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20.8.19

Dieci anni senza Fortini (Oreste Pivetta)



Franco Fortini ci lasciò dieci anni fa, mese di novembre, il 28. L’ultima immagine è di un uomo vigoroso, severo, diritto, il volto scavato, i capelli bianchi, morbidi all’indietro. Poi i funerali, nel gelo dell’inverno milanese. Aveva settantasette anni. Avrebbe potuto ancora aiutarci, perché era capace di intuire i cambiamenti, le novità. Avrebbe saputo leggere il decennio berlusconiano e avrebbe saputo proporci qualche spiegazione in più e probabilmente prima degli altri. Dire, dieci anni dopo, che ci manca è un’ovvietà. Ci manca Fortini e ci manca il pane di Fortini, la critica. Sarebbe stato bello (magari penoso per lui) sentirlo di questi giorni tra una riforma istituzionale, i comunicati di Tremaglia, il federalismo e le altre fanfaronate di governo e gli arzigogoli degli intellettuali di regime. Chissà. Magari avrebbe ancora avuto voglia di parlare o di scrivere. O di rispondere alle nostre telefonate.
Metteva apprensione una telefonata a Fortini, troppo bravo e difficile lui per reggere noi le domande di un’intervista. Poi tutto si faceva semplice, perché Franco Fortini era un maestro e, dopo tanti istituti tecnici dietro la cattedra, era un autentico educatore. Aveva la chiarezza delle idee profonde e nette e sapeva comunicarle. La dottrina era vasta: un intellettuale che catturava tutto e sapeva rendere con vivezza la trasversalità degli argomenti, dei problemi, delle interpretazioni. Lo riferivamo anche gli amici più “grandi”, come Grazia Cherchi e Piergiorgio Bellocchio, raccontando dei Quaderni piacentini e di come s’avviò quell’avventura nei primi anni sessanta. Loro avevano avuto l’idea, ma s’erano trovati sempre al fianco a spronarli e a consigliarsi quel signore burbero e colto che avevano invitato una volta a Piacenza, quando ancora i Quaderni non esistevano e viveva soltanto un circolo culturale di giovani, un poco assediati dentro una città di provincia con i suoi lati di bigottismo e di oscurantismo.
Fortini nutriva una certa passione per le riviste. Ai Quaderni piacentini si prestò con un aiuto importante. Ad altre riviste partecipò e collaborò: Comunità, Officina, Ragionamenti, Il menabò e poi Quaderni rossi (si sentiva molto vicino a Raniero Panzieri). Naturalmente Fortini scrisse sui giornali della sinistra e non solo della sinistra: Avanti, Unità, Manifesto, Messaggero, Corriere della Sera, Il Sole 24 ore. Era un intellettuale militante e pensava al “dovere” di comunicare. L’ultimo inter-vento pubblico lo aveva dedicato proprio al tema della comunicazione: il giorno dopo la prima guerra del golfo cercava di riflettere sull’imbarbarimento della televisione e dell’informazione, quelle stesse che ci avevano indotto ad assistere a quella tragedia come a un videogioco. Più avanti sarebbe andata peggio... Senza retorica Fortini inseguiva, come poteva, una verità e capiva che per tentare di raggiungerla compromessi non se ne facevano, neppure con le parole. Per questo s’era dato subito un vincolo: parlar chiaro e scrivere chiaro, un richiamo all’onestà e alla pulizia mentali tanto più generoso e necessario quanto più la sinistra degli anni difficili insiste nell’abitudine di costruirsi metalinguaggi consolatori per gruppi, clan, conventicole...
Parlar chiaro e scrivere chiaro erano nel suo religioso riguardo per la cultura, anche quella della nostra grande tradizione classica. Come disse una volta Sergio Bologna: «Fortini ci ha insegnato ad aver rispetto della lingua italiana e ha combattuto contro le forme di sciatteria e di volgarità dell’ultrasinistra, ha detestato il burocratese, il sindacalese, i gerghi del radicalismo con un rigore esemplare, ha detestato allo stessa maniera i linguaggi esoterici, chiusi degli intellettuali». Le parole devono circolare... Sulle sue parole potrebbe aver pesato persino l’esperienza all’Olivetti. Anche lui, come molti altri intellettuali italiani, passò di lì e ottenne una collaborazione come copywriter. Doveva inventare sigle, slogan per vendere le macchine, testi per spiegarne il funzionamento. Il lavoro gli impose la disciplina: una prosa scattante, brevità, semplicità e ancora idee chiare.
Ci sono un costume, un metodo, una morale in tutto questo. Nel segno della coerenza, che si riflette nella politica. Fortini era intransigente, indipendente e autonomo dai poteri, economici, accademici, politici, poteri forti o poteri arroganti delle piccole élite. Non li ha mai usati per fare carriera, per conquistare spazio su giornali e riviste, per una cattedra universitaria. All’università arrivò solo nel 1971 (insegnò fino al 1989 storia della critica letteraria a Siena). Visse la stagione della Resistenza e dell’antifascismo, seguì vicende della società industriale e della sua crisi, si sentì profondamente coinvolto nella rivoluzione postfordista (la sua partecipazione ai Quaderni rossi ne fu un segnale). Capì che il mondo cambiava e capì che in quel mondo nuovi diventavano i suoi interlocutori e che la sua “critica al capitalismo” era un esercizio ancora vitale, ma non immutabile. Fortini pensava nel futuro, per una radicale “critica al capitalismo” della società presente, con un programma preciso: «criticare l’immagine mistificata, ossia la forma illusoria, che la classe oppressa ha di se stessa». Fortini usò per questo la letteratura, la sua e quella degli altri, di Sartre e di Eluard, di Brecht, di Proust e di Goethe.
Ma considerava la letteratura come il luogo di un esame totale: c’è sempre il mondo da scoprire. Non è strano che Fortini fosse poeta. Lo sentiva ancora il suo scrivere versi, citando Adorno, nel senso, radicalmente, della negazione e contestazione di tutto ciò che sta e viene accettato nel «quotidiano ripetuto». Un tramonto di pace è un suggerimento di felicità che può avere nell’animo di chi lo ascolta un valore dirompente. Una volta spiegò: «La poesia parla di qualcosa e nello stesso tempo parla di se stessa. La voce della poesia dice questo o quello, ma lo dice in modo che un effetto d’eco ci ricorda sempre che non la si può prendere in parola. Naturalmente questo irrita coloro che vogliono opinioni, vogliono scelte, sentimenti immediati. Ebbene questa ambiguità è la sua lezione, una lezione fondamentale...».

“l'Unità”, 14 ottobre 2004

Dai Paesi dell’Anarchia. Impressioni sui moti del 1894 nel carrarese (Ceccardo Ceccardi Roccatagliata)


Ceccardo Ceccardi Roccatagliata nacque a Genova nel 1871 e vi morì poco più di 100 anni fa, il 3 agosto del 1919. Visse tra il capoluogo ligure, la Lunigiana e Carrara. È conosciuto soprattutto come poeta di stile carducciano e classicheggiante, ma percorso da tensioni decadenti e simboliste. Come collaboratore de “Lo svegliarino”, il giornale della sinistra democratica di Carrara e delle Alpi Apuane, scrisse della ribellione anarchica che vi si svolse nel 1894, e ad essa dedicò un opuscolo stampato a sue spese presso la Tipografia Operaia, in cui denunciò le dure condizioni di vita dei cavatori e la feroce repressione governativa, un pamphlet che subì più di un sequestro e diede al coraggioso autore qualche notorietà tra la Liguria e le province di Massa Carrara e Lucca. Lo “posto” qui, riprendendolo da “Liber liber” per il suo interesse non solo letterario. (S.L.L.)

