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22.8.19

La scuola, cioè la democrazia. Un articolo di Pietro Ingrao (“il manifesto”, 20 ottobre 1994)

Un articolo di Pietro Ingrao, quasi 25 anni dopo. Molte argomentazioni sono inevitabilmente datate e superate, ma il ragionamento spiega molto di quanto, purtroppo, è avvenuto dopo e il metodo mi pare attualissimo, in un momento in cui la democrazia o cambia o muore. (S.L.L.)


Che succede? C’è una tempesta che s’addensa sulla scuola pubblica. Non credo si tratti solo di un ritorno clericale. È di più. È un altro passo avanti nel processo di mercificazione, ed è legato alla nuova centralità che sta assumendo la questione dei saperi. Perciò oggi è a rischio e in discussione non solo la laicità della scuola, ma di più: il suo carattere di spazio pubblico garantito e potenzialmente libero, di diritto fondamentale di cittadinanza. E la controversia sulla scuola pubblica è emblematica di una questione più grande: se possano esistere spazi di autonomia, non misurabili con i criteri dello scambio mercantile e del denaro, prima di tutto in quel campo fondamentale dell’esperienza vitale che è la formazione, l’inoltrarsi nella lettura del mondo, e nell’esperienza del «fare».
Questa è la posta in gioco; e quindi è una questione di libertà.
Ma se tale è la sfida, essa non può essere combattuta in termini di conservazione: essa evoca subito la questione dei contenuti nuovi della formazione oggi. Temo che la battaglia per la scuola pubblica sarà perduta, se non costruiremo questa forte connessione con la riforma dei contenuti educativi. Lottiamo per una scuola pubblica riformata. Questo è un punto decisivo del discorso.

L’età dell’ingresso
Stiamo - spero - arrivando finalmente all’estensione della scuola dell’obbligo a 16 anni (e tendenzialmente fino a 18 anni). Attenti: non si tratta solo di uno spostamento quantitativo; cioè un qualsiasi di più del tempo che si sta sui banchi. Il passaggio da 14 ai 16 anni in qualche modo rappresenta un allaccio con un altro tempo dell’esperienza vitale: quel tempo di transito tanto controverso, delicato, persino ambiguo, spesso difficile e tempestoso che vede l’ingresso nell’età adolescenziale. Un passaggio - non possiamo dimenticarlo - su cui, nei secoli e nelle diverse civiltà, è sorta una letteratura enorme, e che nel nostro tempo forse è stato accelerato, ma anche reso più convulso e dilemmatico dall’incalzare dell’innovazione nel processo produttivo, nell’elaborazione dei saperi e del costume.
Sono anni in cui si verifica (nelle ragazze e nei ragazzi) un salto nella sfera sessuale e affettiva, e anche nel definirsi come soggetto civile, nella conquista di una autonomia culturale, e nel rapporto tra formazione generale e prima ricerca di una professionalità. Anni in cui si drammatizza e si complica il rapporto con l’autorità patema e materna e con il vincolo familiare, e si dilatano i rapporti sociali, la trama di relazioni con il mondo. Anni in cui diviene più stringente la questione del nesso delicatissimo tra l’acquisizione di competenze specifiche e la conquista di un sapere generale, e di una scala possibile di valori.
Del resto, se risalgo ai miei tempi, ricordo come - nel corso degli studi - erano complicate le classi del quarto e quinto ginnasio, proprio come classi difficili e incerte, una sorta di zona oscura prima della corposità del liceo, per chi ci arrivava. Oggi in Italia la giovane e il giovane a diciotto anni votano: cioè sono chiamati a decidere sullo Stato, sul governo, sulla economia del Paese, quindi sulla «generalità». E questo in un tempo - il nostro - in cui già a quattordici, quindici, sedici anni è rotto ormai l’isolamento spaziale della fanciullezza e si entra in rapporto (almeno da parte di molti, ragazze e ragazzi) direttamente con il caos degli assembramenti urbani attuali, e si comincia a girare il mondo, a conoscere direttamente, altre civiltà.

La formazione dei saperi
Dobbiamo averne nitida coscienza: l’estensione dell’obbligo a 16 anni, oltre ad essere una conquista, significherà una sfida e una prova, rappresenterà (nel bene o nel male) un salto di qualità nella funzione pubblica della scuola. Acutizzerà il conflitto fra le due tendenze che chiaramente oggi si scontrano: quella che chiamiamo una «lettura mercantile» della formazione, e la visione della scuola come sfera pubblica garantita, diritto fondamentale di cittadinanza, luogo necessario di costruzione di una democrazia moderna. E il conflitto fra le due letture si farà più aspro.
Quindi non si tratta solo di questioni di soldi (un po’ più di soldi alle scuole confessionali...), ma dei luoghi di costruzione di identità, e di elaborazione di saperi e di culture, che sono — oggi più di ieri - essenziali nel conflitto in atto (tra parentesi: si fa oggi un enorme spreco della parola «Italia», ma che significa questa parola, in fondo, si comincia a decidere là, nelle aule).
Dio mio: sempre la battaglia sulla scuola ha avuto un significato «generale», ed è stata centrale nel disporsi del conflitto sulle idee e i poteri. Ma oggi questa verità sperimentata diventa ancora più valida: perché la formazione e il controllo dei saperi decisa nella sfida produttiva, per il livello nuovo che in essa attinge il controllo e lo sviluppo delle conoscenze, per non dire la formazione di quell’«intelletto generale» di cui parlava il vecchio Marx.
E qui torno su un punto - forse un po’ ossessivamente - di cui ho già parlato altrove: il rapporto tra la scuola e la vicenda del Novecento. Voglio precisare che io non alludo a una dilatazione temporale dell’arco degli studi della storia della letteratura, della storia politica, ecc..
È molto di più. È la convinzione che - nel secolo - sono entrate in campo nuove culture e nuove soggettività: quindi i campi del confronto, del conflitto e della ricerca sono cambiati. Ci troviamo di fronte, con il Novecento, a letture nuove - per esempio - delle sfere della sessualità, dell’affettività, e quindi dei paradigmi con cui leggiamo l’esperienza vitale.

Il «post-fordismo»
È troppo, pensare che nelle scuole di oggi si parli di femminismo? E insisto a sottolineare: noi stiamo assistendo ora ad una mutazione aspra non solo dell’organizzazione del lavoro, del rapporto tra operai e tecnici e sistema delle macchine, ma del rapporto tra lavoro e vita, anzi tra lavori (al plurale) e vita, nel tempo della flessibilità e della nuova precarizzazione dell’atto lavorativo. È una mutazione sconvolgente, che domina il dibattito e anche lo scontro sociale. È problema cruciale, per i giovani.
Bene; ma quante sono le scuole italiane (compreso il liceo e prima dell’università) in cui si pronuncia la parola «fordismo»? Eppure noi - e i giovani - già ora ci troviamo a misurarci con il nuovo volto lavorativo che sta mettendo in campo il «post-fordismo». E cerchiamo in queste innovazioni la chiave per capire le mutazioni che stanno cambiando fisionomia, durata, remunerazione dell’atto lavorativo nel post-fordismo, e nell’epoca della «globalizzazione» del capitalismo. Tutto questo rappresenta un’esperienza bruciante per gli adolescenti che si affacciano alla vita. Questo tema entrerà o resterà fuori dalla porta delle aule? E che senso ha tornare a parlare di «scuole professionali», se non si muove da questi nodi e dai problemi formativi che essi evocano? E che cosa vuol dire «professionalità» oggi se non discutiamo, anche guardando alla scuola, le mutazioni che stanno investendo l’organizzazione dei lavori, e spingono sempre più a parlare di una formazione polivalente?

