4.8.19

Sciascia e Macaluso, le vite parallele (Rino Formica)



La sorgente è unica, il corso della vita è binario.
Sono due figli eletti del profondo Sud, nati negli anni venti in due province periferiche della Sicilia, terra di acuti e profondi conflitti sociali dove la gioventù può solo lavorare la terra, andare in miniera o fare gli studi più essenziali per vivere e per affrontare una precaria esistenza.
I figli dei contadini, degli operai e dei minatori, quando possono frequentano le scuole tecniche per salire un gradino nella rigida scala sociale; i figli della piccola borghesia impiegatizia e delle professioni marginali frequentano l’Istituto magistrale perché nella gerarchia sociale la cultura umanistica precede l’apprendistato tecnico.
La scuola è la comunità dove l’individuale si mescola con il collettivo e dove i ragazzi entrano in contatto per la prima volta con la complessa società vivente.
Ma nella formazione umana di Sciascia e di Macaluso non c’è solo la scuola, c’è l’universo delle zolfare.
“La miniera non uccideva solo con il grisù, ma anche con l’isolamento della brutalità di una esistenza trascorsa tra uomini che lavoravano come bestie”.
Gli anni trenta sono gli anni già difficili per la gioventù italiana: sono gli anni degli inganni imperiali e della nefasta preparazione della prospettiva di guerra totale.
Sciascia e Macaluso, nati con l’avvento del fascismo, appartengono a quella generazione che non conobbe la felicità e la spensieratezza dell’adolescenza e della giovinezza. La dittatura, la doppia guerra, la liberazione e la repubblica anticiparono la maturazione di una generazione: fu generazione primizia chiamata a straordinarie assunzioni di responsabilità, con un passato vero da non poter utilizzare e con un futuro incerto da costruire.
Nella generazione degli anni venti il desiderio di capire si confondeva con la necessità di agire. Le divergenze nacquero dopo la fase della lotta clandestina. Durante il periodo fascista la rete cospirativa del partito comunista era forte e suggestiva. L’operaio Calogero Boccadutri per Sciascia e per Macaluso fu simbolo di purezza e sicurezza rivoluzionaria. Sciascia nel Pci vide una stella, Macaluso, invece, vide nel partito organizzato e disciplinato una grande famiglia politica più salda della stessa famiglia naturale.
Qui si scorge la vera dissomiglianza tra Sciascia che vota comunista e si rifiuta di aderire al Pci, e Macaluso che accetta il peso del partito per far vincere l’idea.
Con una ricerca al limite dell’ostinazione Macaluso in un agile libro (Leonardo Sciascia e i comunisti, ed. Feltrinelli), passa in rassegna l’opera letteraria dello scrittore siciliano ed estrae dai suoi scritti le molte coerenze di fondo e le veniali incongruenze (contraddisse e si contraddì).
Macaluso nel sottolineare la coerente passione politica e civile che costituisce l’anima della produzione di Sciascia, garbatamente apre il capitolo del dissenso occasionale ed operativo con il Compagno di una vita sempre in sintonia sui temi della giustizia e della ricerca della verità.
Il primo dissenso vero è sull’operazione Milazzo. Nel 1958 è pubblicato il Gattopardo e Sciascia riprende il pensiero del Principe di Salina e stronca il governo di Milazzo (opera che porta il segno della direzione politica di Macaluso nel Pci) con un lapidario giudizio: “ è il governo del cambiare tutto per non cambiare niente, è stato una sorta di consustanziazione politica”.
Macaluso nel libro riprende il tema: fa una analisi della situazione sociale e politica della Sicilia, sottolinea il significato di rottura e di movimento che ebbe la dirompente iniziativa del Pci nel dividere la Dc e nell’ allearsi con il MSI; e così conclude: “Sciascia voleva un Pci di combattimento sempre all’opposizione. Sciascia era uno scrittore con una forte passione civile, le sue intuizioni, i suoi giudizi, le sue critiche, mi hanno coinvolto anche emotivamente perché avevano motivazioni alte e a volte il tempo gli ha dato ragione. Ma una forza politica come il Pci, quale comportamento avrebbe dovuto assumere verso posizioni con un elevato impatto anche sull’opinione pubblica di sinistra? E’ stato proprio questo il nodo non risolto nei rapporti con Sciascia”.
Ma è nel 1975 che avviene la svolta politica di Sciascia con il Pci quando si candida a Palermo al Consiglio Comunale. Egli è travolto da una grande illusione: battere la Dc ed ogni compromesso con il Pci. Sciascia non si accorge che è vittima di un inganno, forse, preparato da Occhetto e non contrastato da Berlinguer per liquidare il vecchio gruppo dirigente del Pci siciliano.
Sciascia nel maggio del 1975 così motiva la sua partecipazione alle elezioni: “Bisogna essere intransigenti. Bisogna evitare assolutamente, nettamente, il gioco della doppia verità. Le cose non sono buone quando le facciamo noi e cattive quando le fanno gl altri. Sono o sempre cattive o sempre buone. E se noi facciamo cose cattive per arrivare alle buone, non solo non arriveremo mai, ma ci abitueremo a fare cattive cose e così resteranno. Di questa politica netta ha bisogno il Sud. E questo hanno capito i giovani che dirigono oggi il Pci in Sicilia”.