Carrara - "Cararia". Monumemento alle lotte sindacali dei lavoratori del  marmo


Victor Hugo, nel poema I castighi, dove egli lumeggia così foscamente Napoleone il piccolo, parla con tristezza dei lamenti sordi che avevano i fiotti dell’Atlantico quando trasportavano sul dorso verso la nuova Caledonia, i pontoni sdruciti pieni zeppi di coloro che avevano tentato di difendere la repubblica dagli artigli del triste Cesare la notte del due dicembre. Piangeva il vecchio Oceano solitario con l’anima del poeta Guernesey.
E a me pareva così doloroso, quando qualche settimana fa, alla vecchia stazione di Massa fischiavano i treni in partenza tra i primi sbuffi di vapore e il lento cigolio delle assi, i treni che portavano lontano dai borghi natii, lontano dalle madri, dalle spose, dai figli, dalle sorelle, ai reclusori del Piemonte, ai reclusori del Mezzogiorno, coloro cui la legge militare e un tribunale di giberne avevan detto insorti anarchici, e ferrei avevan colpito senza pietà, senza riguardi, senza coscienza: senza saper neppure bene come colpissero, chi colpissero, perché colpissero.
Erano scene strazianti. Per lo più quei tristi condannati, quasi tutti giovanetti, erano fatti partire coi treni del mattino. L’alba si levava lentamente sulle Apuane, i monti delle cave dove forse i loro padri, i loro fratelli erano morti schiacciati da un masso rotolante per un ravaneto, o sotto lo scoppio orrendo di una mina, per guadagnarsi un tozzo di pane. La luce scendeva lentamente e gettava dei lividori sulle facce pallide, smarrite dei condannati, sul filo delle baionette. Qualche madre, qualche sposa li attendevano talvolta. E si slanciavano piangendo tendendo loro le braccia disperatamente, prese da un invincibile desiderio di ribaciare coloro che avevano allattato, o baciato dolcemente un giorno di nozze, figli, mariti, coloro che, come vecchi assassini, andavano a marcire le carni in una segreta.
E perché sperare di rivederli?
Ragazzi di diciotto o venti anni assuefatti all’aria ossigenata dei loro monti, al sole delle loro cave, devono scontare dieci, dodici, diciassette anni di galera, due, tre, quattro anni di segregazione cellulare continua. E potranno resistere! Perché sperare di rivederli?
Si slanciavano, si ripiegavano respingendo bruscamente, qualche volta anche cadendo a terra, dalle mani brutali della forza, lo stridulo riso e il ghigno dei gallonati presi di meraviglia che quelle madri, quelle spose di supposti anarchici, avessero, intendete bene, un cuore che palpitasse, che piangesse, e potesse anche gridare: misericordia!
Partivano i figli, i mariti pei lontani reclusori, ed esse ritornavano alle loro case, cui gli usci, nei tristi giorni delle perquisizioni e degli arresti erano stati sfondati dalla furia dei carabinieri e degli alpini, col calcio del fucile, o a colpi di baionetta, alle loro case dove altre donne ed altri figli piangevano con lo spettro del futuro negli occhi, lo spavento della futura fame nell’anima.
Verrà l’estate, ritorneranno l’autunno e l’inverno, ma essi, mai mai, per molti anni ed anni, forse mai più. E beate quelle madri cui è rimasto un figlio; quelle figlie cui è rimasto uno sposo a consolarle! Non son rare le madri che hanno tutti i figli e i mariti in prigione, non son rare le giovinette spose da due o tre mesi che hanno il giovinetto consorte condannato a vent’anni di galera.
Che vita! Quante esistenze infrante, quanta vitalità perduta!
Nel paese di Ortonovo - una bianca borgata su un colle di olivi fittissimi, tre ore dalle cave di marmo dove giornalmente molti uomini con molto sperpero di forze si recano a lavorare - si possono senza fallo contare, tra un migliaio di abitanti ed una quarantina di condannati, nove o dieci spose - giovinette di sedici o diciassette anni - vedove per dieci, dodici, diciassette anni dei loro giovanissimi sposi.
Leggete i resoconti dei processi che si stampano a Carrara da un editore assai conservatore e che fa l’apologia di quei tristi tribunali - leggete dico - quei resoconti di cui - nonostante ciò pubblicheremo qualche numero interamente per eternare maggiormente la sapienza militare - e vedrete: sono cose che fanno orrore. Dario Papa ha ragione: neppur l’Austria osò tanto.
E ciò tanto ributta, se si pensa che i burattinai di questa dolente epopea sono coloro che consacrano marmi al Pellico e ai Confalonieri e affermano: Mazzini è con noi!
Si condanna perché uno fu arrestato, perché un brigadiere dei Reali, un poliziotto afferma che sa - egli - e da sue private informazioni esser l’accusato un anarchico; si leggono deposizioni di testimoni non firmate, come le denuncie che si gettavano nella bocca del Leone a Venezia ai tempi dell’Inquisizione di Stato; si vieta agli imputati di scrivere a casa per trovare testimoni e provare l’alibi, e se la famiglia se ne occupa appena due ne son concessi, mentre prima in prigione a forza di pugni - lo dicono le madri, le spose che sono state a trovare i condannati prima del loro invio ai reclusori - si è fatto loro confessare come ai tempi dell’inquisizione domenicana il misfatto che non avevano commesso ed accusare compagni e fratelli. Oh, non per nulla s’inquarta un motto in uno stemma!
Se entrasse in una sala di quel tribunale militare uno che fosse assente dall’Europa da trenta o quarant’anni, ignorerebbe completamente dalle resultanze del processo di che vengono accusati, perché si con- dannano sempre, così mostruosamente. Se egli potesse entrare soltanto quando vien letta la sentenza potrebbe chiedersi: quante case hanno bruciato quei malfattori? Quanti soldati uccisi? Deve essere durata molto la lotta!
M’è caro di non essere stato ad ascoltare i testimoni! Dev’essere stato un vero orrore... Ebbene, sarebbe forse meglio, avrebbe ancora la coscienza in pace, non avrebbe ancor conosciuto quante infamie commette la società in cui vivrebbe, in cui viviamo.
E potrebbe ancora pensare: essi avevano molti fucili, delle mitragliatrici, della polvere... della dinamite... Orrore!
Essi invece non hanno ucciso nessuno, eccetto un carabiniere che li ha assaliti, non hanno bruciato neppure una capanna, devastato neppure un campo, rubato neppure un chicco di grano... Essi non avevano che qualche centinaia di fucili in due o tre mila, poca polvere, neppure una bomba di dinamite.
È vero volevano fare una rivoluzione, erano stanchi di essere sfruttati, di morire per pochi centesimi al giorno - ignoti - sotto i massi e le mine delle cave, ma i più non sapevano neppure cosa fosse una rivoluzione, quanto coraggio e abnegazione ci vogliono a farla; e la prima sera della rivolta in quattrocento o cinquecento, si sono sbandati come tante pecorelle dinanzi a due carabinieri, uno già morto, uno quasi moribondo.
Vergogna! Oh, non così, non così, ritorneranno la pace e l’amore in quelle regioni!
Il popolo non dimentica; questo è certo; come è legge fatale che dalla rivoluzione succeda la reazione, e da questa, più grande e potente una seconda rivoluzione.
Vico pel primo intuì questa terribile armonia nelle sorti dell’umanità. State pur certi quel che succedette nessuno cui importi anche una quisquiglia dimenticherà.
Si starà zitti per adesso, ma col tempo...
Oh! quelle donne, quei fanciulli di condannati, quelle vedove, quelli orfani si diranno in cuore eternamente: Oh! deve essere assai ingiusta la società per cui lavoriamo, se colpisce tanti uomini che non hanno mai rubato come un Tanlongo, né mai assassinato come... ricordate il dramma della Regia? se colpisce tanti uomini perché hanno pensato a un sogno d’amore e di pace, a un giorno in cui non ci sarebbero più sfruttati e sfruttatori, e ognuno potrà dire con sicurezza: stasera cenerò, avrò un poco di fuoco, due lenzuoli... deve aver molta paura di quel giorno la società presente... e in fondo poi, perché? non è giusto? deve essere ben giusto e grande se i ricchi ricorrono all’ingiustizia... e all’inganno per colpire chi appena lo pensa, timidamente lo sogna!
E forse più di tutto a quelle donne e quei fanciulli rimarrà in cuore l’inganno con cui furono imprigionati tanti fratelli, tanti padri. Io me lo rammento bene.
Non tutti i condannati vennero arrestati dai soldati. Molti negli ultimi di gennaio erano i fuggitivi sulle montagne, tra le pinete e gli olmi onde son fitte l’ultime propaggini montane dell’Alpe Apuana; costoro vivevano fuggitivi dalle loro borgate, dalle famiglie, ai venti ai freddi, alle piogge invernali. Ebbene, lo credereste? Il comando militare fece predicare dai prevosti, dai parroci delle borgate in parola, fece predicare dai preti, alle famiglie, alle spose, alle fidanzate degli accusati che se essi si fossero arresi nelle mani degli ufficiali, presto tutto sarebbe finito; tolto lo stato d’assedio pochi mesi di carcere agli insorti, e poi... soprattutto la grazia sovrana.
I preti non si accontentarono di ciò, andarono di casa in casa, e dissero alle madri, alle spose: fate che i vostri figli si arrendano nelle mani della forza, tutto andrà bene. E molti accusati spontaneamente discesero dalle loro montagne impervie e sono andati da un brigadiere dei carabinieri, da un sottufficiale degli alpini ed hanno detto: io sono il tal dei tali, io sono innocente e poi spero in quello che avete fatto dire alla mia famiglia... io sono innocente, lo ripeto, ma mi arrendo... E il tribunale rispose un giorno: voi vi siete arreso, bene, invece di quindici... dodici anni di galera! Pochi, ahimè, sono stati gl’increduli, pochi sono rimasti e pochi rimangono nelle loro montagne, poveri fuggitivi, con la taglia feudale sul capo, la fame nel petto, il desiderio di rivedere la famiglia nell’animo... e alle famiglie di costoro, irritati che il dolo non valesse, ufficiali e sbirri hanno invaso le case nelle notti di febbraio non curando grida di pargoli spaventati ed hanno arrestato vecchi padri di famiglia cui l’amore del sangue, che anche la legge rispetta, vietava di dire ove fossero i figli fuggenti: ufficiali si sono introdotti nelle stanze di donne che appena da cinque o sei giorni si erano sgravate di un bambino e con voce assordante han minacciato le puerpere se non avessero rivelato dove era, che mai pensasse di fare, qual audacia ancora avesse il fuggitivo consorte. E basta, è vero? Basta perché dir qualcosa di più sarebbe troppo.
Io sono stato sui monti delle cave sotto il folgorio del sole, che acceca riverberando sul bianco dei marmi. Tra il turbinio della polvere mossa dal vento, tra gli schianti delle mine, tanti uomini salgono dalle verdi campagne lunigiane a guadagnare di che sostentare la famiglia, la famiglia che vive quietamente in un bianco casolare laggiù perduto tra macchie di pioppi e filari di viti.
Io sono stato lassù a Fantiscritti e a Ravaccione, le supreme cave e dinanzi all’immensità della natura che si estrinseca in una strana forma di paesaggio roccioso, dalle tinte ciclopiche dinanzi alla mostruosità convulsa dei monti e all’orridezza dei ravaneti, all’audacia dei picchi svettanti nell’azzurro, o perdendosi in una bianca nube velata che acceca col suo riverbero, ho detto: gli uomini qui lavorano, ben si guadagnano il pane. Tanto il piede affonda nel ravaneto, tanto sulla testa è sospeso il masso che continuamente rotola, tanto la vita è fragile se attaccata ad una fune appesa ad un semplice piuolo che colui che qui lavora dev’essere un titano, od almeno lasciatemelo dire, o borghesia, un eroe, sì, un vecchio eroe!
Egli non aspetta né monumenti, né ricordo glorioso in pagine di storia; egli lavora per la famiglia che cresce modestamente nella natia campagna e se un giorno, come spesso succede, la canapa della lizza si romperà, e il masso che scende dalle cave ai piazzali della marmifera, devii, se la polvere bianca di un giorno di vento lo acciechi e un blocco di marmo slanciato da una mina lo percuota, egli non avrà, se ferito, che primo letto una scala, quattro pezzi di pino incrociati, e se morto, appena un sacco d’onde si asportò già polveri piriche, e mine, fragile cassa alle sfracellate membra. Nei cimiteri di Torano e di Miseglia, son comuni queste sepolture d’ignoti e la famiglia ancora li attende al piano verde col sogno nell’anima di rivederli alla sera come sul dilucolo dell’ultima mattina, quando dopo aver salutato la madre, o baciato la sposa, essi inconsci del loro fato s’avviarono colà donde mai più ritorneranno.
Chi non ha veduto una cava, chi non ha osato salirci non può davvero farsene un’idea. E pensare che nelle vallate di Canal Piccinino e di Canal Bianco, esse si contano a centinaia, una dietro l’altra, una sovra l’altra. Sul diffuso grigio delle montagne arrugginite esse paiono enormi ferite candide. Cigli di rupi irte, scannellature di righe s’aggrottano sopra ed hanno un color di sangue sbiadito colà dove la ruggine manca nel bianco. E cosí via via, su su finché non si giunga al vertice supremo inaccessibile, irta punta che la nebbia circonda quasi fosse il Nume del luogo. Sul piano della cava s’ammucchiano i massi. Là lavorano gli squadratori, gli scalpellini, ma su per la parete bianca, sulle creste delle rocce, legati ad una fune, il piede su una tavola tremante, i cavatori scavano le mine. Talora su un gruppo altissimo, è necessario fare in breve una profonda mina; allora si uniscono molti pali di ferro, si costruisce una specie d’impalcatura a vari piani con rozzi pini od elci, là sopra sale qualche dozzina d’uomini ed allora comincia, lento e monotono il lavoro; ogni colpo della ferrea stanga nel calcare è accompagnato da un triste e cadenzato: Oh! Oh! Io ho ascoltato lungamente quel richiamo onde tutti i lavoranti, in un sol momento, abbiano intente le forze ad un medesimo atto. È un accordo lamentoso, che gli echi rimandano, e affievolendolo rendono qualche volta più dolente e fantastico, onde l’anima commossa pensa: dunque anche qui vivono gli uomini? Dunque anche qui soffrono? In terra non è luogo dunque ove non sia dolore?
Sotto il piazzale poi delle cave scende rovinosamente il cumulo dei detriti di marmo che l’escavazione continuamente aumenta. Scende colmando insenature, sfaldandosi per i versanti dei balzi, ammucchiandosi in fondo alla vallata o contro un ciglio enorme di rocce a mezzo monte. È il ravaneto. In esso sono tracciate le vie delle lizze. Per queste vie dal piano delle cave si fanno scendere i massi già squadrati ai carri enormi tirati da bovi che li attendono a certi luoghi meno ardui, o alle stazioni della ferrovia marmifera. Enormi piuoli sono piantati per queste vie che hanno sempre il cinquanta o il sessanta per cento di discesa, e servono a fissarvi le canape della lizza - specie di slitta di legno, su cui i marmi van posti - onde scenda lentamente, senza mine. Diversi uomini, detti lizzatori, posti sul davanti, dispongono sotto il blocco in discesa, dei travicelli di legno detti parati, che ne attutiscono lo sfregamento contro la scabra via e ne agevolano il viaggio.