La comunicazione
Giustamente nelle scuole si impara a leggere e a scrivere: a usare lo strumento, le tecniche, le signifi-canze della scrittura. Bene. Ma oggi il fanciullo, già in età tenerissima, entra in rapporto con il duro e fascinoso mondo esterno attraverso l’esperienza del video, che è un altro linguaggio, e non perché è un mix di parola e visualità, ma perché usa altri codici, altre scansioni temporali della parola-immagine, altri ritmi dialogici (e in modo abbastanza stringente e obbligato). E’ troppo chiedere che, già nella scuola dell’obbligo, si studi storia della comunicazione, e si discuta sull’innovazione sconvolgente che - in questi anni - è stata introdotta nella vita di miliardi di esseri umani? E quindi già nella scuola dell’obbligo si impari e ci si educhi a decodificare, ad analizzare la storia dei linguaggi e il loro intreccio?
Se guardo, se scruto il mio nipotino di sette anni, vedo come impara a leggere, a usare la penna e la matita, ad allineare e confrontare i numeri. Ma non dobbiamo pensare (e provvedere) da ora a portare dentro le aule scolastiche (non so dire a quale grado, ma presto) il computer? Per insegnare ad adoperarlo, poiché sta diventando lo strumento dello scrivere e dello stampare. E quando, in che classe, da che età si comincerà -nella scuola dell’obbligo - a insegnare almeno i rudimenti, il senso, la logica dell’informatica?
Oppure, semmai essa verrà confinata il qualche settore delle scuole professionali, appunto interpretandola come tecnica separata, e non come rete cognitiva, sapere costituente della relazione sociale nel nostro tempo.

La sovranazionalità
Nel conflitto sulla sorte e sui caratteri della scuola pubblica e della scuola privata è aperta una discussione essenziale sull’articolo 33 («Senza oneri per lo Stato») che sta in Costituzione, e si può cambiare solo secondo le regole della Costituzione. Ma - forzo provocatoriamente le cose - la Costituzione non viene studiata oggi nella scuola (in quella sede, cioè, che abbiamo definito un’area essenziale della cosa pubblica, e -se vogliamo dirla così - un momento essenziale dell’agorà). Capiamoci bene: parlo dello studio e non solo dello specifico testo costituzionale, ma della storia ed esperienza storica delle istituzioni, della fissazione dei poteri e delle regole, e della storia delle grandi istituzioni pubbliche moderne, e quindi dell’apogeo e della crisi, in questo secolo, della statualità; per non dire del silenzio assoluto sulle grandi forme nuove della sovranazionalità, che sono il grande, grandissimo evento di questa fine del Novecento.
Ecco, allora, la riforma. Ecco la grande occasione dell’allargamento dell’obbligo, per tematizzare e immettere questa rivoluzione di contenuti.
Ecco perché tutela della scuola dell’obbligo e riforma dei contenuti sono indissolubilmente legati. Difenderemo la scuola pubblica se la presenteremo come la sede insostituibile di questa forte innovazione nei temi e nei contenuti, oltre che nelle forme didattiche. E quanto più spalancheremo le porte a questo presente nei luoghi della formazione, tanto più diverrà limpido il perché e la necessità di questa sfera pubblica garantita, di questo momento indispensabile - e critico, e libero - di ricerca e comprensione.
Non è forse, questo, anche il tema che dobbiamo porre al mondo cristiano, all’esperienza religiosa, invece di cedere alla pressione della confessionalità e della mercificazione?
Il mondo cristiano ha di fronte, drammaticamente, la questione della modernità, con le sue conquiste e con i suoi dilemmi aspri. Valgono di più un po’ di soldi e spazi alle scuole confessionali, o invece la discussione critica, la ricerca libera, il confronto nella scuola pubblica su ciò che significano i processi di mercificazione anche rispetto ai valori e alle idee di una esperienza religiosa? È una domanda (anche ad alcuni compagni del Pds).

5.8.19

Perché il potere ha tolto le parole ai nostri ragazzi (Gianrico Carofiglio)

L'articolo che segue, dello scrittore Giancarlo Carofiglio mi pare cogliere ottimamente alcuni nessi, quello tra povertà di linguaggio e violenza, per esempio; ma non mi convince del tutto. 
Mi pare che salti qualche passaggio; non spiega, ad esempio, perché, soprattutto in campo politico (forse non è lì il vertice del potere, è comunque un potere importante), la povertà linguistica non impedisca a taluni di raggiungere posizioni di primo piano. Con gente come Trump, Salvini o Di Maio si ha addirittura l'impressione che l'ignoranza sia un vantaggio. (S.L.L.)


Un numero enorme di ragazzi non è capace di comprendere un comune testo in lingua italiana. È un'incapacità che certo dipende dalle carenze del sistema scolastico ma che affonda le sue radici in un terreno più vasto. Quello della progressiva perdita di senso del dibattito pubblico, dell'esibito disprezzo che taluni politici e talune forze hanno per la responsabilità connessa con l'uso del linguaggio.
Sembra concretizzarsi nel nostro Paese l'inquietante fenomeno che Humpty Dumpty illustra ad Alice in un passo celebre di Attraverso lo specchio. "Quando io uso una parola" disse Humpty Dumpty in tono alquanto sprezzante, "questa significa esattamente quello che decido io... né più né meno".
"Bisogna vedere" disse Alice "se lei può dare tanti significati diversi alle parole".
"Bisogna vedere" disse Humpty Dumpty "chi è che comanda... è tutto qua".
Quando si ha a che fare con le parole - dice l'interlocutore di Alice - una cosa sola importa: chi comanda, chi è il padrone. L'impressionante inettitudine messa in luce dai risultati dei test Invalsi è a un tempo causa ed effetto di questo fenomeno: giovani incapaci di capire il significato di discorsi elementari sono i destinatari ideali per la propaganda dei demagoghi e dei populisti di ogni risma. E la propaganda volgare, violenta, carica di disprezzo per i significati, caratterizzata da una programmatica povertà del lessico è uno degli acceleratori dell'ignoranza, dunque dell'inadeguatezza democratica. In nessun altro sistema di governo le parole sono importanti come in democrazia: la democrazia è discussione, è ragionamento comune, si fonda sulla circolazione delle opinioni e delle convinzioni.
La ricerca scientifica ha dimostrato un'inquietante rapporto fra povertà del linguaggio e assenza di possibilità: i ragazzi più violenti possiedono strumenti linguistici scarsi e inefficaci, sul piano del lessico, della grammatica e della sintassi. Non sono capaci di gestire una conversazione, non riescono a modulare lo stile della comunicazione - il tono, il lessico, l'andamento - in base agli interlocutori e al contesto, non fanno uso dell'ironia e della metafora, non sanno nominare le proprie emozioni. Spesso, non sanno raccontare storie. Mancano della necessaria coerenza logica, non hanno abilità narrativa: una carenza che può produrre conseguenze tragiche nel rapporto con l'autorità, quando è indispensabile raccontare, descrivere, dare conto delle ragioni, della successione, della dinamica di un evento.
Quando, per ragioni sociali, economiche, familiari, non si dispone di adeguati strumenti linguistici; quando mancano le parole che dicono la paura, la fragilità, la differenza, la tristezza; quando manca la capacità di nominare le cose e le emozioni, allora manca un meccanismo fondamentale di controllo sulla realtà e su se stessi.
La violenza incontrollata è uno degli esiti possibili, se non probabili, di questa carenza. I ragazzi sprovvisti delle parole per dire i loro sentimenti di tristezza, di rabbia, di frustrazione hanno un solo modo per liberarli e liberarsi di sofferenze a volte insopportabili: la violenza fisica. Chi non ha i nomi per la sofferenza la agisce, la esprime volgendola in violenza, con conseguenze spesso tragiche.
Nelle scienze cognitive questo fenomeno - la mancanza di parole, e dunque di idee e modelli di interpretazione della realtà, esteriore e interiore - è chiamato ipocognizione. Si tratta di un concetto elaborato a seguito degli studi condotti negli anni Cinquanta dall'antropologo Bob Levy. Nel tentativo di individuare la ragione dell'altissimo numero di suicidi registrati a Tahiti, Levy scoprì che i tahitiani avevano le parole per indicare il dolore fisico ma non quello psichico. Non possedevano il concetto di dolore spirituale, e pertanto quando lo provavano non erano in grado di identificarlo. La conseguenza di questa incapacità, nei casi di sofferenze intense e (per loro) incomprensibili, era spesso il drammatico cortocircuito che portava al suicidio. L'abbondanza, la ricchezza delle parole, il loro essere munite di significati è dunque una condizione del dominio sul reale: e diventa, inevitabilmente, strumento del potere politico.
Per il filosofo John Searle le società vengono costruite e si reggono, essenzialmente, su una premessa linguistica: sul fatto, cioè, che formulare un'affermazione comporti un impegno di verità e di correttezza nei confronti dei destinatari. Non osservare questo impegno mette in pericolo il primario contratto sociale di una comunità, cioè la fiducia in un linguaggio condiviso.
Le società nelle quali prevalgono le asserzioni vuote di significato, nelle quali i politici (e soprattutto i politici al governo) non hanno alcuna percezione dei doveri connessi all'uso del linguaggio, sono in cattiva salute: in esse, alla perdita di senso dei discorsi, consegue una pericolosa caduta di legittimazione delle istituzioni e in definitiva un grave pericolo per la democrazia.
L'analfabetismo funzionale di tanti ragazzi è un effetto di molte cause e rischia a sua volta di diventare la pericolosa premessa di uno svuotamento della democrazia. Occuparsi del linguaggio pubblico e della sua qualità non è dunque un lusso da intellettuali, una questione da accademici, un problema di chi si occupa delle politiche e delle pratiche dell'educazione. È un dovere cruciale della politica e dell'etica civile.

