Nacque nel 1812: proprio
quando spalanca i suoi occhi sul mondo, il mondo si rabbuia, si
spegne la fiamma ardente che minacciava di infiammare l’ormai
fatiscente dimora europea. Napoleone viene sconfitto dalla fanteria
inglese a Waterloo, e l’Inghilterra assiste alla definitiva resa
del suo nemico dichiarato, privato del potere e relegato su un’isola
remota. Dickens non vide tutto questo, non vide come la fiamma del
mondo, quel vivo bagliore della storia, viaggiò da un’estremità
all’altra dell’Europa: i suoi occhi hanno di fronte la sola
nebbia inglese. La sua giovinezza non ha eroi, perché essi vivono
ormai nel passato.
Alcuni singoli individui
non lo accettano, vogliono a tutti i costi e con coraggio far
retrocedere la ruota del tempo che scorre inesorabile, restituire al
mondo lo slancio impetuoso del passato; ma l’Inghilterra ambisce
alla pace e li ostacola. Il rifugio per questi uomini è nel
Romanticismo, nei suoi angoli segreti; essi tentano di riattizzare la
fiamma, di risvegliare le piccole scintille rimaste, ma il corso del
destino non si può dirigere a proprio piacimento: Shelley annega nel
Tirreno, Lord Byron muore per le conseguenze di una febbre reumatica
a Missolunghi: è un tempo che non premia le imprese più ardite.
Il mondo è color cenere.
L’Inghilterra consuma comodamente il bottino ancora fresco; il
borghese e il mercante regnano sovrani e si stiracchiano sul trono
come fosse un divano. L’Inghilterra digerisce. Di conseguenza, per
andare incontro al gusto dell’epoca l’arte doveva essere
digestiva, non doveva urtare, esaltare, scuotere, ma solo accarezzare
e sfiorare, doveva essere sentimentale, mai tragica.
Non c’era spazio per il
fremito che trafigge il petto come un lampo, che mozza il respiro e
gela il sangue; tutto questo era fin troppo noto per via delle
notizie che giungevano dalla Francia e dalla Russia, per cui ora si
desiderava solo un leggero brivido, un blando intrattenimento. La
gente dell’epoca voleva un’arte pacata, dei libri da sfogliare
piacevolmente al calore di un caminetto, mentre fuori infuriava un
temporale; libri che allo stesso modo innocentemente guizzassero
crepitando di fiammelle troppo piccole per incendiare; un’arte
capace di scaldare il cuore come il tè, ma che non lo inebriasse col
suo ardore.
I vincitori di allora
erano diventati così cauti e timorosi da voler conservare solo i
traguardi raggiunti, e non osare più nulla, non cambiare niente.
Avevano paura persino della profondità che i propri sentimenti erano
in grado di raggiungere. Sia nei romanzi che nella vita desideravano
trovare passioni temperate e piacevoli, non estasi sconcertanti, ma
sentimenti quieti e normali. La felicità per gli inglesi dell’epoca
consisteva nella comodità, l’estetica nella misura, la sensualità
nella pruderie, il sentimento nazionale nella lealtà, l’amore
nel matrimonio. I valori della vita diventano esangui. L’Inghilterra
è appagata e non vuole cambiamenti di sorta. Un’arte che ambisce
al successo in un paese così sazio deve essere a suo modo appagata,
deve elogiare ciò che è già acquisito e non porsi al di sopra di
esso. E questo desiderio di un’arte comoda, educata e digestiva
trova il suo genio come una volta l’Inghilterra elisabettiana aveva
trovato il suo Shakespeare. Dickens incarna il bisogno artistico
dell’Inghilterra dell’epoca. L’essere l’uomo giusto al
momento giusto gli procurò la gloria, ma l’essere stato soggiogato
da questo bisogno costituì la sua tragedia. La sua arte è infarcita
della morale ipocrita di un’Inghilterra sazia e pigra, e se
all’interno della sua opera non regnasse una forza poetica così
grande, se il suo humour brillante e policromo non coprisse la reale
mancanza di tonalità dei sentimenti, egli rimarrebbe relegato al
mondo inglese e lascerebbe noi assolutamente indifferenti, come del
resto accade per tutti quei romanzi inglesi ben scritti ma per noi
miseri che circolano oggi. Solo quando si detesta con tutta l’anima
la stupida ipocrisia della cultura vittoriana si può valutare
giustamente il genio di un artista che ha trasformato la più
insignificante delle vite in poesia.
Dickens non si è mai
opposto apertamente a quest’Inghilterra, anzi; ma nel profondo,
forse inconsciamente, la sua era la lotta dell’artista contro
l’uomo medio inglese. Inizialmente si muoveva con passo deciso e
sicuro, ma poi, sul terreno sabbioso, un po’ duro e un po’
cedevole della sua epoca, perse parte delle sue forze e finì per
calcare sempre più spesso le comode orme della tradizione. Dickens
fu sopraffatto dal suo tempo, e spesso tendo nella mia immaginazione
ad associare il suo destino a quello di Gulliver presso i
Lillipuziani. Mentre il gigante dorme, questi uomini minuscoli lo
immobilizzano a terra con migliaia di corde, e quando si sveglia lo
tengono legato e non lo liberano prima che si sia arreso promettendo
di rispettare le leggi del paese. Allo stesso modo la tradizione
inglese ingabbiò e tenne chiuso all’interno delle sue limitazioni
Dickens, quando ancora non era noto: con i successi essa lo ancorò
al suolo inglese, procurandogli la gloria ma allo stesso tempo
legandogli le mani.
Da Dickens,
elliot edizioni, 2013 – Trad. Anna Vivaci
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