Quanto pericolo! La canape spesse volte si spezza e il masso enorme - se gli uomini non son pronti a fuggire - rotola loro addosso e si vendica, uccidendoli: uccidendo essi piccoletti, che con piccoletti mezzi tentarono di portarlo via dal suo santo luogo natale.

Tutti i giornali d’Italia - rara avis un’eccezione - hanno detto che quei cavatori sono uomini rozzi, ubriaconi.
E la calunnia fu ribadita anche da una parte di coloro che dovevano assumerne la difesa. Di ciò fu un eroe, si sa bene, anche qualche pseudo socialista, il quale credendo che fosse anche poco, intinse un suo certo pennelletto in vasi di negro fumo, e di rosso scarlatto ne pennelleggiò, con l’entusiasmo di un salvatore della patria, tutta quanta la Lunigiana.
Ahimè non tutti i pittori impressionisti trionfano: gli sgorbi rimangono e per la consumazione dei secoli.

È vero quegli uomini, quei cavatori che oggi s’arrampicano per le rocce, dove appena salgono le capre e domani ne precipitano sfracellati, al sabato sera, alla domenica hanno l’uso del bere.
Qualche volta s’ubriacano anche. Ma è la loro vita faticosa che lo richiede. Hanno bisogno di rinvigorirsi, hanno bisogno di obliare fosse pure per due o tre ore, la giovinezza sciupata al sole, la carne arsa, gli occhi sanguinanti pei bianchi riverberi; hanno bisogno di dimenticare che domani forse come il fratello, come lo zio un masso li sfracellerà e che avranno venduto la loro vita o almeno saranno ridotti impotenti per pochi centesimi; due, due e cinquanta, tre lire quotidiane che bastavano appena a sostener la famiglia.

È inutile: finché il diritto alla vita sarà calpestato si penserà a un miglioramento, si spererà d’ottenere qualche cosa che sia più conveniente ai nostri bisogni: finché ci saranno dei reietti e dei paria si guarderà sperando nell’avvenire e forse un giorno maledicendo si insorgerà.
Ecco perché l’Utopia, sia Marx o Bakunin l’apostolo, si diffonde maggiormente nelle classi che soffrono, nelle officine, tra le motrici urlanti, nelle miniere dove il “grisou” scoppia, nelle cave donde si asportano i marmi che faranno belle le case della città.
E forse, nessuna signora quando si tuffa, palpitando, in una vasca di masso lunense, ha mai pensato che forse quel masso un giorno rotolando dal picco dove la forza plutonica dell’Eocene lo aveva sollevato, si bagnò del sangue dell’audace che lo staccò, terribile battesimo, come forse non penserà mai che le perle onde si adornerà qualche momento dopo uscendo, son costate la vita ad un povero negro affamato nelle profondità misteriose dell’azzurro Oceano.
Mario Lazzoni scrisse: “I grassi borghesi non vi ricordano, o forti pugnaci di Spartaco, non vi ricordano o precursori ignoti, non vi ricordano voi vittime di Caltavuturo e Conselice... È da Platone a Campanella, da Buonarroti a Saint-Simon che una rivoluzione lenta si prepara maturata dagli ingegni di tutti i popoli, resa indispensabile sempre più dall’evoluzione dell’umano pensiero. [...] Hai gli uomini ignoranti perché miseri, hai i pregiudizi di casta perché c’è chi li benedice in nome di Dio, hai dei vili perché putrida, perché corrotta, perché mefitica è la società borghese”.

Già dissi di essere stato a Fantiscritti, uno dei supremi picchi delle cave. Sotto larga la vallata e profonda, fra pareti scabre di rocce ferruginose, aggrovigliantesi le une sulle altre, con un disperato desiderio di toccare il cielo. Qua e là filoni di ravaneti bianchissimi, qua e là immani rovine di cave, dove gli uomini che battono le mine paiono file di soldatini di carta tanto la distanza è enorme. Sotto l’orrido: ma sovra, il cielo azzurro infinito e lontano, il mare scintillante come i sogni umanitari di Shelley che vi morì.

La solitudine della natura ispira: si diventa più buoni; certe cose che vi son parse utopia - dice Gian Giacomo Rousseau - crederete realizzabili, o uomini se vi allontanerete dalla città...
Ed io ho pensato ed ho compreso. Tutto passa.
Chi rammenta un Aronte che di qui speculò le stelle e predisse guerre civili?
Chi rammenta più un Cybo che regnò un dì al pian verde, o il Piccinino che ne incendiò i borghi? Tutto passa, tutto diventa.

Qui duemila anni fa salirono fra i vigili astati i primi cristiani, i discepoli di Paolo e di Pietro, condannati dai Cesari a scavar marmi per tutta la vita, rei d’un sogno.
Roma era potente, le aquile aleggiavano sul Reno e sulle sponde britanne, i marmi scavati andavano ad adornare i triclini dei pretori e gli ortoli dell’etere. Ed essi, i poveri sognatori, che morirono ignoti condannati a Fantiscritti, appena appena lasciando sulle rocce un timido segno delle loro aspirazioni e del loro martirio, oh! certo non credettero al Trionfo: che il sogno luminoso di Cristo sarebbe diffuso (ed ahimé sfruttato!) un giorno su tutta la faccia della terra.

29.7.19

Memoria come domani - Bruno Enei, una storia strappata all’oblio (Salvatore Lo Leggio, Il Ponte n.3 Luglio 2019)