“la Repubblica”, 12 luglio 2019

25.7.19

Il meridionalismo di Scotellaro (Pietro Nenni e Raniero Panzieri - “mondo operaio” n. 4 febbraio 1955)

La redazione del periodico “mondo operaio”, fondato nel 1948 da Pietro Nenni, a quel tempo quindicinale, diede al n. 4 del 1955, datato 19 febbraio, un carattere monografico, dedicandolo quasi interamente a un convegno svoltosi a Matera il 6 febbraio e incentrato alla figura di Rocco Scotellaro, poeta e cantore appassionato del mondo contadino, scrittore meridionalista, militante del Psi, sindaco di Tricarico, scomparso poco più di un anno prima, nel dicembre del 1953.
Il convegno era stato ideato e organizzato da Raniero Panzieri, che senza lasciare l'incarico di Segretario regionale del Psi in Sicilia, aveva assunto nella direzione del partito di Nenni e Pertini il ruolo di responsabile culturale. L'iniziativa, come altre di Panzieri nell'intensissimo 1955 che lo vide protagonista anche delle elezioni regionali siciliane in cui il PSI ottenne un forte successo (ricordiamo un convegno socialista contro la censura ed un altro, a Venezia, sul cinema italiano) rompeva il monopolio di fatto che fino ad allora i comunisti avevano esercitato nella politica culturale della sinistra. Essa realizzava peraltro una doppia apertura: verso il meridionalismo democratico e verso quel complesso mondo liberal-socialista, in gran parte proveniente dal Partito d'Azione, che, organizzato per piccoli gruppi autonomi ma fra loro in rete, già da qualche anno aveva ripreso il dibattito nelle sue riviste e nei suoi giornali sulla questione meridionale, sulle campagne e sul ruolo degli intellettuali. Nenni, che aveva un eccellente fiuto politico, sostenne con entusiasmo l'iniziativa ed al convegno di Matera dedicò sull'“Avanti!” un editoriale in prima pagina, salutandolo come una svolta.
La cura del numero speciale di “Mondo operaio” dedicato a Scotellaro e al convegno di Matera fu affidata da Nenni, che ne era il direttore, a Panzieri, ma l'apertura che qui “posto” e ne rappresenta la sintesi politica, pubblicata con la firma redazionale “m.o.”, fu frutto di un'intensa collaborazione tra i due: gli specialisti potranno probabilmente distinguere con buona approssimazione le parti da attribuire a ciascuno di loro attraverso un'analisi stilistico-tematica, ma anche un non specialista può ragionevolmente pensare che vadano riferiti soprattutto a Panzieri alcuni passaggi propriamente storico-teorici e a Nenni alcune frasi di sintesi politica e di grande efficacia giornalistica.
Leggete perché c'è da leggere. (S.L.L.)

