Francesca Caliolo è la moglie di Antonino, un operaio dell'Ilva di Taranto morto il 18 aprile 2006 in un incidente sul lavoro. Nel suo racconto Francesca ridà voce al suo compagno che non c'è più e fa emergere le storie di tante donne tarantine, la sua come quella di Vita, Patrizia e tante altre - mamme, mogli, compagne o sorelle - che hanno elaborato il lutto e trasformato il dolore in rabbia, ribellione e lotta nelle tante iniziative e nei processi per chiedere giustizia. “il manifesto” pubblicò il racconto nel 2008, ben prima che pronunciamenti giudiziari e cronache puntuali fornissero all’intera opinione pubblica nazionale le certezze e i dati di un massacro, che continua e che ha avuto molte complicità. (S.L.L.)
Il giorno in cui misi piede per la prima volta nel cantiere Ilva di Taranto fui preso dallo sconforto, come mai mi era accaduto nella mia lunga esperienza lavorativa. Difficile arrivare alla fine di quella giornata. Trovare quel lavoro non era stato facile: dopo mesi di mobilità e decine di domande un contratto a due mesi mi aveva dato respiro. Conoscevo già il cantiere per averci lavorato in trasferta qualche anno prima. La sensazione che avevo ora, però, era di definitiva appartenenza a quel luogo e questo mi infondeva pessimismo per il futuro. Dovevo avere un'espressione molto avvilita se, tornato a casa, mia moglie mi abbracciò forte, dicendosi sicura che presto avrei trovato qualcosa di meglio. Invece restai in quella ditta per due anni, passai in un'altra come caposquadra per altri due, per poi tornare alla prima divenendo vice-capocantiere circa tre anni dopo. Questo scatto di livello mi gratificò, gravandomi al tempo stesso di una grande responsabilità a causa di lavori molto impegnativi che eravamo chiamati a fare.
Ciò che restava immutato era il paesaggio. Contro un cielo velato dai fumi, si stagliavano bizzarre architetture: come cattedrali futuriste consacrate alla grande economia, svettavano numerose ciminiere attorniate da condutture metalliche che percorrevano in lungo e in largo la città-cantiere, trasportando enormi quantità di gas, per arrivare ai potenti altoforni capaci di ridurre i metalli in lava incandescente.
A fumi e vapori si aggiungeva il polverino, come lo chiamavano qui, che si sollevava dalle nere colline di carbone dei parchi minerali, in una sorta di moderna rivisitazione dell'Inferno dantesco. Di tanto in tanto, paradossalmente, il tutto era avvolto dalle note dell'Inno alla gioia di Beethoven, diffuse dagli altoparlanti per sottolineare il momento culmine della «colata». A questo scenario pian piano non ci feci più caso, se non per il fatto che gradualmente contribuiva ad aggravare la mia allergia.
La prima estate che affrontai in Ilva fu una delle più calde in assoluto, toccò i 40 gradi e a noi toccò ristrutturare un altoforno ancora caldo situato vicino a un altro in funzione, a 1.800 gradi. In seguito bisognò revisionare dei silos contenenti residui oleosi che impregnavano le nostre tute rendendole inutilizzabili; condutture buie e fuligginose che ci rendevano irriconoscibili come minatori a fine turno; strutture poste ad altezze irraggiungibili da chi non avesse una qualche capacità funambolica. Difficile raccontare questo stato di cose a chi non conosceva quell'ambiente.
E infatti non lo raccontavo. Non lo raccontavo ai conoscenti, non lo raccontavo ai parenti. Non lo raccontavo agli storici amici insieme ai quali avevo condiviso battaglie sociali: col tempo le nostre vite erano cambiate, dal punto di vista del lavoro però, la mia vita era cambiata più delle loro. Lavoratori per lo più «di concetto», li ritenevo teorici idealisti, lontani anni luce dal mondo cui accennavo loro con battute ironiche. Mia moglie era l'unica a conoscere nei dettagli la mia realtà lavorativa. Quasi ogni mattina mi chiamava per un rapido saluto che mi rincuorava e poi, una volta a casa, mi martellava di domande per conoscere tutto della mia giornata. Benché restio a raccontare aspetti poco rassicuranti per lei, mi ritrovavo poi a farle un resoconto completo anche di dettagli tecnici. Questo suo modo di essermi vicina era parte integrante di una condivisione totale della nostra vita, e aveva in effetti il potere di alleviare tante giornate difficili, così come mi aiutava il bellissimo, profondo legame con i nostri figli.