Bruno Enei comandante partigiano. Nella foto il terzo da sinistra

La vicenda umana di Bruno Enei ha tratti romanzeschi. A un’infanzia in Brasile, dov’era nato nel 1908 da una famiglia di emigranti marchigiani, braccianti in una piantagione di caffè, succede, quand’è adolescente, un soggiorno in Italia che diventa permanenza, in carico a uno zio che gestisce i poderi della sua famiglia. Resta per studiare, nonostante le difficoltà economiche: il seminario a Fermo, la maturità da privatista a Gubbio, Lettere all’Università di Pisa; solitudine e sradicamento non deprimono l’esuberanza fisica e l’attività sportiva, la simpatia umana e la capacità di stabilire relazioni amicali. Fondamentale è la ricerca di maestri, nei libri (Mazzini, Foscolo) come nella vita (Attilio Momigliano e, soprattutto, Aldo Capitini). Alla laurea seguono l’insegnamento, la cospirazione antifascista (nelle reti liberalsocialiste), l’amore e il matrimonio; indi la guerra fascista e la Resistenza partigiana nell’Alto Tevere, in un ruolo di comando che richiede energia e coraggio. Intorno a una strage nazista di civili a Gubbio verrà imbastita e periodicamente rilanciata – non solo dai fascisti – una subdola campagna di calunnie che lo coinvolge attraverso l’infondata accusa di avere provocato, con azioni temerarie, la rappresaglia.
Nel tempo della ricostruzione democratica Enei è in prima fila come militante socialista, giornalista, collaboratore di Capitini nell’esperienza dei Cos (Centri di orientamento sociale), ma anche oggetto di malevole polemiche, soprattutto da parte di clericali, massoni e comunisti; sono grandi in lui la disillusione e lo scoramento per la nuova Italia repubblicana ove il predominio democristiano nel governo sembra assumere i caratteri di una restaurazione e il predominio comunista nell’opposizione imprime su di essa i segni dello stalinismo. Enei finirà per tornare in Brasile ove insegnerà Letteratura Italiana in una università periferica (Ponta Grossa) e morirà relativamente giovane, nel 1967, per un infarto durante il funerale di un amico.
Come si vede, materiali per un romanzo biografico o per una biografia romanzata non ne mancano, ma Lanfranco e Marta Binni, autori di Storia di Bruno Enei. Il dovere della libertà (Firenze, Il Ponte Editore, 2019, pp. 216), hanno seguito un’altra via: quella del rigore storiografico, della documentazione rintracciata con fatica, accuratamente vagliata e puntigliosamente confrontata.
La genesi del libro è raccontata da Lanfranco Binni nel capitolo introduttivo, Alla ricerca di Bruno Enei» il cui titolo riprende quello di un articolo a sua firma apparso sul mensile umbro «micropolis» nel febbraio del 2015, un colloquio con Maurizio Mori, compagno di Enei e di Walter Binni nel dopoguerra, interamente riportato nel libro. La domanda che ha guidato gli autori è grosso modo la stessa che caratterizzava l’intervista a Mori, e cioè: «Come è potuto accadere che una figura come Enei, che nelle cronache del tempo appare come un protagonista della Resistenza antifascista e della nuova democrazia repubblicana, sia quasi totalmente scomparso dalla storia u#ciale di Perugia e dell’Umbria? E come è potuto accadere in una regione che, fortunatamente, non ha mai smesso di coltivare memorie antifasciste?».
Per questo indagare su una rimozione, la Storia di Bruno Enei ricorda due libri di qualche lustro fa, belli e importanti: il Mistero napoletano di Ermanno Rea (Milano, Feltrinelli, 1995), che rievoca il suicidio di Francesca Spada, dirigente del Pci napoletano negli anni del dopoguerra, e l’Odissea Rossa di Didi Gnocchi (Torino, Einaudi, 2001), storia di un fondatore del Pci, Edmondo Peluso, giornalista di genio, risucchiato nel buco nero delle purghe staliniane in Urss, ma ancor piú cancellato e quasi sparito nelle storie ufficiali. La differenza sta nelle modalità della comunicazione. I libri di Rea e Gnocchi erano centrati sull’indagine: i silenzi, le omertà e gli ostacoli da sormontare, i muri da abbattere, gli stessi inganni della memoria; nell’opera dei Binni il percorso della ricerca e le sue difficoltà sono rappresentati nel capitolo introduttivo, per il resto tutto lo spazio è lasciato a Enei, la cui biografia è seguita da un inserto fotografico e da una scelta di scritti. Questa separazione non nuoce affatto alla “leggibilità”, giacché Marta e Lanfranco Binni, pur fuggendo dal romanzesco, hanno prodotto un racconto che del romanzo sembra possedere la polifonia, visto che utilizza e incrocia, spesso riprendendoli per intero, documenti di tipologia e provenienza assai varie: relazioni ufficiali e non, articoli di giornale, lettere, memorie, testimonianze orali.
Il momento di svolta nella narrazione, la “conversione” di Enei, può individuarsi nell’incontro con Aldo Capitini nei primi anni trenta, da cui scaturisce un rapporto duraturo. Lo spiega l’inedito Per imprimere bisogna esprimere in cui Enei rievoca l’impatto sul suo animo giovanile del capitiniano rifiuto della violenza e l’originale interpretazione della vita e dei compiti dell’uomo contenuta in un fondamentale libro del maestro, gli Elementi di un’esperienza religiosa del 1937, definito «una specie di nuovo Evangelo» per le generazioni giovani cresciute sotto il fascismo. «Non l’individuo come diritto – scrive Enei –, come atomo ed egoista; ma l’individuo come dovere religioso, come centro. Il vecchio individuo poteva e non poteva, doveva e non doveva; e la sua libertà si esauriva tutta nell’accettare o no quello che la storia e la tradizione gli offrivano. Invece l’individuo nuovo doveva impegnarsi, e la sua libertà consiste in un obbligo di scegliersi la sua strada in se stesso, nella sua persuasione, nel suo interno al di sopra e al di fuori di ogni conformismo e di ogni mito, di ogni dogma».
È qui ottimamente riassunta una tesi centrale di Capitini per il quale è fragile ogni impegno civile che non abbia alla base domande radicali, “religiose”, sul destino e il dovere di ciascun uomo nel mondo ed è poca cosa una rivoluzione politica che non sia anche etica. La Storia scritta da Lanfranco e Marta Binni è coerente con il personaggio e con il suo approccio “capitiniano” alle cose del mondo: oggettivo e soggettivo, pubblico e privato risultano strettamente connessi e la figura di Enei emerge nella sua grandezza.
Nel racconto e nella documentazione che lo accompagna si possono trovare peraltro molti motivi di interesse: uno, per me assai importante, è la verifica sul campo di come la secolare “miseria” italiana, fatta di menzogne, privilegi di casta, intrighi e camarille, sia riuscita finora a soffocare ogni sogno di rinascita, ogni impegno fattivo per realizzarla. A Perugia, come probabilmente nelle altre cento città e nei tanti paesi d’Italia, sono presenti e all’opera, fin dalla Liberazione, forze che lavorano per una restaurazione delle gerarchie sociali vigenti sotto il fascismo e nel prefascismo. Enei è tra i primi ad avere piena consapevolezza di questo lavorio sottotraccia: quando tra l’autunno del ’44 e il giugno del ’45 è incaricato della direzione del «Corriere di Perugia», organo del Comitato provinciale di liberazione, la inaugura con un editoriale dal titolo emblematico, Le due forze, e la prosegue impegnando il giornale su temi scabrosi, ma decisivi, come l’epurazione.
Tra le battaglie di rinnovamento civile ed etico che nel fervore di quel primo dopoguerra Enei combatte al fianco di Capitini ce n’è una che investe la potente e pervasiva casta clericale. Intorno a una lezione tenuta a Perugia, nell’Università per Stranieri retta da Capitini, da Ernesto Bonaiuti, uno tra i piú colti e agguerriti esponenti del “modernismo cattolico”, vittima nel ventennio fascista di una doppia, accanita persecuzione, da parte della gerarchia ecclesiastica e da parte del regime, era nata una dura polemica, culminata in una sorta di contraddittorio pubblico sul tema della libertà religiosa tra un paio di dotti prelati ed Enei. Il suo intervento viene ripetutamente interrotto dalla gazzarra organizzata dai clericali, ma il testo scritto che opportunamente i Binni riportano per intero, ottimamente pare coniugare vissuto, polemica antidogmatica e tensione libertaria. È a una sua centrale formulazione che allude il titolo del volume: dopo aver asserito che la libertà è «un non dogma, un antidogma che impegna l’uomo sulla terra e nella storia, dinanzi alle sue responsabilità», Enei dichiara che «la libertà è un dovere, è un valore continuo, creatore, mezzo e fine per sé e per gli altri». In un altro passaggio dell’intervento egli esplicita la sua diffidenza contro l’altra chiesa che in quel momento sembra opporsi alla libertà, in antitesi alla Chiesa cattolica, ma a essa simile in molti aspetti: «La Chiesa combatte il comunismo per amore della libertà o perché quel regime, fondato su una disciplina e su principi saldi e universali, costituisce il suo piú diretto e consequenziale avversario, pur dichiarandosi agnostico in religione? Io sono propenso a credere piú alla seconda ipotesi».
L’impegno libertario e costruttivo di Bruno Enei, di una rivoluzione sociale fondata sul dialogo e la partecipazione dal basso, in una città come Perugia trova ostacoli anche nello stesso Partito socialista in cui milita, in particolare in quel notabilato massonico che ne ha occupato alcuni posti chiave. In sintonia con Walter Binni, che nella primavera del 1946 ne è sempre piú il leader riconosciuto, riuscirà a far espellere dal Psiup un paio di esponenti massoni tra i piú tronfi e intriganti. Nella Storia di Bruno Enei si recuperano episodi anche divertenti di quella battaglia. Ma logge e sagrestie non dimenticano: è effetto soprattutto di trame provenienti da siffatti ricettacoli e della complice acquiescenza dei comunisti, la cacciata di Aldo Capitini dall’Università per Stranieri compiutasi nell’aprile del 1947. Intanto, dopo la scissione di Palazzo Barberini tra il Psi di Nenni e il Psli di Saragat, Bruno Enei e il suo amico Walter Binni rimangono – come altri socialisti – senza partito, rifiutando sia la subalternità al Pci sia il moderatismo filooccidentale.
Da Perugia tra il 1947 e il 1948 c’è una sorta di diaspora: Capitini lascia la città per ritrovare l’occupazione alla Scuola Normale Superiore di Pisa; Walter Binni, ancora deputato alla Costituente, sceglie la carriera universitaria che lo porterà prima a Genova, poi a Firenze e Roma; Enei, spinto anche dalle difficoltà economiche, tornerà in Brasile. Faticosamente troverà un ruolo di professore universitario e otterrà perfino qualche riconoscimento, ma quel ritorno sarà sempre vissuto con l’amarezza di un esilio, come conseguenza di una sconfitta non soltanto personale.
Eccellente mi pare la scelta di scritti di Enei che costituisce l’ultima parte del libro: un saggio sul Mazzini che risale agli ultimi anni trenta e ne attualizza lo spiritualismo, articoli politici e notiziari militari sul «Corriere di Perugia», la tesi di laurea sul Belli rimaneggiata in Brasile negli anni cinquanta, ma risalente ai primi anni trenta, quando il canone crociano riservava al grande poeta romano un rango di “minore”, addirittura collocandolo sotto Pascarella e Trilussa. Vivamente consigliata è la lettura attenta dei resoconti sulle riunioni del Cos di Perugia, ideato e diretto da Aldo Capitini, tra gli ultimi mesi del 1944 e i primi del 1946: se ne possono trarre indicazioni ancor oggi valide sulla partecipazione popolare e la democrazia diretta.
Una conclusione che non è conclusione. Lanfranco Binni, stavolta in collaborazione con la figlia Marta, conclude con questo libro una sorta di trittico perugino rappresentato da Aldo Capitini, Walter Binni e Bruno Enei, tre maestri il cui esempio e la cui lezione etico-politica sono stati sottratti a una sterilizzante beatificazione o all’oblio organizzato per essere consegnati alle nuove generazioni italiane anche negli aspetti piú aspri, piú difficili da accettare e seguire. Un lavoro analogo andrebbe fatto con altri: Mario Mineo, Franco Fortini, Sebastiano Timpanaro, Raniero Panzieri, Leonardo Sciascia, tanto per fare qualche nome, ma anche nomi diversi, ai piú sconosciuti ma degni di attenzione come quello di Enei. Sono grandi risorse per farci uscire dall’oscurità in cui siamo piombati.