Rocco Scotellaro

Il meridionalismo di Scotellaro
Il Convegno su Rocco Scotellaro, promosso dal PSI e tenutosi a Matera il 6 febbraio con una larga e fervida partecipazione di intellettuali e di contadini e con numerosissime e significative adesioni, è stato, per l’ampiezza e il rigore critico del dibattito, per l’importanza e la precisione delle conclusioni e indicazioni che se ne possono ricavare, la più degna commemorazione di Scotellaro, una commemorazione che non è stata una rievocazione sentimentale, non ha voluto creare o perfezionare un «mito», ma è stata, come ha detto Fortini, la continuazione del discorso stesso di Rocco poeta, uomo di cultura e militante, la cui opera si perpetua e si approfondisce nella ricerca e nell’azione meridionalista.
Nel coerente meridionalismo di Scotellaro il Convegno di Matera ha riconosciuto e dimostrato il significato e l’insegnamento della sua vita e della sua opera letteraria. L’unità della sua azione politica e della sua poesia e delle sue ricerche sul mondo contadino sono il risultato e insieme lo esempio di una posizione meridionalistica viva, attuale, che ha le sue radici nella realtà di oggi del Mezzogiorno, nel risveglio delle masse contadine, nella loro coscienza politica precisa, nelle loro aspirazioni di emancipazione che hanno la forza di tradursi in ideali e scopi di valore nazionale. Questo è l’elemento reale da cui emerge la figura di Scotellaro, ne determina la caratteristica essenziale, opera in modo tale che le incertezze, le contraddizioni, i limiti che pure sono in lui — e sono inevitabilmente nella stessa ancora iniziale affermazione di autonomia delle masse contadine — siano, non certo trascurabili né marginali, ma da valutare tuttavia in rapporto a una coerente fedeltà a un mondo che ha rotto definitivamente con lo oscuro, immobile passato e non abbandonerà la via della liberazione.
Certo, il Mezzogiorno non è mai stato fuori della storia. Ma esso è stato il lato negativo della storia d’Italia, la sua contraddizione permanente. Il divario che lo ha tenuto diviso, sempre più profondamente diviso dal resto del Paese, è la spaccatura, la crisi, il dramma non risolto della storia italiana. Il suo isolamento, certo, non è, se non metaforicamente, un essere fuori della storia; ma esso è l’elemento decisivo della nostra storia nel senso del suo sviluppo faticoso, interrotto. Con l’Unità, la depressione del Mezzogiorno diviene più direttamente la depressione politica di tutto il Paese. E in questa situazione, il mondo contadino non è inerte. Tenta di esprimere la sua estrema sofferenza, e con essa di portare alla luce il nodo capitale della storia italiana. I suoi moti improvvisi, i suoi tentativi di organizzarsi, la sua disperata tendenza all’affermazione di una autonomia esprimono pure il diritto alla liberazione. Nel «perire dei tempi» di cui parla Rocco, la stessa ripetizione di forme di esistenza barbare e pagane, la ripetizione del rifiuto alla civiltà e alla presenza cristiana, producono, poiché esse non avvengono nel vuoto ma nella storia, l’accrescersi della protesta, della energia liberatrice.
Il fallimento della corrente democratica nel Risorgimento trova la sua spiegazione — osservava Gramsci — nella sua estraneità alla questione decisiva che era quella di legare alla rivoluzione nazionale le masse rurali attraverso l’accoglimento delle loro rivendicazioni. Anzi, già prima dell’Unità si delinea il contrasto tra il pensiero e il movimento democratico di ispirazione illuministica, volti troppo spesso alla ricerca di trasformazioni prevalentemente giuridiche e politiche, e il mondo contadino che stenta ad esprimere in forme autonome e organiche le esigenze di trasformazione reale di cui è portatore. Questa scissione, anziché comporsi, si accentua e si aggrava con l’Unità. Ed è proprio sulla base del suo graduale riconoscimento — e del riconoscimento del suo porsi come massimo problema nazionale — che si forma la questione meridionale.
La formazione di una coscienza politica contadina, che è dei nostri anni, si presenta dunque come possibilità di ripresa e di superamento della grande tradizione della cultura democratica meridionale, come già è stato fortemente sottolineato al recente secondo Congresso del popolo meridionale. Ed è certo positivo che su questa linea muovano oggi correnti e gruppi sotto l’insegna di un liberalismo meridionalista. Ma come conciliare allora la sostanza di questo programma con la pretesa di deridere la ricerca di Dorso sugli elementi positivi autonomi di storia meridionale e di dare a intendere che tale ricerca sarebbe mitologica? Uno scrittore di “Nord e Sud” ha persino citato la frase di Dorso su Salvemini come esempio di 'terminologia misterica': « Sotto la crosta del blocco agrario, sotto la cristallizzazione della vecchia società meridionale, sotto l’immobilità istituzionale e politica, bolle il fuoco eterno, e tocca a Gaetano Salvemini iniziare la forzatura del mistero». Ma occorre completare la citazione: «È il problema del socialismo italiano ad attrarlo, la sua insufficienza rivoluzionaria e le sue deviazioni particolaristiche. Si può aprire su questo terreno la prima breccia nel fronte antimeridionalista? Se si riesce a richiamare il socialismo alla sua missione storica, forse — pensa Salvemini — è già nato lo strumento politico per la rigenerazione del Mezzogiorno. I Fasci siciliani, il socialismo pugliese, le prime affermazioni del proletariato napoletano sono ancora nella memoria di tutti. Bisogna ritrovare quel filone nascosto e svolgerlo, bisogna far sboccare il Mezzogiorno nella lotta politica moderna ».
Il contrasto tra meridionalismo e antimeridionalismo raggiunge naturalmente con il fascismo il suo momento più drammatico. Contro il tentativo mostruoso di cristallizzare e di rendere definitiva la immobilità del Mezzogiorno — contro questo tentativo nel quale si rappresenta per intero il carattere barbarico del fascismo — urge il processo di radicale maturazione della democrazia italiana.
Le forze popolari acquistano gradualmente e faticosamente coscienza della loro posizione e dei loro compiti nazionali e tale processo si esprime nella formazione dì una nuova classe politica che, mentre si riconosce erede delle tradizioni liberali democratiche e socialiste, ne brucia le debolezze e le contraddizioni, il pessimismo aristocratico e i residui dottrinari, attraverso lo sforzo di rispecchiare le esigenze di unificazione reale del Paese in concreti programmi dì rinnovamento democratico.
È qui il valore profondo della Resistenza e della Liberazione: la presenza, nell’eroismo, di una precisa coscienza politica che unifica le masse con le élites. Già portato da Gramsci e da Dorso, agli inizi della battaglia antifascista, al grado più alto di elaborazione concettuale storicamente possibile, il meridionalismo diviene motivo centrale della lotta del popolo italiano per l’indipendenza e il rinnovamento democratico. Il meridionalismo diviene, alla Liberazione, il banco di prova della coerenza democratica di ogni corrente politica.
Come la gobettiana intransigenza contro il fascismo e l'unità di questa intransigenza erano (e sono ancora oggi) il fondamento di ogni possibile e concreta differenziazione delle forze per lo sviluppo del libero contrasto democratico, così la fedeltà ai meridionalismo è il più saldo criterio di valutazione circa la effettiva capacità democratica della classe politica che sorge dalla lotta contro il fascismo e dalla Liberazione. Comune fedeltà al meridionalismo non è dunque unità indifferenziata, cioè compromesso tra forze politiche diverse; al contrario, è condizione di sviluppo per ciascuna di esse. Nella concreta esperienza politica degli ultimi decenni, che accomuna popolo e classe politica, si effettua il superamento di quelle astratte opposizioni tra le correnti meridionalistiche che traevano il loro primo motivo di essere della mancata o insufficiente coscienza nazionale delle classi popolari, in primo luogo dal residuo corporativismo della classe operaia e dal contrapposto massimalismo.
Si realizza così il superamento, nell’odierno meridionalismo, della opposizione tra unitari e autonomisti, anche se è doveroso riconoscere, da Colajanni a Salvemini a Dorso, nelle correnti autonomistiche il fermento più vivo, il preannuncio e insieme lo strumento iniziale di realizzazione della concezione più matura.
La esigenza unitaria (Giustino Fortunato) perde il suo carattere «feticistico», conservatore, nel momento in cui diviene esigenza consapevole di unificazione reale presso le forze popolari. L’autonomismo perde il suo carattere astrattamente giuridico, il suo residuo utopismo al quale vittoriosamente gli unitari potevano contrapporre la miserabile realtà della vita politica meridionale in balìa del trasformismo e delle clientele locali, nel momento in cui esso diviene espressione della conquistata fiducia delle masse meridionali in sé stesse.
Si saldano così nel meridionalismo attuale, con accentuazioni e prospettive politiche necessariamente differenziate, le esigenze del riscatto economico, della distruzione dei residui feudali, cioè della riforma agraria e della industrializzazione, con le esigenze della liquidazione del vecchio Stato accentratore-burocratico, della trasformazione della struttura amministrativa, del rovesciamento del rapporto tra Stato e masse rurali, onde l’ordinamento statale, anziché soffocare, favorisca la formazione della coscienza politica e della capacità di autogoverno dei contadini del Sud, condizione essenziale per assicurare la spinta rinnovatrice contro le potenze economiche arroccate nella difesa del privilegio. È questo, oggi ancora, più che mai oggi, il tratto distintivo, il carattere essenziale del meridionalismo, ciò che segna il confine che lo separa e lo oppone irriducibilmente all’antimeridionalismo: la opposizione ad ogni forma di paternalismo che, per quanto si mascheri, in buona o in mala fede, di riformismo sociale, tende inevitabilmente a ripetere le antiche contraddizioni, a ribadire le vecchie catene e, in ultima analisi, a rinsaldare interne con la struttura del vecchio Stato soffocatore, il peso e la oppressione delle forze economiche pirivilegiate.
Siamo oggi ancora dinanzi al problema di fondo su cui Levi richiamava la responsabilità della classe politica antifascista: riuscire a creare uno Stato del quale anche i contadini si sentano parte. Le strutture e la pratica del vecchio Stato — «l'eterno fascismo italiano», diceva Levi - si ripetono oggi, strumento massimo dell’antimeridionalismo. Ma il risveglio contadino c’è stato, e c’è stato come elemento fondamentale del risveglio democratico delle classi popolari in tutto il paese. Il programma meridionalistico nei suoi lati inscindibili di risollevamento economico, di trasformazione statale e di emancipazione sociale, non si è realizzato nella realtà istituzionale del Paese, ma non si è neppure trasformato in una utopia poiché esso e presente in termini sempre più precisi nella coscienza e nell'azione liberatrice delle forze popolari e delle correnti democratiche, in una alleanza nella quale il riconoscimento del valore nazionale delle lotte esclude il compromesso, è garanzia di democraticità, un'alleanza, dunque — come osservava al Convegno di Matera Mario Alleata — che postula finalmente non la soffocazione di una delle forze che la compongono ma il loro reciproco espandersi e rafforzarsi, che diviene in se medesima tanto più salda ed efficace contro il nemico comune quanto piu si sviluppano le autonome energie liberatrici di ciascuna di esse. Non si tratta di mettere in discussione, a proposito dell’alleanza delle forze popolari del Nord e del Sud, la funzione decisiva che spetta alla classe operaia, in quanto ad essa è affidato obiettivamente il compito di affermare nel modo più conseguente i motivi della lotta democratica contro le vecchie potenze egemoniche: è proprio nell’affermarsi di tale funzione, che si creano le condizioni per l’affermazione autonoma delle forze contadine.
Si manifesta così, nella tensione e nella espansione delle forze operaie e contadine, la spinta a superare l’opposizione città-campagna, e in questo stesso sforzo tendono a svilupparsi insieme, in un processo di elementi distinti ma non opposti, le diverse correnti di cultura. Si affermano in esse necessariamente momenti e livelli differenziati dello sviluppo dei diversi strati e aspetti della realtà e del movimento sociale del Paese, del Nord e del Mezzogiorno: proprio nello sforzo di avvicinare ed esprimere il momento drammatico della rottura con il passato ed il risveglio alla storia nazionale e alla lotta del mondo contadino, gli intellettuali recano un contributo decisivo alla formazione della cultura nazionale. In questa consapevole tendenza, attraverso e al di là delle inevitabili incertezze, è la lezione esemplare dell’opera di Rocco Scotellaro.
Nel moto di rinascita mutano dunque profondamente i rapporti tradizionali tra contadini e intellettuali.
Dietro la «rabbia appassionata» dei contadini oppressi del Sud nei confronti degli intellettuali di cui parlava Gramsci, in particolare nei confronti iella piccola borghesia intellettuale del Mezzogiorno c’era il «mistero» della cultura come strumento indispensabile ed inaccettabile di vita e di oppressione insieme. Ma sempre in. questa «rabbia appassionata » c’è stata l’aspirazione alla conquista della cultura, della autonomia. Questa conquista diviene possibile nel momento in cui presso le masse contadine si forma la coscienza precisa dei loro problemi e delle loro rivendicazioni, in cui cioè questi problemi vengono da esse riconosciuti nel loro valore obiettivo e collettivo e nel nesso con le altre questioni del Paese.
Questo riconoscimento positivo, questo inserimento della vita e delle esigenze del mondo contadino nella società nazionale, è per le masse rurali conquista, certo faticosa, di una propria nuoca autonomia e con essa trasformazione della «rabbia appassionata» verso la cultura in rivendicazione e amore positivo di cultura.
È pur doveroso riconoscere — ed è stato sottolineato al Convegno di Matera — che in senso specifico tale processo, di cui l’opera di Scotellaro e momento fondamentale, è ancora ai suoi inizi.
Il Convegno ha perciò auspicato e sollecitato,attraverso lo sviluppo di un ceto politico e intellettuale legato alla nuova realtà contadina, l'affermazione sempre più ricca di una cultura impegnata nella diretta conoscenza della società meridionale, della sua storia, dei suoi problemi e del suo svolgimento attuale. Il libero gioco e contrasto di gruppi e correnti potrà svilupparsi in tutta la sua ampiezza proprio sulla base del comune denominatore del meridionalismo attuale, quale è definito dal legame degli intellettuali con le masse in movimento e dalla prospettiva di una continua espansione di tutte le energie meridionali. Ed è pure su questa linea da promuovere più vigorosamente l’azione verso la rinascita culturale del Mezzogiorno affrontando sistematicamente i problemi della organizzazione della cultura negli aspetti specifici che essi presentano nelle regioni meridionali.
I contadini del Sud — è stato detto a Matera ed è stato dimostrato dalla profonda serietà dell’incontro tra contadini e intellettuali — sono forza matura e capace ormai di far propria e di sostenere questa lotta, con lo slancio e il disinteresse insieme che essa richiede. Le masse meridionali sanno ormai che l’affermazione della loro autonomia può e deve anche realizzarsi in forme precise e sempre più mature nella difesa e nello sviluppo della cultura, sostanza ed arma della loro richiesta di libertà.

