Bagheria, Corso Umberto |
La nonna ci tirava su ad acqua fresca e tre gocce di zammù, l’anice che la ditta Tutone imbottigliava ininterrottamente dal 1813, da quando Bolivar s’era preso Caracas e tutto il Venezuela, dove il nonno aveva due fratelli e tre cugini che erano andati a cercar fortuna lì, sognando di divenir ricchi tanto da farsi il pediluvio e il bidè col petrolio.
Quando la fame rummuliava negli stomaci il beccuccio dell’oliera d’acciaio tracciava generose scie d’oro sul pane appena scaldato sulla piastra della cucina economica che divorava ciocchi d’ulivo e di limone. Dopo la merenda c’era il riposino obbligatorio che durava sino all’ora di Dallas da vedere in ossequioso silenzio che l’alternativa era la mitragliata di sculacciate col battipanni di canapa intrecciata.
Gli anni dello zammù e di Dallas sfumano tra quello che veramente ricordiamo e quello che le nostre madri ci hanno raccontato tra il dolce e il caffè in occasione delle sempre più rare rimpatriate
familiari. Perché siamo andati tutti a cercar lavoro in mezzo al nulla, in quei posti dove la nebbia ti si appiccica addosso e non ti lascia più sorridere.
La casa del Corso la sentivamo più nostra delle rispettive abitazioni, il collante di tutto era la nonna che si faceva il tuppo e poi incominciava la sua giornata inzuppando e facendoci inzuppare gli acitusi frolsi in tazzoni di latte intero che gli portava un vero vaccaro, gli altri lo fecero quando ci fu Chernobyl e l’incubo radioattivo, la nonna l’aveva sempre fatto e sempre lo fece sino a quando chiuse gli occhi all’Ospedale Civico.
Ricordavamo ancora ogni nicchia: ecco la scala da cui era ruzzolato per chiamare la nonna quando arrivò la notizia che il nonno era morto nell’officina sotto un’alfetta cercando inutilmente di avvitare l’ultimo bullone della sua vita; e poi su, sino alla terrazza in cui la nonna teneva le galline a cui tirava il collo con le lacrime agli occhi per fare il brodo, quando erano troppo vecchie per le uova; ecco poi la poltrona di pelle in cui la nonna cuciva col ditale smaltato sul medio, punto dopo punto; e la zia Caterina che s’asciuga i capelli nella terrazza in pieno sole, salutando gli amici che vede passare in strada negli abiti buoni della festa. Le caramelle alla carrubba erano sempre lì, sulla mensola più alta dove la nonna teneva la moka e lo zucchero di canna. La pendola del soggiorno segnava le ore con costanza e dal finestrone la luna sembrava una caciotta gonfia e madida, pronta per essere affettata e mangiata col pane buono di paese.
L’ultima immagine è di lei sulla sedie a rotelle una domenica di una ventina d’anni fa, con i capelli per la prima volta sciolti, ancora più grigi sotto il neon e lunghi sino alle spalle, con le ciabatte rosse come fichi d’india appena sbucciati.
Si mangiò ammucciune nella sala d’aspetto una sfincia di San Giuseppe, se la mangiò di gusto sapendo che era davvero l’ultima della sua vita.
Al funerale ci andarono solo i cugini grandi, noi eravamo troppo piccoli per capire che ci portavano via la nonna per sempre. Restò la bisnonna e il suo Alzheimer a chiamar tutti indistintamente con il nome della figlia perduta.
Nessuno ebbe il coraggio di dirlo alla bisnonna e lei, che aveva già seppellito un marito e un fratello, ci aiutò chiudendosi in quel mondo tutto suo e parlò per il resto della vita come un oracolo, piano piano come le foglie della vite nel vento. Chiamava e aspettava i suoi cari ogni sera sull’uscio, sino a quando la zia le diceva che avevano appena chiamato e che restavano a Palermo dalla zia Ninicchia. Quando ci vedeva piangere diceva sempre che solo alla morti non c’è rimedio. E giù lacrimoni peggio di prima. Sapevamo bene che uno da solo non è buono manco per mangiare e così passavamo ancora più tempo assieme per vincere quel lutto che si masticò la nostra infanzia e tutto quello di buono che c’era stato nella casa del Corso.
dalla rivista on line “Pupi di Zuccaro – contro un inarrestabile svanire”
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