25.7.19

Il meridionalismo di Scotellaro (Pietro Nenni e Raniero Panzieri - “mondo operaio” n. 4 febbraio 1955)

La redazione del periodico “mondo operaio”, fondato nel 1948 da Pietro Nenni, a quel tempo quindicinale, diede al n. 4 del 1955, datato 19 febbraio, un carattere monografico, dedicandolo quasi interamente a un convegno svoltosi a Matera il 6 febbraio e incentrato alla figura di Rocco Scotellaro, poeta e cantore appassionato del mondo contadino, scrittore meridionalista, militante del Psi, sindaco di Tricarico, scomparso poco più di un anno prima, nel dicembre del 1953.
Il convegno era stato ideato e organizzato da Raniero Panzieri, che senza lasciare l'incarico di Segretario regionale del Psi in Sicilia, aveva assunto nella direzione del partito di Nenni e Pertini il ruolo di responsabile culturale. L'iniziativa, come altre di Panzieri nell'intensissimo 1955 che lo vide protagonista anche delle elezioni regionali siciliane in cui il PSI ottenne un forte successo (ricordiamo un convegno socialista contro la censura ed un altro, a Venezia, sul cinema italiano) rompeva il monopolio di fatto che fino ad allora i comunisti avevano esercitato nella politica culturale della sinistra. Essa realizzava peraltro una doppia apertura: verso il meridionalismo democratico e verso quel complesso mondo liberal-socialista, in gran parte proveniente dal Partito d'Azione, che, organizzato per piccoli gruppi autonomi ma fra loro in rete, già da qualche anno aveva ripreso il dibattito nelle sue riviste e nei suoi giornali sulla questione meridionale, sulle campagne e sul ruolo degli intellettuali. Nenni, che aveva un eccellente fiuto politico, sostenne con entusiasmo l'iniziativa ed al convegno di Matera dedicò sull'“Avanti!” un editoriale in prima pagina, salutandolo come una svolta.
La cura del numero speciale di “Mondo operaio” dedicato a Scotellaro e al convegno di Matera fu affidata da Nenni, che ne era il direttore, a Panzieri, ma l'apertura che qui “posto” e ne rappresenta la sintesi politica, pubblicata con la firma redazionale “m.o.”, fu frutto di un'intensa collaborazione tra i due: gli specialisti potranno probabilmente distinguere con buona approssimazione le parti da attribuire a ciascuno di loro attraverso un'analisi stilistico-tematica, ma anche un non specialista può ragionevolmente pensare che vadano riferiti soprattutto a Panzieri alcuni passaggi propriamente storico-teorici e a Nenni alcune frasi di sintesi politica e di grande efficacia giornalistica.
Leggete perché c'è da leggere. (S.L.L.)

Rocco Scotellaro

Il meridionalismo di Scotellaro
Il Convegno su Rocco Scotellaro, promosso dal PSI e tenutosi a Matera il 6 febbraio con una larga e fervida partecipazione di intellettuali e di contadini e con numerosissime e significative adesioni, è stato, per l’ampiezza e il rigore critico del dibattito, per l’importanza e la precisione delle conclusioni e indicazioni che se ne possono ricavare, la più degna commemorazione di Scotellaro, una commemorazione che non è stata una rievocazione sentimentale, non ha voluto creare o perfezionare un «mito», ma è stata, come ha detto Fortini, la continuazione del discorso stesso di Rocco poeta, uomo di cultura e militante, la cui opera si perpetua e si approfondisce nella ricerca e nell’azione meridionalista.
Nel coerente meridionalismo di Scotellaro il Convegno di Matera ha riconosciuto e dimostrato il significato e l’insegnamento della sua vita e della sua opera letteraria. L’unità della sua azione politica e della sua poesia e delle sue ricerche sul mondo contadino sono il risultato e insieme lo esempio di una posizione meridionalistica viva, attuale, che ha le sue radici nella realtà di oggi del Mezzogiorno, nel risveglio delle masse contadine, nella loro coscienza politica precisa, nelle loro aspirazioni di emancipazione che hanno la forza di tradursi in ideali e scopi di valore nazionale. Questo è l’elemento reale da cui emerge la figura di Scotellaro, ne determina la caratteristica essenziale, opera in modo tale che le incertezze, le contraddizioni, i limiti che pure sono in lui — e sono inevitabilmente nella stessa ancora iniziale affermazione di autonomia delle masse contadine — siano, non certo trascurabili né marginali, ma da valutare tuttavia in rapporto a una coerente fedeltà a un mondo che ha rotto definitivamente con lo oscuro, immobile passato e non abbandonerà la via della liberazione.
Certo, il Mezzogiorno non è mai stato fuori della storia. Ma esso è stato il lato negativo della storia d’Italia, la sua contraddizione permanente. Il divario che lo ha tenuto diviso, sempre più profondamente diviso dal resto del Paese, è la spaccatura, la crisi, il dramma non risolto della storia italiana. Il suo isolamento, certo, non è, se non metaforicamente, un essere fuori della storia; ma esso è l’elemento decisivo della nostra storia nel senso del suo sviluppo faticoso, interrotto. Con l’Unità, la depressione del Mezzogiorno diviene più direttamente la depressione politica di tutto il Paese. E in questa situazione, il mondo contadino non è inerte. Tenta di esprimere la sua estrema sofferenza, e con essa di portare alla luce il nodo capitale della storia italiana. I suoi moti improvvisi, i suoi tentativi di organizzarsi, la sua disperata tendenza all’affermazione di una autonomia esprimono pure il diritto alla liberazione. Nel «perire dei tempi» di cui parla Rocco, la stessa ripetizione di forme di esistenza barbare e pagane, la ripetizione del rifiuto alla civiltà e alla presenza cristiana, producono, poiché esse non avvengono nel vuoto ma nella storia, l’accrescersi della protesta, della energia liberatrice.
Il fallimento della corrente democratica nel Risorgimento trova la sua spiegazione — osservava Gramsci — nella sua estraneità alla questione decisiva che era quella di legare alla rivoluzione nazionale le masse rurali attraverso l’accoglimento delle loro rivendicazioni. Anzi, già prima dell’Unità si delinea il contrasto tra il pensiero e il movimento democratico di ispirazione illuministica, volti troppo spesso alla ricerca di trasformazioni prevalentemente giuridiche e politiche, e il mondo contadino che stenta ad esprimere in forme autonome e organiche le esigenze di trasformazione reale di cui è portatore. Questa scissione, anziché comporsi, si accentua e si aggrava con l’Unità. Ed è proprio sulla base del suo graduale riconoscimento — e del riconoscimento del suo porsi come massimo problema nazionale — che si forma la questione meridionale.
La formazione di una coscienza politica contadina, che è dei nostri anni, si presenta dunque come possibilità di ripresa e di superamento della grande tradizione della cultura democratica meridionale, come già è stato fortemente sottolineato al recente secondo Congresso del popolo meridionale. Ed è certo positivo che su questa linea muovano oggi correnti e gruppi sotto l’insegna di un liberalismo meridionalista. Ma come conciliare allora la sostanza di questo programma con la pretesa di deridere la ricerca di Dorso sugli elementi positivi autonomi di storia meridionale e di dare a intendere che tale ricerca sarebbe mitologica? Uno scrittore di “Nord e Sud” ha persino citato la frase di Dorso su Salvemini come esempio di 'terminologia misterica': « Sotto la crosta del blocco agrario, sotto la cristallizzazione della vecchia società meridionale, sotto l’immobilità istituzionale e politica, bolle il fuoco eterno, e tocca a Gaetano Salvemini iniziare la forzatura del mistero». Ma occorre completare la citazione: «È il problema del socialismo italiano ad attrarlo, la sua insufficienza rivoluzionaria e le sue deviazioni particolaristiche. Si può aprire su questo terreno la prima breccia nel fronte antimeridionalista? Se si riesce a richiamare il socialismo alla sua missione storica, forse — pensa Salvemini — è già nato lo strumento politico per la rigenerazione del Mezzogiorno. I Fasci siciliani, il socialismo pugliese, le prime affermazioni del proletariato napoletano sono ancora nella memoria di tutti. Bisogna ritrovare quel filone nascosto e svolgerlo, bisogna far sboccare il Mezzogiorno nella lotta politica moderna ».
Il contrasto tra meridionalismo e antimeridionalismo raggiunge naturalmente con il fascismo il suo momento più drammatico. Contro il tentativo mostruoso di cristallizzare e di rendere definitiva la immobilità del Mezzogiorno — contro questo tentativo nel quale si rappresenta per intero il carattere barbarico del fascismo — urge il processo di radicale maturazione della democrazia italiana.
Le forze popolari acquistano gradualmente e faticosamente coscienza della loro posizione e dei loro compiti nazionali e tale processo si esprime nella formazione dì una nuova classe politica che, mentre si riconosce erede delle tradizioni liberali democratiche e socialiste, ne brucia le debolezze e le contraddizioni, il pessimismo aristocratico e i residui dottrinari, attraverso lo sforzo di rispecchiare le esigenze di unificazione reale del Paese in concreti programmi dì rinnovamento democratico.
È qui il valore profondo della Resistenza e della Liberazione: la presenza, nell’eroismo, di una precisa coscienza politica che unifica le masse con le élites. Già portato da Gramsci e da Dorso, agli inizi della battaglia antifascista, al grado più alto di elaborazione concettuale storicamente possibile, il meridionalismo diviene motivo centrale della lotta del popolo italiano per l’indipendenza e il rinnovamento democratico. Il meridionalismo diviene, alla Liberazione, il banco di prova della coerenza democratica di ogni corrente politica.
Come la gobettiana intransigenza contro il fascismo e l'unità di questa intransigenza erano (e sono ancora oggi) il fondamento di ogni possibile e concreta differenziazione delle forze per lo sviluppo del libero contrasto democratico, così la fedeltà ai meridionalismo è il più saldo criterio di valutazione circa la effettiva capacità democratica della classe politica che sorge dalla lotta contro il fascismo e dalla Liberazione. Comune fedeltà al meridionalismo non è dunque unità indifferenziata, cioè compromesso tra forze politiche diverse; al contrario, è condizione di sviluppo per ciascuna di esse. Nella concreta esperienza politica degli ultimi decenni, che accomuna popolo e classe politica, si effettua il superamento di quelle astratte opposizioni tra le correnti meridionalistiche che traevano il loro primo motivo di essere della mancata o insufficiente coscienza nazionale delle classi popolari, in primo luogo dal residuo corporativismo della classe operaia e dal contrapposto massimalismo.
Si realizza così il superamento, nell’odierno meridionalismo, della opposizione tra unitari e autonomisti, anche se è doveroso riconoscere, da Colajanni a Salvemini a Dorso, nelle correnti autonomistiche il fermento più vivo, il preannuncio e insieme lo strumento iniziale di realizzazione della concezione più matura.
La esigenza unitaria (Giustino Fortunato) perde il suo carattere «feticistico», conservatore, nel momento in cui diviene esigenza consapevole di unificazione reale presso le forze popolari. L’autonomismo perde il suo carattere astrattamente giuridico, il suo residuo utopismo al quale vittoriosamente gli unitari potevano contrapporre la miserabile realtà della vita politica meridionale in balìa del trasformismo e delle clientele locali, nel momento in cui esso diviene espressione della conquistata fiducia delle masse meridionali in sé stesse.
Si saldano così nel meridionalismo attuale, con accentuazioni e prospettive politiche necessariamente differenziate, le esigenze del riscatto economico, della distruzione dei residui feudali, cioè della riforma agraria e della industrializzazione, con le esigenze della liquidazione del vecchio Stato accentratore-burocratico, della trasformazione della struttura amministrativa, del rovesciamento del rapporto tra Stato e masse rurali, onde l’ordinamento statale, anziché soffocare, favorisca la formazione della coscienza politica e della capacità di autogoverno dei contadini del Sud, condizione essenziale per assicurare la spinta rinnovatrice contro le potenze economiche arroccate nella difesa del privilegio. È questo, oggi ancora, più che mai oggi, il tratto distintivo, il carattere essenziale del meridionalismo, ciò che segna il confine che lo separa e lo oppone irriducibilmente all’antimeridionalismo: la opposizione ad ogni forma di paternalismo che, per quanto si mascheri, in buona o in mala fede, di riformismo sociale, tende inevitabilmente a ripetere le antiche contraddizioni, a ribadire le vecchie catene e, in ultima analisi, a rinsaldare interne con la struttura del vecchio Stato soffocatore, il peso e la oppressione delle forze economiche pirivilegiate.
Siamo oggi ancora dinanzi al problema di fondo su cui Levi richiamava la responsabilità della classe politica antifascista: riuscire a creare uno Stato del quale anche i contadini si sentano parte. Le strutture e la pratica del vecchio Stato — «l'eterno fascismo italiano», diceva Levi - si ripetono oggi, strumento massimo dell’antimeridionalismo. Ma il risveglio contadino c’è stato, e c’è stato come elemento fondamentale del risveglio democratico delle classi popolari in tutto il paese. Il programma meridionalistico nei suoi lati inscindibili di risollevamento economico, di trasformazione statale e di emancipazione sociale, non si è realizzato nella realtà istituzionale del Paese, ma non si è neppure trasformato in una utopia poiché esso e presente in termini sempre più precisi nella coscienza e nell'azione liberatrice delle forze popolari e delle correnti democratiche, in una alleanza nella quale il riconoscimento del valore nazionale delle lotte esclude il compromesso, è garanzia di democraticità, un'alleanza, dunque — come osservava al Convegno di Matera Mario Alleata — che postula finalmente non la soffocazione di una delle forze che la compongono ma il loro reciproco espandersi e rafforzarsi, che diviene in se medesima tanto più salda ed efficace contro il nemico comune quanto piu si sviluppano le autonome energie liberatrici di ciascuna di esse. Non si tratta di mettere in discussione, a proposito dell’alleanza delle forze popolari del Nord e del Sud, la funzione decisiva che spetta alla classe operaia, in quanto ad essa è affidato obiettivamente il compito di affermare nel modo più conseguente i motivi della lotta democratica contro le vecchie potenze egemoniche: è proprio nell’affermarsi di tale funzione, che si creano le condizioni per l’affermazione autonoma delle forze contadine.
Si manifesta così, nella tensione e nella espansione delle forze operaie e contadine, la spinta a superare l’opposizione città-campagna, e in questo stesso sforzo tendono a svilupparsi insieme, in un processo di elementi distinti ma non opposti, le diverse correnti di cultura. Si affermano in esse necessariamente momenti e livelli differenziati dello sviluppo dei diversi strati e aspetti della realtà e del movimento sociale del Paese, del Nord e del Mezzogiorno: proprio nello sforzo di avvicinare ed esprimere il momento drammatico della rottura con il passato ed il risveglio alla storia nazionale e alla lotta del mondo contadino, gli intellettuali recano un contributo decisivo alla formazione della cultura nazionale. In questa consapevole tendenza, attraverso e al di là delle inevitabili incertezze, è la lezione esemplare dell’opera di Rocco Scotellaro.
Nel moto di rinascita mutano dunque profondamente i rapporti tradizionali tra contadini e intellettuali.
Dietro la «rabbia appassionata» dei contadini oppressi del Sud nei confronti degli intellettuali di cui parlava Gramsci, in particolare nei confronti iella piccola borghesia intellettuale del Mezzogiorno c’era il «mistero» della cultura come strumento indispensabile ed inaccettabile di vita e di oppressione insieme. Ma sempre in. questa «rabbia appassionata » c’è stata l’aspirazione alla conquista della cultura, della autonomia. Questa conquista diviene possibile nel momento in cui presso le masse contadine si forma la coscienza precisa dei loro problemi e delle loro rivendicazioni, in cui cioè questi problemi vengono da esse riconosciuti nel loro valore obiettivo e collettivo e nel nesso con le altre questioni del Paese.
Questo riconoscimento positivo, questo inserimento della vita e delle esigenze del mondo contadino nella società nazionale, è per le masse rurali conquista, certo faticosa, di una propria nuoca autonomia e con essa trasformazione della «rabbia appassionata» verso la cultura in rivendicazione e amore positivo di cultura.
È pur doveroso riconoscere — ed è stato sottolineato al Convegno di Matera — che in senso specifico tale processo, di cui l’opera di Scotellaro e momento fondamentale, è ancora ai suoi inizi.
Il Convegno ha perciò auspicato e sollecitato,attraverso lo sviluppo di un ceto politico e intellettuale legato alla nuova realtà contadina, l'affermazione sempre più ricca di una cultura impegnata nella diretta conoscenza della società meridionale, della sua storia, dei suoi problemi e del suo svolgimento attuale. Il libero gioco e contrasto di gruppi e correnti potrà svilupparsi in tutta la sua ampiezza proprio sulla base del comune denominatore del meridionalismo attuale, quale è definito dal legame degli intellettuali con le masse in movimento e dalla prospettiva di una continua espansione di tutte le energie meridionali. Ed è pure su questa linea da promuovere più vigorosamente l’azione verso la rinascita culturale del Mezzogiorno affrontando sistematicamente i problemi della organizzazione della cultura negli aspetti specifici che essi presentano nelle regioni meridionali.
I contadini del Sud — è stato detto a Matera ed è stato dimostrato dalla profonda serietà dell’incontro tra contadini e intellettuali — sono forza matura e capace ormai di far propria e di sostenere questa lotta, con lo slancio e il disinteresse insieme che essa richiede. Le masse meridionali sanno ormai che l’affermazione della loro autonomia può e deve anche realizzarsi in forme precise e sempre più mature nella difesa e nello sviluppo della cultura, sostanza ed arma della loro richiesta di libertà.