29.6.19

Camilleri nel cerchio magico del racconto. Un'intervista di Guido Festinese (2016)

Guido Festinese vive a Genova, dove – a quanto leggo su Linkedin – insegna Storia ed Estetica del Jazz al Conservatorio. Fa però molte altre cose: è giornalista soprattutto in veste di critico musicale, organizza mostre ed eventi culturali, è uno specuialista di Dea André e di Tabucchi. Non mi è piaciuto il suo modo di intervistare Camilleri, che egli cerca di stimolare con citazioni dai suoi autori preferiti più che con domande che seguono il ragionamento dello scrittore siciliano. Ma anche in un'intervista siffatta vengono fuori le qualità di affabulatore di Camilleri, alcuni particolari della sua affascinante biografia, la sua curiosità per le cose del mondo. (S.L.L.)


C'è chi si spaventa, a vedere molti libri assieme, e chi, invece, prova una sorta di rassicurante senso di protezione a contatto con muri di carta attorno. Se siete bibliofobi è meglio che non entriate mai nella casa romana di Andrea Camilleri. È una vertigine incombente di carta e di inchiostro. Le pareti scompaiono dietro i dorsi di migliaia di titoli. Strumenti di lavoro, strumenti di piacere e di conoscenza di una vita. Camilleri ha iniziato a leggere giovanissimo. Con voracità e velocità. Mandrake e l'Avventuroso si alternavano a romanzi ponderosi. Andrea Camilleri ha ricevuto di recente dal Comune di Genova il Grifo d'oro, riconoscimento che va a chi, in qualche modo, è riuscito a far conoscere un po' meglio la dura città ventosa della lanterna e i suoi abitanti. Il Grifone, nella mitologia, è un animale con testa d'aquila, il corpo possente è quello del leone. È simbolo di lungimiranza e di capacità di protezione, i grifoni proteggevano i tesori nascosti. Camilleri è un vecchio grifone che ha protetto, con lungimiranza, il tesoro più prezioso che ci sia per le persone in questo mondo: l'arte di raccontare storie. Quello che ci salva, ci preserva. Camilleri ci ha reso un po' più umani. In questo momento, ad esempio (ma mentre leggerete queste righe può darsi che l'orologio editoriale sia già andato un po' più avanti) i libri più recenti sono I Sogni di Camilleri, cofanetto celebrativo per i suoi radiosi ed affollatissimi novant'anni regalatogli da Sellerio, La targa, ennesimo affondo in quel fascismo lontano che fu tragedia e farsa assieme, per gli italiani, e Le vichinghe volanti, storie scollacciate e vitali della sua immaginaria e vitalissima Vigata, un attizzatoio della memoria senza fine.
Se la sorte e i casi della vita non l'avessero portato a vivere perlopiù a Roma, già ben lontana da Porto Empedocle - Vigata, Camilleri avrebbe scelto Genova. Per motivi di misteriosa familiarità:

«Ci arrivai nel 1950, per le Olimpiadi culturali della gioventù. Genova venne invasa da giovani speranze di tutti i campi artistici, le giurie facevano spavento: c'erano Galvano della Volpe, Massimo Bontempelli, Enzo Ferrieri, Sibilla Aleramo. Vinsi ex aequo il primo premio di poesia. Mi ci sono perso, a Genova, nel porto, nei carrugi, attaccavo discorso con la gente. Nell'angiporto sparirono tutti all'improvviso quando provai a chiedere un pacchetto di sigarette di contrabbando, pensavano fossi un poliziotto, dall'accento siciliano. Incontrai anche una bella ragazza Raffaella, che mi chiese di accompagnarla a Boccadasse, e fu il secondo colpo di fulmine, l'aria, l'odore del mare. Me ne ricordai per costruire il personaggio di Livia Burlano, la fidanzata di Montalbano. Il mare di Amburgo non ha lo stesso odore di quello di Genova, che mi ricordava quello del mio paese, Porto Empedocle. E provavo una simpatia istintiva per la parlata, per i tratti di carattere della gente. Giravo imbambolato, come se mi trovassi in una città tutta mia istintivamente. La stessa sensazione, devo dire, che provai al Cairo. Arrivai a mezzanotte, alle tre mi telefonò mia moglie che mi disse “come ti trovi?” Sono a casa mia, le risposi».

Lo scorso anno è uscito un bel saggio di Jonathan Gottschall, L'istinto di narrare / come le storie ci hanno reso umani. Richiama molto da vicino quanto ha scritto il suo amico Antonio Tabucchi: “L'uomo ha imparato a vedersi e capirsi ed è entrato nella civiltà come la conosciamo quando ha imparato il racconto”. Concorda?
«Del tutto. Raccontarsi non è solo minutamente descrivere. Porta con sé una sfumatura, un alone, dentro il quale entra l'ascoltatore, un cerchio magico che crea solo il racconto. La conoscenza reciproca, più che attraverso la carta di identità, si fa attraverso il racconto di sé rivolto agli altri». Saramago diceva di aver imparato a narrare dai racconti di suo nonno bracciante analfabeta. «Io mi facevo raccontare le storie dal mezzadro di mio nonno, storie contadine favolose che poi ho ampiamente rubato per i miei libri».