L’entusiasmo di Sciascia è infranto dalla più vasta e globale iniziativa post ’75 del Pci con le larghe intese negli enti locali dove la Dc è garante del Pci nell’area di Governo e nel potere locale.
A questo punto Macaluso si chiede: “Come faceva Sciascia a conciliare la sua posizione di sempre (il Pci all’opposizione e niente compromessi) con le larghe intese” che in Sicilia voleva dire anche la Dc di Lima?
Sciascia capì di aver commesso un fatale errore di credito e così si espresse nella intervista a Marcelle Padovani: “I miei rapporti col Pci sono stati assai complessi, quasi quanto quelli che intrattengo con la Sicilia. Di amore e odio, per semplificare. Nel 1974-75, mi sono avvicinato o, più esattamente, il Pci si è avvicinato a me; e questo accostamento mi ha indotto a credere che fosse diverso. Sono assai sensibile ai rapporti umani, ai contatti personali: certi giovani funzionari del Pci mi hanno dato l’impressione che il partito fosse mutato, o che era sul punto di farlo. L’esperienza del Consiglio Comunale è stata una totale delusione. Il partito non cambiava. E anzi, in un certo senso, peggiorava. Ho quindi commesso un errore di valutazione, ma si è trattato anche di un’esperienza liberatrice. Non nutro più, nei confronti del Pci, rispetto di sorta. Sono ancora affezionato a coloro che vi militano, ma ritengo che quel partito sia il più vecchio che ci sia: più vecchio ancora del Partito liberale”.
Il distacco definitivo tra Sciascia ed il Pci avviene con il caso Moro e con le elezioni politiche ed europee nel 1979 quando entra nelle liste radicali e vive all’interno di un movimento vasto contro il Potere, il Palazzo, la partitocrazia, la giustizia giusta e contro il Pci dove prevaleva l’obbedienza al Partito su la ricerca della verità.
Intorno al tema della mafia l’analisi di Sciascia è seducente e convincente.
Macaluso cita un articolo di Sciascia sul Corriere della Sera del 19 settembre 1982. È un testo da rileggere integralmente. Riporto la conclusione: “È qui il caso di chiarire che molto probabilmente gli uomini politici indicati generalmente come mafiosi – dall’Unità ad oggi – non lo sono mai stati propriamente: l’hanno protetta e ne sono stati elettoralmente protetti, ne hanno agevolato gli affari e sono stati compartecipi dei profitti: che poi i loro successi, nelle fazioni interne di partito e nelle elezioni, e i loro profitti negli affari, comportassero violenze e omicidi, loro hanno finto di ignorare: così come il Sant’Uffizio ignorava la sorte degli eretici affidati al braccio secolare...”
La stessa validità politica della teoria del compromesso storico Sciascia la mette in connessione con la necessità per la Dc di liberarsi delle vecchie complicità. “Teoria che non ha fatto bene al Partito comunista, ma ne ha fatto alla Democrazia cristiana. Coloro che, nella Democrazia cristiana, alla realizzazione del compromesso aspiravano, hanno coinvolto tutto il partito nell’ansietà di farsi assolvere, dal rigoroso e quasi ascetico Partito comunista, dai tanti peccati commessi dal 1948 a oggi, il peccato di mafia incluso”.
Sul tema della giustizia, sul suo uso politico, sulle interferenze della politica sulla giustizia e su una giustizia “che assume un che di ieratico, di religioso, di imperscrutabile e con conseguenti punte di fanatismo, la convergenza di valutazioni e di critica tra Sciascia e Macaluso sfiora la organica identificazione.
È proprio dall’esplorazione di questo tema che si arriva a dare una risposta alla domanda che ci siamo posti quando abbiamo iniziato la lettura di questo prezioso libro: “Perché Macaluso sente il bisogno di scrivere su Sciascia ed i comunisti a 26 anni dalla morte di Sciascia e a 21 dalla fine del comunismo?” Perché Macaluso ha voluto dare il via alla stesura di una autobiografia della generazione che fu chiamata a fare l’Italia repubblicana. Fu la generazione più fortunata perchè la più coinvolta, ma fu anche la più infelice perché pagò sempre con la distruzione degli affetti la sua esposizione di prima linea.
La generazione nata durante il fascismo lascia irrisolte molte questioni che nel libro di Macaluso sono tenute in ombra, perché la educata e discreta formazione umana dell’autore lo impone. Sappiamo che l’irrisolto appartiene più alla serie dell’eterno mutevole che a quello del definitivo. Ancora oggi si ripresentano le eterne questioni che leggiamo nelle vite parallele di Sciascia e di Macaluso.
La politica è prosa o poesia? Il potere e la libertà sono compatibili? È componibile il conflitto tra democrazia organizzata (i partiti) e la democrazia fluida (i movimenti e l’anarco-individualismo?)
Intorno a queste domande ruota il rovello di Macaluso perché sa che il difficile non è porre la questione ma è quello di saper individuare dove è il punto di fusione delle contraddizioni.

Critica Sociale, 5 novembre 2010

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