13.7.19

Documenti. Per la coerente difesa degli interessi della Sicilia. Risoluzione unitaria dei Comitati Regionali del PCI e del PSI (Febbraio '55)

Quello che segue, il documento finale di una riunione congiunta dei Comitati Regionali del PCI e del PSI siciliani, non è tanto esemplificativo del periodo "frontista" nella storia della sinistra italiana e siciliana, quanto piuttosto del suo esaurimento. Alle precedenti elezioni per l'Assemblea Regionale Siciliana i due partiti si erano presentati uniti nelle stesse liste del Blocco del Popolo, sotto il simbolo di Garibaldi; alle imminenti elezioni della primavera 1955 si preparano a presentarsi in liste separate. 
E c'è di più: il segretario regionale del PSI, Raniero Panzieri, aveva già rilasciato a "L'Ora" un'intervista in cui preannunciava una proposta politica nuova, quella di un accordo fra Democrazia cristiana e Partito socialista per un governo di svolta in Sicilia, e anticipava l'apertura delle liste socialiste a candidati indipendenti dell'area liberaldemocratica, in particolare quelli legati al Movimento di Unità Popolare fondato, contro la legge elettorale maggioritaria (la cosiddetta legge-truffa) da Piero Calamandrei e Ferruccio Parri. 
Ribadire l'importanza delle lotte condotte insieme e le rinnovate convergenze programmatiche serve più che altro a sottolineare il carattere consensuale della separazione e ad impedire contraccolpi nelle amministrazioni locali governate insieme e nella CGIL. (S.L.L.)

Girolamo Li Causi e Raniero Panzieri
I caposaldi del programma del P.C.I. e del P.S.I.: 
«Uniti nella lotta e nell'azione, ciascuno dietro le proprie bandiere»

