6.10.18

Sull'Italia corre voce... La Discoteca di Stato da De Angelis a Rossetti (Daniela Pasti)


La voce della memoria è un bel titolo kunderiano per raccontare la storia di un luogo dove realmente sono conservate tutte le voci del nostro passato. Questo luogo magico dove ancora parlano il maresciallo Cadorna e il generale Badoglio è la Discoteca di Stato di cui ora Roberto Rossetti, che ne è stato direttore dal 1980 al 1989, rievoca le complesse vicende. Il volume, stampato dai fratelli Palombi editori, sarà presentato il 18 maggio al Salone di Torino cui il ministero dei Beni culturali partecipa con uno stand interamente dedicato ai suoni e alla musica.

"Approvo e mi compiaccio", disse il Duce
La prima idea di collezionare le voci dei grandi uomini, salvandole per la storia, venne nel 1924 a Rodolfo De Angelis, lo chansonnier futurista amico di Marinetti e di Prampolini con i quali aveva fondato il Teatro della sorpresa. Si trattava di una compagnia che ovunque si esibisse suscitava accoglienze irose e gli assordanti clamori della platea per le sue provocazioni. Nell' impresa della discoteca, però, De Angelis lasciò da parte il suo lato scanzonato e rissoso, e puntò apertamente sul tono celebrativo. Cadorna recita il bollettino di guerra del 7 novembre del 1917, sulla sconfitta di Caporetto, dando alla sua voce, dopo sette anni dall'avvenimento, una vibrazione patetica: “Con indicibile dolore, per la suprema salvezza dell'esercito e della nazione, abbiamo dovuto abbandonare un lembo del sacro suolo della Patria bagnato dal sangue glorificato dal più puro eroismo dei soldati d' Italia”. Paolo Thaon de Revel legge con virile slancio e nobiltà d'accenti, secondo il racconto dello stesso De Angelis, Il bollettino della vittoria navale. Armando Diaz proclama il Bollettino della vittoria e Badoglio ne è leggermente seccato: “Peccato! esclama il suo segretario quando gli riferiscono del messaggio di Diaz. Sarebbe stato bello se l'avesse letto l'autore, alludendo allo stesso Badoglio che aveva collaborato alla stesura del bollettino”. Mussolini invece rifiutò sempre, per un suo scaramantico motivo, di registrare la propria voce. “C'è tempo” faceva rispondere a tutte le richieste.
De Angelis raccontò i suoi incontri con il Duce: “In abito presidenziale, cioè pantaloni grigi a righe e ghette bianche, Mussolini sedeva dietro un tavolo del tutto sgombro di carte, un solo documento davanti a sé, che stava esaminando. Marinetti mi aveva avvertito che in quel salone non c'era dove sedersi e che la distanza da percorrere per arrivare al tavolo presidenziale era considerevole. Il dittatore tenne la testa bassa finché non fummo a metà strada, poi la levò di scatto e tese la mano, prima a Marinetti poi a me dicendomi: 'Venga avanti con coraggio' (in quei giorni un giornale parigino aveva parlato dell' orco Mussolini). Da Marinetti volle delucidazioni: 'Spiegami bene di che si tratta'. Poi, rivolgendosi verso la mia parte domandò: 'Queste voci si potranno riudire nei secoli? Si potranno conservare come si conservano i documenti, i libri le carte?' 'Eccellenza sì.' 'Approvo e mi compiaccio'.
In seguito a una analoga richiesta dell' etnologo Gavino Gabriel, che per conto suo stava organizzando un archivio fonografico, Mussolini si sottopose a un provino, registrando al fonografo per due volte la frase L'ottobre romano è un mese diletto agli dei e la cosa finì lì. La Discoteca di Stato nacque infine nel 1928 inglobando le registrazioni fatte da De Angelis, e Mussolini vi vide subito uno strumento per lusingare il mondo della cultura o per punirlo. Infatti si riservò ogni anno la designazione dei personaggi degni di entrare in questo Pantheon dei suoni. È così che, mentre si registravano i burocrati del regime, venivano escluse le voci di personaggi come Benedetto Croce e Gabriele D' Annunzio e le esecuzioni di Toscanini. Il Duce finì per dare una tale importanza a questo archivio sonoro da volerlo trasferire al Nord nel periodo della Repubblica Sociale, un trasferimento che costò la perdita di materiale prezioso. Fino al 1942, dice Rossetti, la Discoteca agì seguendo indicazioni che venivano dall'alto. Con la caduta del fascismo le cose cambiarono, ma solo fino ad un certo punto. Negli anni Cinquanta un direttore che avesse registrato Togliatti o Nenni avrebbe rischiato il licenziamento. Le loro voci sono state poi recuperate fortunosamente dagli spezzoni di discorsi ripresi dalla Rai. In realtà, come traspare da tutta la storia della Discoteca, il potere politico ha sempre visto in questo istituto uno strumento utile ai propri fini propagandistici, mentre i direttori più intraprendenti hanno cercato, spesso inutilmente, di guadagnare al loro ente una maggiore autonomia. La selezione è avvenuta non solo nella raccolta delle voci storiche, una raccolta che poi per quattordici anni si è interrotta del tutto, ma anche in campo musicale che pure costituisce il settore più ricco e completo dell'istituto.

Nel 1903 incisero un papa: Leone XIII
A patirne è stata soprattutto la musica leggera: canzonette che hanno segnato un'epoca sono state considerate indegne di passare ai posteri e gli stessi Beatles sono stati recuperati sul mercato dell'antiquariato. Con questi limiti, che il libro onestamente rileva, e ai quali i direttori più recenti hanno cercato di rimediare, facendo soprattutto ricorso agli archivi della Rai e ai fondi privati, la Discoteca di Stato è per sempre depositaria di un affascinante e prezioso patrimonio culturale ed è un importante strumento per le ricerche storiche. Gli storici, si sa, sono riluttanti a utilizzare fonti orali, ma le interviste ai protagonisti registrate dalla Discoteca, soprattutto nell'ultimo decennio, hanno avuto un ambito riconoscimento di attendibilità proprio da un austero consesso di accademici in un convegno di quattro anni fa. Fra gli intervistati, a parziale riparazione di tante censure, c'è anche un personaggio politicamente scomodo come Giancarlo Pajetta. La Discoteca, come tutti gli archivi che si rispettino, conserva inoltre documenti ancora misteriosi sotto forma di cilindri di cera che racchiudono probabilmente i suoni più antichi: più della voce di Leone XIII incisa nel 1903, più di quella di Giuseppe Giacosa del 1900. Ma che cosa contengano non si può sapere perché con l'ascolto la matrice andrebbe persa per sempre.

“la Repubblica”, 5 maggio 1990

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