. Nel 404 lo stato guida da additare era un modello più completo: si veniva da una catastrofe e da una sconfitta irreparabile. Effettivamente, il governo che è stato abbattuto usava il populismo in maniera quasi perfetta, populismo malvisto dai ricchi veri e professionali, mentre la grande sintonia era con «la bestia bionda», il popolo leghista e televisivo. Quel governo era esemplare dal punto di vista populistico: il consenso è dominio. Questi dell’attuale governo no, perché sono raffinati, sono preparati, tecnici, sanno benissimo che non potrebbero affrontare una campagna elettorale se non con l’aiuto esterno e quindi si tratta di un gruppo oligarchico a tutti gli effetti. Dopodiché la loro tragedia sarà di dover scegliere in che direzione applicare e indirizzare il rigorismo. E sarà appunto la loro tragedia.

Box
IL LIBRO: EXCURSUS E ANATOMIA IDEOLOGICA
Il ritratto di Alcibiade del Museo di Sparta (fonte Wikipedia)
Il libro di Luciano Canfora Il mondo di Atene (Laterza, pp. 508, € 22,00) è una diagnosi politica della democrazia ateniese tra V e IV sec. a. C. Prende le mosse dal mito di Atene, con l’archetipo dell’epitafìo di Pericle in Tucidide, e da lì si rifrange in altre letture (Platone, Isocrate, Lisia, la Costituzione degli Ateniesi), sino alla moderna elaborazione storiografica: la reazione antigiacobina di Constant, per un verso, e di Tocqueville, per l’altro, raccolta, quest’ultima, da Weber e, via-Weber, da Finley, la linea weimariana di destra (Bogner) che si nobilita nel nome di Wilamowitz, e di sinistra, Rosenberg, che rimprovera alla democrazia ateniese il bolscevismo imperfetto; la linea Tory britannica (Mitford); quella del progressismo liberale di Grote fino a Glotz. Quindi si passa alle componenti strutturali della democrazia ateniese - la parola pubblica in assemblea e in teatro, la questione della ricchezza, l’egualitarismo -, considerate da entrambi i fronti del conflitto intemo alla città, la maggioranza democratica e la minoranza oligarchica, sul terreno di due casi esemplari: Melo (con Tucidide, Euripide, Isocrate) e la crisi del 415. La parte centrale del libro esamina la Guerra del Peloponneso come fenomeno storico e politico, evento bellico e sedizione civile: prodotti necessari della polis imperialista, e ‘analoghi’ del lungo periodo di guerra che impegnò l’Europa tra il 1914 e il 1945. Segue l’analisi dei movimenti operati dalle oligarchie all’interno del contesto bellico post-siciliano sino ai Trenta e alla guerra civile finale: Antifonte, Frinico, Teramene, Crizia, tra il va e vieni di un Alcibiade «ornamento di tutte le cospirazioni», sono i protagonisti esaminati nella polifonia delle voci antiche e delle molteplici «verità» su di essi. Figura simbolica del IV secolo, su cui il libro si chiude, è Demostene, che cerca un’ultima possibilità di autonomia per Atene. (ma.ste.)

talpa libri - il manifesto, 11 marzo 2012

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