Martedì 8 febbraio si sono riuniti in seduta comune i Comitati regionali siciliani del Partito socialista italiano e del Partito comunista italiano, sotto la presidenza dei loro segretari regionali, compagni Girolamo Li Causi e Raniero Panzieri, membri rispettivamente detta Direzione del P.C.I. e del P.S.I. La riunione è stata dedicata a un approfondito esame della situazione politica in Sicilia. Il dibattito si è protratto per tutta la giornata, con interventi di numerosi dirigenti delle federazioni dei due partiti e dei deputati regionali ed è servito ad approfondire e precisare con grande chiarezza gli obiettivi e i compiti, con particolare riferimento alle elezioni per il rinnovamento dell’Assemblea regionale, che stanno dinanzi ai due partiti della classe operaia e dei lavoratori siciliani, nell’attuale fase della lotta per la pace e la difesa e lo sviluppo dell’autonomia.
In questo momento drammatico per le sorti di tutta l’umanità, il compito primo è quello di impegnare nel modo più largo e vivete tutte le organizzazioni del P.C.I. e del P.S.L nella lotta per la pace. La pace è esigenza vitale del popolo siciliano, che già in passati ha manifestato la sua decisa volontà di lottare per essa, segnatamente con le grandi manifestazioni popolari in occasione della venuta in Italia del generale Eisenhower e con il plebiscito contro la bomba atomica, suggellato da un solenne voto del Parlamento siciliano.
La Sicilia, che ha sempre pagato col sangue dei suoi figli e con una maggiore miseria le avventure di guerra decise dalle classi dominanti italiane con l’appoggio degli agrari siciliani, che continua ancor oggi a soffrire fame e miseria, retaggio, al tempo stesso, della guerra passata ed effetto dell’accelerata preparazione di un nuovo conflitto da parte degli attuali governanti al servizio degli imperialisti, non può oggi permettere che la sua vita e il suo avvenire vengano minacciati per la follia di avventurieri internazionali, che mettono in pericolo l’esistenza stessa di tutta l’umanità. Il popolo siciliano ha il diritto di esigere che sia per sempre chiuso il periodo storico durante il quale, di fronte ai suoi problemi angosciosi, le classi dominanti non hanno saputo offrire altro che emigrazione e guerre, scatenate nell’interesse di pochi privilegiati: esso si è conquistato, attraverso dure lotte, la sua autonomia per poter far valere i suoi diritti e le sue aspirazioni alla pace e al benessere, e tanto più è deciso oggi a difendere questi diritti e queste aspirazioni, quando è stata sfatata definitivamente la leggenda della Sicilia zona fatalmente arretrata.
Il popolo siciliano ha lottato e lotta per la riforma agraria, per una riforma amministrativa che sollevi i comuni dall’oppressione dei prefetti e dall’impotenza finanziaria e promuova la libertà, per impedire che siano sfruttate a vantaggio dei monopoli e dello straniero le risorse di energia, delle quali si è scoperta la ricchezza: il petrolio, l’energia elettrica, le miniere. In tal modo ha aperto una strada, in fondo alla quale non vi è più la miseria c la disperazione, ma un avvenire radioso. Non solo una guerra distruggerebbe definitivamente il frutto delle sue lotte eroiche, dei suoi sacrifici, del suo lavoro, ma già oggi il solo fatto che si continui una politica, che dà la prevalenza alle spese militari su quelle pacifiche, compromette o ritarda di anni gli obiettivi di rinnovamento e di progresso.
Per chiedere una politica di pace, per proclamare la loro volontà contraria ai piani forsennati degli imperialisti diretti allo scatenamento di un terzo conflitto mondiale, nel quale l’uso delle bombe atomiche e termonucleari moltiplicherebbe a dismisura i lutti e le rovine delle guerre passate, i socialisti e i comunisti siciliani hanno preso solenne impegno di appoggiare con tutte le loro forze la lotta per la pace e, in particolare di mobilitare tutte le loro energie per far conoscere, per far sottoscrivere a tutti i siciliani l’appello contro l’uso delle armi atomiche, lanciato dal Consiglio mondiale della pace nella sua recente sessione dì Vienna. La lotta per una politica di pace del popolo siciliano assume particolare valore oggi, quando alla direzione del governo italiano, nei maggiori posti di responsabilità, alla presidenza del Consiglio e al ministero degli Esteri, seggono proprio due ministri siciliani.
Per fare sì che ogni cittadino, che ogni gruppo sociale, che ogni tendenza politica e ideale possano esprimersi e farsi valere sul piano politico parlamentare e si sviluppi al massimo il libero giuoco democratico, contro il monopolio politico perseguito con tutti i mezzi dalla Democrazia cristiana e contro il ricostituirsi del blocco di destra, che ha mortificato e mira a soffocare il Parlamento, i comunisti c i socialisti siciliani chiedono che sia assicurato, per le prossime elezioni dell’Assemblea regionale siciliana, il sistema più democratico, che è quello della proporzionale pura.
Il P.C.I. c il P.S.I. prendono atto del cammino percorso da forze, che sono oggi arrivate a comprendere la necessità di una lotta unitaria per gli interessi della Sicilia e fanno appello a tutti i cittadini e a tutti i gruppi politici, che effettivamente vogliono la rinascita della Sicilia, perché, contro le forze del passato, che hanno tentato più volte di affossare l’autonomia siciliana, contro l’oppressione del governo centrale, si schierino nella lotta, accanto alle classi lavoratrici e ai loro partiti. Ceti medi produttori, piccoli industriali, commercianti, hanno compreso in quesri anni la necessità, per lo sviluppo economico e civile della Sicilia, della riforma agraria, dando il loro appoggio alla lotta per una giusta soluzione del problema contadino; hanno compreso la giustezza delle lotte condotte dai sindacati dei lavoratori, per l’adcguamento dei salari degli operai siciliani a quelli degli operai del Nord e per la difesa e lo sviluppo della nostra industria contro il soffocamento da parte dei monopoli e dello straniero. Essi nella lotta per la pace e il progresso della Sicilia possono trovare il loro posto, in uno schieramento articolato c differenziato, n cui ciascuno esprima la propria personalità c difenda gli interessi del proprio ceto e della propria categoria, lottando per quelli più generali.
Oggi gli interessi della Sicilia si difendono lottando per la pace, per la difesa c lo sviluppo dell’industria siciliana, per l'utilizzazione piena di tutte le fonti dì energia, per la riforma agraria, per la riforma amministrativa, per la ferma rivendicazione di tutti i diritti costituzionali della Sicilia nei confronti dello Stato e in particolare per il rispetto dell’art.38 dello Statuto e per la difesa delle funzioni e della strettura dell'Alta Corte per la Sicilia, suprema garanzia dell’antonomia. Questi sono i capisaldi del programma che il Partito socialista e il Partito comunista propongono a tutte le forze politiche oneste, democratiche e autonomiste e alle masse dei popolo siciliano.
L’unità dei due partiti, rinsaldata dalle lotte, dal lavoro di ogni giorno, dai sacrifici e dal sangue di tanti militanti e combattenti eroici, le lotte sostenute con successo dal Blocco del Popolo nel paese e nel Parlamento, la loro forza, il programma che nanne proposto ai popolo siciliano ed al quale hanno sempre tenuto tede, sono garanzia per tutti di poter portare avanti le proprie istanze, di poter difendere i propri interessi senza bisogno di piegarsi ai ricatti, per finire poi soffocati dal pesante abbraccio della Democrazia cristiana. Accanto ad essi, uniti nel programma e nell’azione avranno modo di esprimersi altre forze libere, che vogliono la pace, l’autonomia, il progresso della Sicilia. Uniti nella lotta e nell’azione, ciascuno dietro la propria bandiera e i propri simboli, tutti gli uomini onesti, gli amici della Sicilia, coloro che lottano per la pace ed il progresso potranno ancora una volta spingere indietro le forze reazionarie locali, i fautori di guerra, gli imperialisti stranieri, portando avanti la Sicilia verso un avvenire luminoso, per il quale il suo popolo ha lottato, ed al quale sente di avere finalmente diritto.

IL COMITATO REGIONALE DEL PCI
IL COMITATO REGIONALE DEL PSI

l'Unità, 15 febbraio 1955

10.7.19

Mussomeli (Pietro Nenni - Mondo Operaio 1954)

Pietro Nenni
La pagina di grande giornalismo politico che qui posto è due cose insieme: ricordo di una tragedia siciliana e di una storia eroica di emancipazione e di riscatto che trova il suo apice nei Fasci dei Lavoratori, memoria di un combattente per la libertà e la giustizia sociale che seppe trovare una grande sintonia con il popolo, con le persone più povere e sfruttate. Su "Mondo Operaio", la rivista (prima quindicinale poi mensile) che Pietro Nenni dirige, proprio in quegli anni 1954-56, comincia una ricerca di nuove vie per il socialismo italiano dopo l'esaurimento della stagione frontista. Uno dei filoni di questa ricerca è un nuovo appassionato e problematico meridionalismo, a cui darà un contributo importante Raniero Panzieri, segretario regionale della Sicilia e responsabile stampa, propaganda e cultura nella Direzione Nazionale. Proprio Panzieri organizzerà un convegno in questo senso assai importante, quello su Rocco Scotellaro del gennaio 1955, e curerà il numero quasi monografico di "Mondo operaio" al convegno dedicato nel successivo febbraio. (S.L.L.)