Ma anche al lavoro mi aiutavano i contatti umani. Ci tenevo a stabilire rapporti di amicizia prima che professionali; una risata, una battuta, qualche aneddoto ci faceva superare le giornate più pesanti. Avevo buoni rapporti con tutti o quasi e avevo rispetto per i superiori come per l'ultimo arrivato: in passato avevo subito troppe vessazioni solo per essermi opposto a delle ingiustizie da parte di capi tesi ad affermare il proprio ruolo, per non nutrire rispetto per chi avevo di fronte. Oltretutto lavoravo quasi sempre al fianco dei miei operai per condividere rischi e fatica. Era nel periodo delle «fermate», vale a dire il blocco produttivo di un settore del cantiere che permetteva a noi di intervenire, che divenivo duro ed esigente, preoccupato che tutto andasse per il meglio.
Ad ogni modo, odiavo quel lavoro. Non lo lasciavo perché volevo mettere un po' di risparmi da parte per avviare una attività indipendente, magari nella ristorazione. Cosa non facile con una famiglia monoreddito e due figli in crescita. D'altro canto, per quanto ancora avrei potuto svolgere un lavoro così usurante con due vertebre schiacciate, un menisco lesionato e una tendinite al braccio destro? E comunque sognavo un lavoro che mi lasciasse più tempo per vivere insieme alla mia famiglia e programmare finalmente delle ferie in estate, seguire il calcio, la politica, fare passeggiate senza sentirmi stanco e stressato.
E se la stanchezza era dovuta alla manualità del lavoro, lo stress derivava dal carico di responsabilità per l'esecuzione tecnica secondo precisi parametri e tempi sempre troppo limitati, dettati da gare al ribasso, che ci imponevano turni impossibili, arrivando a volte a lavorare per 16 e addirittura 24 ore di seguito! Nel contempo bisognava fare attenzione che nessuno si facesse male e, a dire il vero, la frequenza degli incidenti in tutta l'Ilva non lasciava ben sperare.
A fine giornata pareva un bollettino di guerra, con incidenti di tutti i tipi: ustioni, intossicazioni, fratture e, qualche volta si moriva anche. Le morti ci lasciavano attoniti a pensare all'esagerato tributo da pagare in cambio di un lavoro di per sé duro e alienante. Eroi, martiri del lavoro? Nessuna medaglia, non funerali di stato. E credo che nessuno di quegli uomini avesse voglia di immolarsi a un dio che chiedeva sacrifici in nome di interessi economici e non si prodigava ad attuare migliori misure di sicurezza, definendo «morti fisiologiche» quelle 2-3 che in media si verificavano per anno in un cantiere dove operavano circa 20.000 persone. Ci sentivamo impotenti, rassegnate formiche al cospetto di un colosso; protestavamo e poi, dovendo continuare a lavorare, cercavamo di scongiurare la morte cercando di non pensarci. D'altronde nella nostra ditta non era mai morto nessuno.
Sono passati ormai quasi nove anni dal mio ingresso in Ilva e sono ancora qui, alle prese con un'ennesima «fermata» che si presenta particolarmente complicata e che mi ha caricato di tensione già da qualche settimana. Neppure questa pausa pasquale è servita a ricaricarmi, neppure la giornata di ieri passata in campagna respirando aria pura, cosa non comune per me. Ho avuto da ridire con mia moglie anche prima di andare a dormire, col pretesto che non aveva sistemato bene la piega del lenzuolo. Lei ci è rimasta male perché era stanca, ma io ero nervoso e intrattabile e non ci siamo neppure dati la buonanotte. Più tardi appena avrò un po' di tempo la chiamerò per scusarmi, tanto ormai lo sa che se non termina la fermata non torno sereno. E questo lavoro ci dà già delle noie, un'operazione che non va per il verso giusto, ci tocca smontare e rimontare.
Siamo a venti metri da terra per sostituire delle valvole di un enorme tubo che è stato svuotato, così ci hanno assicurato, del gas che trasportava.