Chi non legge pensando che sia qualcosa di noioso, cosa si perde?
«Perde innanzitutto una parte di se stesso. Se è importante sentirsi unità compiuta per scelta personale, chi non legge non perché non può, ma perché non vuole, sappia che non vuole scientemente crescere né conoscere se stesso. Perché attraverso la comparazione di sé con la lettura si cresce. Io debbo tutto alla medicina: perché quando avevo sei anni non esistevano i vaccini, e io mi beccavo tutte le malattie infantili una dopo l'altra. Stare a letto era una meraviglia. Non si andava a scuola, la tele non era stata ancora inventata, la radio era un armadio. L'unica cosa che restava era la lettura. Mio padre era tutt'altro che un intellettuale, ma aveva un fiuto intellettuale straordinario per i buoni libri. E io gli chiesi, con una sorta di autocensura, quali potessi leggere, lui mi rispose: “Tutti quelli che vuoi”. Così io, in primis, tirai fuori La follia di Almeyer di Conrad, il suo primo romanzo, e me lo lessi d'un fiato. Le letture per ragazzi le recuperai dopo. A novant'anni posso dire che, se sono cresciuto, un contributo enorme me lo ha dato la lettura, oltre che l'esperienza. Aiuta a capire le ragioni degli altri, che magari non condividi, ma le comprendi. Chi non legge vuole essere povero».

Andrea Camilleri con Guido Festinese
Torniamo a Tabucchi. Lui diceva che le storie, le ispirazioni provengono o dalla cronaca dei giornali, o dai racconti di altri, oppure da narrazioni concesse dagli dei che ci cascano in testa come palloncini.
«Le dico una cosa, con Tabucchi ci siamo inseguiti per tutta la vita, senza mai riuscire a incontrarci fisicamente. Qualcosa ha congiurato in tal senso. Telefonate, cartoline. Comunque, mi riconosco in tutte e tre le affermazioni. All'inizio della mia scrittura io non sapevo inventarmi nulla, per cui avevo bisogno di fatti di cronaca che poi stracambiavo, per i romanzi storici come La mossa del cavallo parto dalla pagina di un libro di storia, che mi fa da innesco. Crescendo è cominciata ad arrivarmi qualcosa dall'alto. Ed è un rischio. Mi capitò di scrivere uno dei primissimi racconti, e Sciascia lo volle, Capitan Caci. Dopo una settimana comprai Due storie del porto di Bahia di Jorge Amado, scrittore che adoro, e con stupore immenso lessi un episodio identico a Capitan Caci. Telefonai a Sciascia, gli dissi: “Non si può pubblicare, tutti diranno che l'ho copiato”. Non riuscivo a spiegarmi il fatto, fin quando un giorno mi trovo a leggere uno degli ultimi articoli di Calvino, che recensiva un libro di storie fantastiche della letteratura italiana. E Calvino scriveva che un racconto, Lo Zio, lo aveva fatto rabbrividire, perché ne aveva nel cassetto uno suo identico. Forse per gli scrittori esiste una biblioteca archetipale, dove ogni tanto uno scrittore prende un libro, lo legge, e lo rimette a posto. Capace che a volte capiti che due scrittori attingano allo stesso libro archetipale».

Camilleri, De André ha detto una volta che una lingua nazionale come l'italiano sarebbe già finita miseramente come lingua per vendere patate e baccalà, se non si fosse nutrita degli idiomi locali, dei dialetti...
«Non sapevo di avere un fratello gemello di pensiero. E che fratello. Sottoscrivo in pieno».

Un nome che ritorna. Lo scrittore Bajani mette in bocca al Tabucchi degli ultimi giorni la definizione dell'ignoranza come di un pieno, un muro. E i muri si possono solo abbattere, o scavalcare.
«Meglio abbatterli. I muri sono un simbolo di stupidità. Quando sbarcarono gli alleati in Sicilia, e io disertai, rifugiandomi nella villa di una mia zia, lei si illuse di tener lontano la guerra dalla sua enorme pistacchiera con un muro di filo spinato. Gli Sherman americani lo buttarono giù senza neppure vederlo. Altro che muri. Ancora gente ne deve arrivare. E forse sarà la nostra salvezza».

Josè Saramago diceva che non sempre è possibile aver idee originali, già basta averne di praticabili. È così?
«Sottoscrivo. E soprattutto che le idee siano praticabili dagli altri, da chi ti legge e può condividere. È una gratificazione degli ultimi anni della mia vita che è arrivata inaspettata e immensa».

Camilleri, il Mediterraneo è in fiamme.
«I pescatori del Mediterraneo avevano un tempo una lingua esperanto fatta da suoni di tutte le sponde per capirsi, il Sabir».

Il Suonatore Jones, personaggio poetico di Edgar Lee Masters sul quale De André ha scritto una magnifica canzone conclude, dopo aver molto vissuto, di avere montagne di ricordi,e nessun rimpianto.
«Concordo parola per parola. Io ho avuto una vita fortunata, ho avuto figli, nipoti e pronipoti lavorando, e ho lavorato, anche duramente, facendo quello che mi piaceva fare, il regista, l'insegnante, il produttore, lo scrittore. Una cosa che capita in sorte a pochi. Scrivere è anche faticoso, ma io amo la figura della trapezista col sorriso sulle labbra che non ti fa arrivare nulla del rischio del salto mortale e dell'allenamento. Il lettore non deve sapere della fatica dello scrivere. E anche così, dico sempre, è sempre meglio che scaricare casse alle tre del mattino in un mercato».

Alias il manifesto, 2 gennaio 2016

17.6.19

La battaglia delle parole. La riflessione di una combattente gentile (Simona Mafai)

Questo articolo è tratto dall'ultimo numero di “Mezzocielo”, il n.159 datato inverno 2019, il bel trimestrale di donne palermitane fondato nel 1991 tra le altre da Simona Mafai, Rosanna Pirajno e Letizia Battaglia, che tuttora lo dirige. Non è l'ultimo “pezzo” politico che Simona ha firmato: ho visto nel sito di “Mezzocielo.it” che funziona da quotidiano on line, un suo accorato appello alla vigilia delle elezioni europee.
Simona è morta di ictus l'altro ieri. La ricordo mio senatore per il PCI a Gela, impegnata – come per tanto tempo a Palermo – tra le donne dei quartieri popolari, spesso abusivi e degradati, polemica e ironica quando necessario, ma sempre attenta agli altri, sempre capace di trovare la misura nel tono e nelle parole. E ne ricordo la la tensione ideale e l'intelligenza politica che riversava anche nel dibattito interno non sempre cortese. L'ho rivista e salutata da lontano il 5 maggio dell'anno scorso, al Gramsci di Palermo per il bicentenario di Marx che Piero Violante e Gabriello Montemagno organizzarono affidando il ricordo di quel saggio alla libera scelta di qualche sua pagina. Simona scelse un brano dall'Ideologia tedesca, se non ricordo male. (S.L.L.)