Il 17 febbraio scorso Mussomeli, grosso paese della provincia di Caltanisetta, assurgeva di colpo ad una dolorosa notorietà.
Quel giorno una folla di misera gente, donne la maggior parte, s’era raccolta sulla piazzetta antistante il municipio invocando a gran voce il sindaco e da lui attendendo che mettesse ordine nella esazione in corso dei ruoli di pagamento del canone dell’acqua, proprio in un momento in cui, da diversi giorni, l’acqua mancava. Si trattava di poche migliaia di lire, forse meno di quanto costa a Palermo o a Roma, un pranzo in un ristorante alla moda. Ma poche migliaia di lire, per i braccianti o per i minatori di Mussomeli, sono una ricchezza ch’essi non possiedono. Il sindaco ebbe paura di quella folla inerme che gli chiedeva già da due giorni un atto di giustizia, e la paura gli suggerì la folle idea di far sgombrare la piazzetta dai carabinieri col lancio di candelotti lacrimogeni. Fu sui luogo un grido solo: «Le bombe! Ci assassinano!» e un fuggi fuggi disperato, per due strette uscite e un parapetto dove la gente s’accalcava e s schiacciava. Bilancio: quattro morti e molti feriti. Dei morti tre erano donne: Messina Vincenza di anni 25 madre di 3 bambini; Pellitteri Onofria 5: anni 50 madre di 8 figli; Valenza Giuseppina di anni 72. E un ragazzo: Cappalongo Giuseppe di toni 16.
La commozione nell’Isola e nel Continente fu generale. Quei morti erano, in un certa tal guisa, il biglietto da visita del ministero Scelba che si era costituito sette giorni prima e di cui era bastato l'annuncio perché si tornasse, di un tratto, da Milano a Roma a Torino ai bei tempi dei caroselli delle jeep, delle cariche della Celere e delle manganellate.
Si poteva credere che la presenza vicino a Scelba del vice-presidente del Consiglio Saragat, inducesse il governo a promuovere, o la parte socialdemocratica ad esigere, una inchiesta, previa la destituzione del sindaco e del maresciallo dei carabinieri, evidentemente incorsi in un caso clamoroso di abuso di potere. Nulla. Il governo si tenne pago del rapporto dell’Arma, di qualche sussidio mandato alle famiglie delle vittime, di una parola di pietà che non dirò ipocrita, ma insufficiente sì. La sua stampa annunciò che il sindaco ed i carabinieri avevano dovuto difendersi da una fitta sassaiola, sotto il cui grandinare i vetri del municipio erano andati infranti. Risultò che non c’era un solo vetro rotto, che le autorità non avevano corso alcun pericolo, che sarebbe bastata una buona parola del sindaco per rimandare a casa la gente. Ma intanto s’erano svolti frettolosamente i funerali e non per nulla il nostro è il paese dove chi ha avuto ha avuto e chi ha dato ha dato. Su Mussomeli, sui suoi morti, sulla sua miseria cadde in pochi giorni l’oblio del silenzio.
Noi non abbiamo dimenticato, né taceremo, se prima Mussomeli non abbia ottenuto riparazione e giustizia.
Mussomeli, i suoi morti, la sua miseria nera, ci appaiono come il simbolo del tanto, del molto che resta da intraprendere e da fare per attuare il terzo tempo sociale. Si tratta di un grosso paese, che si stende attorno ad un antico castello, con le case grigie dei borghesi, tra le quali troneggia il palazzo della famìglia Lanza, principi di Traina, ultimi signori feudali della zona; con misere casupole dove si ammassa la povera gente, braccianti, carusi delle miniere di zolfo, piccoli artigiani di mille mestieri; col tanfo perenne, il colore, gli usi e costumi della miseria. È un paese, come ve ne sono tanti in Sicilia, dove la mafia ancora detta legge; dove le autorità sono agli ordini e a disposizione dei «cappeddi» (dei ricchi) e della mafia, pressapoco come ai tempi delle orazioni di Cicerone contro Verre; dove la Chiesa fa corpo (sociale e non mistico) coi proprietari di terre (e per le cui viuzze di fango o di polvere non si incontrano quindi i fraticelli del cardinale Lercaro in amore di riformismo sociale); dove la legge del tempo sembra essere la immobilità. Le esigenze di Mussomeli sono quelle del terzo tempo sociale: lavoro e pane, istruzione ed igiene, case e svago civile cioè dignità di vita nella sicurezza di una occupazione stabile. Non furono dunque questi i motivi sociali della grande lotta dei Fasci siciliani, esattamente sessanta anni or sono?
Lo furono. E il fatto che tanto tempo sia passato e i medesimi problemi siano all’ordine del giorno, è un atto d’accusa per la classe dirigente siciliana, ed italiana, per le autorità locali e il governo centrale.
I Fasci sorsero in Sicilia nel 1891, furono la prima istintiva forma di organizzazione contadina e socialista, divennero una forza dopo il 1892, dopo la costituzione a Genova del Partito Socialista (allora Partito dei Lavoratori). Nel maggio 1893, quando si tenne il primo congresso socialista siciliano, l’organizzazione di Partito era almeno formalmente distinta da quella più larga dei Fasci, dove confluivano operai, contadini, minatori delle zolfare, piccola e minuta borghesia rurale. Poi, nello sviluppo rapido del movimento, i Fasci, con alla testa Garibaldi Bosco, Nicola Barbato, Bernardino Verro, Giuffrida De Felice, presero l’effettiva direzione della lotta sociale e politica nell’Isola. Si assisteva al fenomeno detto da Filippo Turati della «proletarizzazione della massa siciliana»; alla trasformazione della agricoltura feudale e patriarcale in agricoltura capitalista; alla spoliazione borghese delle terre demaniali. Coincidevano i mali della vecchia società feudale e della società capitalista in formazione. Il movimento dei contadini era diretto essenzialmente contro i gabellotti, per lo sfruttamento a cui sottoponevano i lavoratori dei campi. Il movimento dei minatori delle zolfare era diretto contro le condizioni inumane del lavoro, che all'epoca strapparono grida di orrore per come vivevano i picconieri e specialmente i carusi. L’artigianato assecondava la rivolta dei contadini. Tutti avevano nemico lo Stato, impersonificato dal carabiniere e dall’agente delle tasse. Si lavorava per paghe giornaliere da 40 cent, a una lira, fino a un massimo di due lire per la mietitura, nei pochi giorni in cui le braccia non bastavano.
Un movimento di quella natura, in quel in quelle condizioni sociali, non poteva sfuggire a impulsi anarchici (ed infatti Antonio Labriola in una sua lettera a Federico Engels parlava dell’influenza pazzotica di De Felice), eppure c’era nei dirigenti una maturità di coscienza e di responsabilità che ancora sorprende. C’era l’idea del valore dell’alleanza tra città e campagna; c’era il sentimento, se non ancora la teorizzazione, che la emancipazione dei lavoratori doveva essere opera dei lavoratori stessi; c’era una nozione esatta del legame tra politica ed economia, tra classe dirigente politica e classe dirigente economica. Boisco poteva dire fin d’allora agli studenti: non potremo trionfare se con noi non si muoveranno i contadini. Il programma dei Fasci era quello dei Partito Socialista, era quello della scuola marxista. Nella scultorea definizione di Antonio Labriola i fasci ebbero il compito di portare il proletariato agricolo siciliano « ul davanti della scena della storia». Tra i dirigenti Bosco e De Felice esprimevano l’interesse della popolazione progressiva urbana al grande riscatto dei contadini; Nicola Barbato, medico a Piana dei Greci e Bernardino Verro, segretario comunale a Corleone (egli fu assassinato dalla mafia nel 1915) erano in più diretto contatto con la grande miseria e la grande rivolta dei rurali.
La rivolta assunse le forme che poteva assumere, confermando uno dei principii fondamentali del materialismo storico e cioè che la storia si fa come può, nelle condizioni determinate dall’ambiente, ma si fà: occupazione di terre, prevalentemente demaniali; scioperi; attacco ai gabellotti ed ai signori; incendio dei casotti del dazio e dei municipi.
La repressione fu localmente quale l’imponeva l’istinto bellicoso di difesa dei feudali e dei loro scherani, che sentivano traballare sotto i loro piedi l’organizzazione sociale di cui gli uni vivevano lautamente e gli altri raccoglievano le briciole, e fu da parte dello Stato inerente alla natura delle istituzioni, falsamente liberali col Giolitti della primissima maniera e apertamente reazionarie col Crispi dell’ultima maniera. Nessun arbitrio fu risparmiato, dall’assassinio all’arresto per associazione a delinquere, dalla proibizione dei cortei e dei comizi alla diffida personale, dall’allontanamento degli inscritti ai Fasci dagli impieghi pubblici, all’intimidazione famigliare; dal sequestro del giornale Giustizia Sociale alla chiusura delle sedi dei Fasci.
Quando quelle misure apparvero inadeguate, si ricorse alla strage. Undici contadini uccisi a Giardinetto nel dicembre 1893, altri 11 poco dopo a Lercara, 8 a Pietraperzia nel gennaio 1894, 20 a Gibellina, 2 a Belmonte, 18 a Marineo, 13 a Villanova ecc.
Il 25 dicembre 1893 Crispi si faceva autorizzare dal re e dal consiglio dei ministri a proclamare lo stato d’assedio nell’isola e inviava a Palermo, con pieni poteri, il generale Morra di Lavriano. All’accusa di fomentare la sedizione e la rivolta, i Fasci rispondevano fieramente proclamando che «l’agitazione presente è il portato doloroso e necessario di un ordine di cose inesorabilmente condannate e che mette la borghesia nella necessità o di seguire le esigenze dei tempi o di abbandonarsi a repressioni brutali». Facevo eco da Roma la solidarietà dei deputati socialisti i quali accusavano il governo di non avere fatto «nulla nel passato», di nutrire ora «di piombo gli stomaci affamati» e « fraintendendo ad arte l’opera moderatrice dei Fasci dei Lavoratori» di soffocarne «con l’arresto dei capi la voce generosa .
Piombo e galera furono il rimedio di Crispi, e perché non mancasse nulla del classico armamentario reazionario, ci fu anche la solita e stolida accusa crispina che i capi dei Fasci fossero al servizio dello straniero, della Francia e della Russia (già allora!) per staccare l’isola dal regno.
Sciolti i Fasci, dispersi i seguaci, arrestati quelli che oggi chiamiamo gli attivisti, condannati i capi dal tribunale militare straordinario (De Felice a 16 anni, Barbato e Verro a 14, Bosco a 12, Montalto a 10 anni ecc.) l’antico ordine sociale fu ritenuto salvo. Senonchè i dispersi ritrovarono rapidamente animo e coraggio; l’amnistia del ’96 strappò dai reclusori i capi dei Fasci che nelle elezioni del 1895 erano stati eletti in diverse circoscrizioni continentali; nel gennaio del ’96 il Partito Socialista in Sicilia veniva ricostituito; le masse si rimettevano in movimento.
La repressione dei Fasci siciliani non fu un episodio né unico né singolare del decennio della reazione 1890-1900. Metodi analoghi furono subito dopo impiegati contro analoghi moti in Lunigiana e si ebbe, nel luglio 1894, la legge contro gli anarchici, fonte per lunghi anni di inqualificabili abusi, di cui furono vittima in modo particolare i socialisti. Poi le elezioni del 1895, che raddoppiarono alla Camera l’Estrema Sinistra, e a Roma videro Crispi vincere di stretta misura il galeotto De Felice con uno scarto di 213 voti. Poi Adua che rovesciò Crispi. E dopo il ritiro di Crispi, l’oscuro periodo culminato nei moti e nelle repressioni del ’98, moti e repressioni che presero di bel nuovo l’avvio in Sicilia, per dilagare rapidamente, di provincia in provincia, nel continente, fino a Milano, e ivi essere immortalate nelle gesta del generale Bava Beccaris. Dopo di che, e dopo il tentativo del generale Pelloux, di piegare con la frode dei regolamenti della Camera e delle elezioni ammaestrate la resistenza della democrazia, dopo il regicidio di Monza, la reazione precipitava d’un tratto nel vuoto ch’essa aveva scavato sotto i propri piedi. Nasceva, col Giolitti della seconda maniera, l’era liberale, durata, con alterne vicende e tra clamorose contraddizioni, fino al 1922.
A distanza di tanti anni, dopo tanti eventi militari e politici, dopo i vent’anni della dittatura fascista tra le due guerre mondiali, un episodio come quello di Mussomeli, attesta le insufficenze dell’epoca liberale, denuncia il tragico sperpero di ricchezze e di energie promosso, al di là dei mari, da Mussolini; ripropone alla democrazia repubblicana il terzo tempo sociale, eluso, nel corso degli ultimi sette anni, dalla democrazia-cristiana e dalla socialdemocrazia per le quali urgenti non era dare terra ai contadini, case, scuole ed ospedali al popolo, sicurezza di lavoro agli operai, dignità di occupazione ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni, garanzia di sviluppo alle professioni intellettuali, ma urgente era la crociata ideologica contro il marxismo, la discriminazione che tende a porre ai margini della vita democratica socialisti e comunisti, la lotta contro i sindacati e la maggiore delle loro organizzazioni centrali, la C.G.I.L.
Mussomeli ci ha ricondotti al «quia». «State contenti, umana gente, al quia». I lavoratori non staranno contenti. Hanno nel passato rimosso molte delle cause della loro servitù e della loro miseria. Rimuoveranno le cause persistenti dell’ingiustizia sociale. Questo, e non altro, ha da essere il senso del terzo tempo sociale.

Mondo Operaio, quindicinale diretto da Pietro Nenni n. 5, 6 marzo 1954

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