Indossiamo maschere collegate a bombole d'aria perché potrebbero esserci residui di gas, non è la prima volta che torno a casa con nausea e mal di testa da scoppiare. E infatti verso le dieci ho soccorso un ragazzo che si è sentito male. Questo gas è inodore e insapore, perciò più insidioso; un paio di noi hanno il rilevatore ma ormai è certo che da qualche parte c'è una perdita, comincio ad avere mal di testa. Comunque noi siamo abituati ad operare così, né la ditta né l'Ilva si possono permettere di bloccare i lavori ogni volta che qualcosa non va, non gli conviene. A noi scegliere poi se ci conviene rischiare o non lavorare più. Meno male almeno che i turni ora sono regolari, in fondo non è la prima volta che respiro questo maledetto gas, mi dà nausea, vertigini, mal di testa, ma una volta a casa mi riprendo, devo resistere fino ad allora.
Intanto il cellulare continua a squillare, sono quelli dell'altra squadra ed io per rispondere e richiamarli devo togliere la maschera, non posso ogni volta scavalcare questo tubo che ha 3 metri di diametro per raggiungere la postazione di sicurezza, perderei troppo tempo. Anche la scala di accesso è dall'altra parte, così mi allontano del massimo che mi è consentito. Stiamo lavorando come forsennati, vorrei che Gabriele fosse qui e ci vedesse, capirebbe perché insisto tanto sul fatto che studi; ultimamente sono stato anche un po' duro con lui, ma non vorrei mai che si trovasse costretto un giorno a fare questo. Ora non ce la faccio proprio più, mi sento mancare le forze.
Mi allontano verso l'ufficio, vorrei chiamare Franca ma si accorgerebbe che qualcosa non va, non voglio preoccuparla. Nella mente mi scorrono delle immagini, mi rivedo ragazzino a bottega dal fabbro, durante le vacanze estive, mentre i miei amici giocano nel cortile dell'oratorio vicino. Ma io ho perso mio padre a nove mesi e son dovuto crescere in fretta. Mia madre, contadina, ha dovuto tirare su cinque figli da sola. Con un diploma professionale, non ho trovato di meglio da fare che il muratore, stringendo i denti per la fatica eccessiva per un fisico esile come il mio. Qualche anno dopo sono diventato un bravo venditore di macchinari per falegnameria, con i cui proventi ho potuto costruire la mia casa. Dopo nove anni il mercato ristagna, torno così alla condizione di operaio stavolta metalmeccanico, nel Petrolchimico di Brindisi. Dopo altri nove anni la ditta ci impone la condizione di trasfertisti; non ce la faccio ad allontanarmi dalla mia famiglia e rifiuto, ritrovandomi così in mobilità. Fino ad oggi ho trascorso quasi nove anni qui in Ilva e chissà, forse la mia vita avrà una nuova svolta.
Non cerco di dare un senso a questa mia vita di fatica e sacrifici. Il senso è già tutto negli affetti. D'altronde la felicità non è una condizione continua, se non nelle fiabe. Noi dobbiamo accontentarci delle piccole cose e vivere intensamente i momenti di felicità che ci capitano, come dice mia moglie, che sa restituirmi la gioia di vivere. Ora devo tornare al lavoro, non mi sento ancora bene. Qualcuno mi sconsiglia di risalire, non ho un bell'aspetto, dice. Non posso, siamo una squadra e io ne sono anche responsabile. Infatti i problemi non sono ancora risolti; insistiamo, ricominciano le telefonate. Cambia il turno, mi sollecitano a lasciare ad altri il completamento del lavoro. Non posso, ci sono quasi riuscito, è un lavoro pericoloso, meglio completarlo. Stasera a casa voglio abbracciare Franca, Gabriele e Roberta, dire loro quanto li amo, proporgli di fare una crociera, è tanto che ci penso e poi voglio cambiare lavoro, non ce la faccio più, sono stanco, stanco, così stanco che all'improvviso ho voglia di dormire, mi si chiudono gli occhi, squilla il cellulare, dormo.
Amore mio, è passato tanto tempo da quando non ci sei più. Quante volte mi sono chiesta se non sentivi lo squillo della mia chiamata, se proprio in quel momento cadevi, se pensavi a noi.
Di quel giorno posso ricordare tutto, posso anche rivivere lo straziante dolore di una realtà dura da accettare, così dura da far crescere in un attimo i nostri ragazzi, proiettati improvvisamente davanti alla morte, quella del loro adorato papà. Voglio credere che quel giorno il Signore ti abbia fatto cadere tra le sue braccia, per portarti a vivere una felicità mai provata prima. Voglio credere che tu sia qui tra noi, che continui a proteggerci col tuo amore e la tua tenerezza. Dev'essere così, altrimenti non saprei spiegarmi perché continuo ad amarti tanto e ad avere la forza di vivere senza di te.
“il manifesto”, 30 dicembre 2008
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