È più facile arrabbiarsi o essere gentili? Più facile arrabbiarsi, naturalmente.
Essere gentili richiede uno sforzo non da poco: bloccare e far decantare le prime emozioni; ricordarsi che siamo impegnate a rispettare chi la pensa diversamente; fare appello alla nostra intelligenza. Quindi, respirare forte e provare a rispondere: con attenzione e con gentilezza. Bisogna riuscire a farlo, per fermare il clima di approssimazione e violenza (solo verbale, per ora) che caratterizza il dibattito pubblico, ed a volte anche quello privato e amicale. Ovunque, perfino negli interventi di alcuni filosofi, insulti e parolacce vengono sdoganate. Ha preso diffusione e cittadinanza anche il “me ne frego”, che per i più anziani tra noi ricorda le grida fasciste. Qualsiasi cosa accada, gli esponenti di governo cercano colpevoli di comodo contro cui suscitare e indirizzare la rabbia: gli immigrati, i cittadini “buonisti”, gli operatori sociali che vivono nella “pacchia”, i funzionari dei ministeri assunti per raccomandazione, gli intellettuali che hanno 500 libri negli scaffali... Ed i francesi e i tedeschi, naturalmente!
Denunce (anche giuste) di episodi di corruzione e gravi carenze sociali vengono mescolate in una narrazione tutta negativa della storia del nostro paese, che ignora conquiste e progressi raggiunti sul piano delle garanzie costituzionali, della libertà delle donne, della protezione sociale, dei diritti civili. La tentazione di rispondere con insulti ad insulti, facendo crescere il clima di divisione ed odio, è forte. Ma dovremmo sottrarcene, e provare a percorrere i sentieri contorti e faticosi dell’esercizio della intelligenza e del confronto.
Vi sono parole oggi abusate, presentate con significati ambigui, che dovremmo portare fuori dalle nebbie della retorica:
POPOLO, invocato come soggetto unitario e compatto, di cui un uomo solo o un piccolo gruppo pretende la rappresentanza esclusiva (come fu col partito fascista); ma il popolo è un larghissimo insieme di persone diverse per genere, interessi ed idee, che hanno diritto ad esprimere rappresentanze differenziate, anche conflittuali, con pari dignità;
CAMBIAMENTO, parola ripetuta in modo quasi sacrale, senza chiare definizioni sociali e storiche, che finora ha significato solo arrembaggio di posti ai vertici delle istituzioni pubbliche; il cambiamento può anche essere regressivo;
SOVRANITÀ, altra parola che andrebbe demistificata.
Se non combattiamo (e vinciamo) la battaglia delle parole, potremo essere travolti. È una battaglia, per cui l’odio non serve. Occorre conoscenza, pazienza e sì, anche gentilezza: che può ben accompagnarsi con la più ferma opposizione. Se la differenza femminile (“e sottolineo se”...) comporta un meno di violenza ed un più di comprensione verso i diversi, un affidamento non alla forza ma alle relazioni, sarebbe forse il momento che questa differenza si manifestasse, nelle forme più libere e diverse (singole, collettive, occasionali...), contribuendo a rendere più civile la vita della società italiana. Opponendo alla violenza, l’ascolto; all’autoritarismo, il pluralismo; al machismo, il femminismo.

13.6.19

Alcuni vocaboli da recuperare e rilanciare (dal "Libro delle parole altrimenti perdute" di Sabrina D'Alessandro)


orripilatore
agg. Che fa drizzare i peli per il ribrezzo e l'orrore

nefario
agg. Malvagio

rabagà
sost. Chi pur di stare al governo tradisce il partito e cambia dall'oggi al domani,

fanfalucco
sost. spargitore di frottole e fandonie

frugipèrda
sost. Chi non è in grado di mettere nulla a frutto

santocchio
sost. Ipocrita e falso devoto

stivaluto
agg. Tronfio e dispotico, che indossa gli stivali

squassapennacchi
sost. Dicesi di individuo militarmente abbigliato che vada pavoneggiandosi, per attirare su di sé gli occhi della moltitudine

mascellone
sost. Che ha grosse mascelle

squisigoso
agg. Strisciante e sgusciante come un serpente

lutìfico
agg. Orrendamente sporco

pirulino
sost. Individuo di scarse doti. Propriamente, pene

Rizzoli, 2011

Barattino - Da "I gerghi della malavita" di Ernesto Ferrero


Truffa classica a danno dei gioielleri: mentre un complice distrae il proprietario con richiesta di informazioni il ladro provvede sveltamente a sostituire il pezzo autentico con uno fasullo. Da baratto, "scambio in natura". Nelle banche, si tratta di sostituire una borsa o un involto pieno di denaro con altro identico, ma pieno di carta straccia. Anche l'argot ha in questa accezione barattin.

Oscar Mondadori 1972 

8.6.19

Lingue, parole, idee (Giacomo Leopardi)


Il posseder più lingue dona una certa maggior facilità e chiarezza di pensare seco stesso, perché noi pensiamo parlando. Ora nessuna lingua ha forse tante parole e modi da corrispondere ed esprimere tutti gl'infiniti particolari del pensiero. Il posseder più lingue e il potere perciò esprimere in una quello che non si può in un'altra, o almeno così acconciamente, o brevemente, o che non ci viene così tosto trovato da esprimere in un'altra lingua, ci dà una maggior facilità di spiegarci seco noi e d'intenderci noi medesimi, applicando la parola all'idea che senza questa applicazione rimarrebbe molto confusa nella nostra mente. Trovata la parola in qualunque lingua, siccome ne sappiamo il significato chiaro e già noto per l'uso altrui, così la nostra idea ne prende chiarezza e stabilità e consistenza e ci rimane ben definita e fissa nella mente, e ben determinata e circoscritta. Cosa ch'io ho provato molte volte, e si vede in questi stessi pensieri scritti a penna corrente, dove ho fissato le mie idee con parole greche francesi latine, secondo che mi rispondevano più precisamente alla cosa, e mi venivano più presto trovate. Perché un'idea senza parola o modo di esprimerla, ci sfugge, o ci erra nel pensiero come indefinita e mal nota a noi medesimi che l'abbiamo concepita. Colla parola prende corpo, e quasi forma visibile, e sensibile, e circoscritta.

Zibaldone, 94-95

29.4.19

Accadde l'anno scorso. L'Accademia della Crusca contro il Sillabo

Il 17 aprile dell'anno scorso il Gruppo Incipit presso l'Accademia della Crusca ha diffuso un comunicato stampa a proposito di uno stravagante testo del Ministero dell'Istruzione: un documento programmatico volto a promuovere l'educazione all'imprenditorialità nelle scuole ribattezzato Sillabo. Come il famigerato “elenco di errori” che contro le moderne libertà formulò Pio IX. (S.L.L.)



Sillabo per l'imprenditorialità 
o sillabario per l'abbandono della lingua italiana?

Firenze, Accademia della Crusca, 17 aprile 2018
Il MIUR (Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca) ha pubblicato lo scorso 14 marzo un documento programmatico volto a promuovere l’educazione all’imprenditorialità nelle scuole statali secondarie di II grado.
Senza pronunciarsi sul merito – che pur si presterebbe a varie considerazioni – il Gruppo Incipit guarda con grande preoccupazione alla lingua con cui tale documento programmatico è stato redatto, tenuto conto della sua importanza all’interno dell’istituzione scolastica.
Il Gruppo Incipit aveva già attirato l’attenzione sulla forte propensione del sistema universitario italiano a impiegare termini ed espressioni del mondo economico-aziendale (cfr. comunicato stampa n. 6 del 17 giugno 2016), ma constata che nel documento in questione tale tendenza ha raggiunto un nuovo livello di intensità: l’adozione di termini ed espressioni anglicizzanti non è più occasionale, imputabile magari a ingenue velleità di “anglocosmesi”, bensì diventa programmatica, organica e assurge a modello su cui improntare la formazione dei giovani italiani.
È infatti sufficiente scorrere il Sillabo per la scuola secondaria di secondo grado per verificare la meccanica applicazione di un sovrabbondante insieme concettuale anglicizzante, non di rado palesemente inutile, a fronte dell’italiano volutamente limitato nelle sue prerogative basilari di lingua intesa quale strumento di comunicazione e di conoscenza. Concretamente, questo pare il messaggio del Sillabo: per imparare a essere imprenditori non occorre saper lavorare in gruppo, bensì conoscere le leggi del team building, non serve progettare, ma occorre conoscere il design thinking, essere esperti in business model canvas e adottare un approccio che sappia sfruttare la open innovation, senza peraltro dimenticare di comunicare le proprie idee con adeguati pitch deck e pitch day.
Più che un’educazione all’imprenditorialità, questo documento sembra promuovere un abbandono sistematico della lingua italiana e delle sue risorse nei programmi formativi delle forze imprenditoriali del futuro. Pare una sorta di contraffazione paradigmatica della cultura e del patrimonio italiano: è così che si vogliono promuovere e valorizzare le eccellenze italiane, il “Made in Italy”?
Proprio in considerazione della gravità del modello linguistico-concettuale offerto dal Sillabo, il Gruppo Incipit, nella presente occasione, rinuncia a proposte di traducenti italiani (del resto sarebbe necessario tradurre l’intero documento), ma rivolge un appello ai responsabili del MIUR, affinché si usi maggiore rispetto nei confronti della lingua e della cultura italiana.
Ricordiamo che il gruppo Incipit si occupa di esaminare e valutare neologismi e forestierismi ‘incipienti’, scelti tra quelli impiegati nel campo della vita civile e sociale, nella fase in cui si affacciano alla lingua italiana, al fine di proporre eventuali sostituenti italiani. Incipit è costituito da Michele Cortelazzo, Paolo D’Achille, Valeria Della Valle, Jean-Luc Egger, Claudio Giovanardi, Claudio Marazzini, Alessio Petralli, Luca Serianni, Annamaria Testa.

dal sito dell'Accademia della Crusca ( http://www.accademiadellacrusca.it )

5.4.19

! Ojetti, punto esclamativo

Ho trovato nella "spremuta di giornali" di Giorgio Dell'Arti questa tirata di Ugo Ojetti sul punto esclamativo. Mi sono convinto che era un punto esclamativo anche lui. (S.L.L.)

Odio questo gran pennacchio su una testa tanto piccola, questa spada di Damocle sospesa su una pulce, questo gran spiedo per un passero, questo palo per impalare il buon senso, questo stuzzicadenti pel trastullo di bocche vuote, questo punteruolo da ciabattini, questa siringa da morfinomani, quest’asta della bestemmia, questo pugnalettaccio dell’enfasi, questa daga dell’iperbole, quest’alabarda della retorica.

2.4.19

Cadere come una pera (Paola Mastrocola)


Ci son cascata come una pera. Mi piace quest’espressione, mi piace l’immagine della pera matura che cade. Lo dico così spesso che non so quante pere ho visto cadere, nel parlare della mia vita.
Però anche le pesche cadono.
E cadono anche le mele, le prugne, le nespole e, ancor più classicamente, le foglie.
Allora perché non diciamo mai: ci sono cascata come una pesca? Perché nel nostro linguaggio, nell’uso comune, nella tradizione dell’espressività popolare, cadono sempre soltanto pere? In questo inizio d’anno politicamente ed economicamente tormentato, dove intellettuali, giornalisti, scienziati, scrittori, attori e studiosi si dedicano a capire perché il Pil non cresce, perché la disoccupazione sale, se usciremo dall’euro e quanto siamo fascisti, io tenterei di dare una risposta al problema delle pere: diciamo così perché un tempo nelle campagne i peri erano gli alberi maggioritari, cioè i contadini piantavano in prevalenza peri? o perché ai contadini piace il formaggio con le pere, dunque in qualche modo è il loro frutto preferito, anche nel linguaggio? o perché le pere, per qualche loro strana fragilità costituzionale, cadono di più rispetto agli altri frutti?
Mi sono rivolta a un mio amico, uno studioso molto serio, il quale dopo averci pensato un po’ ha risposto: perché le pere cadono in piedi. Gli ho chiesto di spiegarsi meglio. Ha detto che la conformazione fisica della pera, il peso maggiore della sua parte posteriore, fa sì che cada in verticale, si appoggi col sedere a terra, per dirla in modo visivamente efficace. Effettivamente la pera cadendo non rotola, o rotola meno. Soprattutto non cade mai a testa in giù (ammesso che la testa sia dove spunta il picciuolo). Quindi è la più adatta ad esprimere l’analogia con l’essere umano che cade, anche lui solitamente di sedere. Poi l’amico scienziato s’è perso in un vortice di similitudini, tra le quali: “Sai, in fondo potremmo dire che la pera è come il gatto, cade sempre giusto”.
E qui mi si è disegnato in mente un gatto che cade da un’altezza considerevole e riesce ad atterrare molleggiando sulle quattro zampe. E riprende a camminare come nulla fosse, con passo elegante, ovviamente felpato.

Il Sole 24 ore, 24 febbraio 2019

27.2.19

Linguistica. La difficile arte del puntar gli scritti (Lorenzo Tomasin)



Quanta attenzione per la punteggiatura! A lungo trascurata dalla tradizione normativa (molte delle grammatiche anche più esigenti le dedicavano solo qualche cenno elusivo e spesso impreciso e contraddittorio), l’arte del puntargli scritti - come la chiamavano già nel Rinascimento i primi, semisconosciuti teorici - è tornata in Italia ad attrarre l’attenzione da più punti di vista. Lo suggerisce l’apparizione in pochi mesi di almeno tre volumi dedicati a temi su cui anche in tempi di diluvio bibliografico si era prodotto finora assai poco. Tre libri molto diversi, per pubblici piuttosto variegati. Il volume di Leonardo G. Luccone, traduttore ed agente letterario (Questione di virgole. Punteggiare rapido e accorto, Laterza), è il tipico rappresentante d’un filone di manuali di scrittura rivolti a un lettore desideroso di trarre esempi esempi edificanti dalla visitazione di modelli narrativi, accompagnato da una sorta di brillante guida turistica; quello di Paola Baratter (Il punto e virgola. Storia e usi di un segno, Carocci - un intero se pur snello volume dedicato tutto al punto e virgola!) fa tesoro di una sapiente esperienza scolastica e di un accurato scrutinio storico per tracciare la parabola vitale di un segno interpuntivo considerato - forse a torto - moribondo («non si può considerare il punto e virgola in via di estinzione»); quello di un gruppo di studio basato in Svizzera e diretto dalla linguista Angela Ferrari Letizia Lalaetal (La punteggiatura italiana contemporanea. Un'analisi comunicativo- testuale, Carocci) è invece la sintesi d’un ampio e solido progetto di ricerca avviato ormai da anni, che ha fatto della punteggiatura italiana contemporanea uno dei sistemi interpuntivi meglio studiati e meglio teoricamente inquadrati tra quelli delle grandi lingue di cultura, che di fatto rispondono a logiche solo in parte comuni.
Il vademecum di Luccone è dei tre il meno scientificamente ferrato, e sembra dialogare, in un tono d’esibita brillantezza, con aspiranti scrittori alle prese con la revisione del loro testo o con copywriter a caccia di una soluzione originale: di fatto, vi è sottesa un’idea della punteggiatura piuttosto convenzionale, se pur esposta con il piglio dell’editor e del creativo più che con lo specillo del linguista. Il viaggio di Baratter nella storia del punto e virgola (che di fatto inizia con Pietro Bembo e con l’idea di conferire un uso ben codificato al segno che nella grafia greca corrisponde al punto interrogativo) passa in rassegna i modi in cui questo elemento per sua natura intermedio - tra il punto e la virgola - è stato descritto dai grammatici del passato, e dei modi in cui l’hanno usato gli autori letterari, soprattutto durante il Novecento. Ma siamo sempre sicuri che l’uso della punteggiatura sia da attribuire a loro e non, come spesso sarà capitato, alle invadenti pratiche degli editor, capaci spesso di rifare la punteggiatura, e non solo quella, a interi volumi di scrittori anche insigni?
Idea centrale degli studi di Ferrari e dei suoi collaboratori - esperti di una branca oggi particolarmente vivace e propositiva, la linguistica testuale - è che la ratio della punteggiatura italiana vada cercata nelle intenzioni comunicative di chi scrive, non tanto o non solo (come molti pensano) nella delimitazione di strutture sintattiche, che pure spesso la orientano, o in istruzioni per la lettura o addirittura per la respirazione. La punteggiatura italiana contemporanea non è un’espressiva nota di regia: essa articola il testo nelle sue unità semantico-testuali, le gerarchizza. Ha insomma una funzione spesso simile a quella di una matita che sottolinei, o d’altra punta che evidenzi.
In questo senso quella italiana funziona abbastanza diversamente da altre interpunzioni, come ad esempio quella tedesca, rimasta legata a un criterio propriamente sintattico che l’italiano ha ormai superato, pur se non abbandonato totalmente: la differenza balza anche all’occhio del profano appena si consideri che in tedesco appunto sono oggi obbligatorie alcune virgole (per esempio quelle poste davanti a vari tipi di frasi subordinate) che non lo sono in italiano, o che in italiano rispondono a logiche diverse. Non occorre essere esperti di linguistica testuale, in effetti, per capire la differenza tra «gli studenti che hanno passato l’esame son contenti» (relativa restrittiva) e «gli studenti, che hanno passato l’esame, son contenti» (relativa appositiva: tutti promossi!). Come è noto, anche solo una virgola, di cui il gruppo di ricerca svizzero osserva un complessivo «sovra-uso» nell’italiano contemporaneo, può bastare a mutare il senso di un testo. Meglio dunque farne buon uso. Punto.

Il Sole 24 Ore, 30 settembre 2018

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