3.10.18

“Distesa estate e piccole vacanze”. Intervista a Alberto Arbasino (Mirella Serri)


Alberto Arbasino negli anni 60

Si festeggiano cinquantanni esatti da Le piccole vacanze. Questa prima raccolta di racconti di Alberto Arbasino oggi torna in libreria con i suoi decenni molto ben portati. Ha l'aria sbarazzina, da «fresco di stampa», questo libretto di Adelphi con la copertina verde mare e le sue storie che, con irriverente ironia, ricostruiscono un paesaggio, quello dei primi anni del dopoguerra, senza nessuna concessione ai toni accorati del neorealismo della fine del conflitto. «Ho scritto queste novelle e avvertivo che il racconto di guerra parmigiana aveva esaurito tutte le sue chances», spiega A. A., così registra il citofono dell'attico romano dello scrittore. Qui, fra tabacchiere del Settecento, quadri e ceramiche vittoriane, gli scaffali e tavolini sono occupati da tanti tomi anche di antiquariato. «All'epoca non mi volgevo a guardare il triste lascito del conflitto mondiale. Certo, anche nella mia famiglia c'era chi era stato fatto prigioniero o era morto al fronte. Ma era ancora troppo vicino il ricordo delle sfilate sotto il balconcino di Piazza Venezia delle vedove di guerra, tutte vestite di nero con gli orfani al fianco con il braccio teso nel saluto romano che gridavano: “eia eia ala là”. Allora meglio evitare l'eccesso di lamenti per i caduti».
E così ne Le piccole vacanze ci sono adolescenti che si godono una «jeunesse dorée» pure sotto i bombardamenti, imparano le lingue e fanno lunghe gite in bicicletta. E poi eccoli cresciutelli e malandrini come Giorgio, ragazzo «middle twenties» da «one night stand» - di quelli che non sopportano di stare sotto le lenzuola due volte con la stessa persona - che corteggia il ventenne Luciano, «solido-tenero» con pelle vellutata e movimenti armoniosi. In una narrativa assolutamente unica per quegli anni, questi disinvolti ragazzi di provincia, ma mai provinciali, proseguiranno sulla strada di «studi universitari fatti male, fanciullone scatenate o svampite, droghine fatte in casa». Con questa irrequieta gioventù arrivava così sulla scena letteraria il nipotino di Carlo Dossi e di Carlo Emilio Gadda, futuro autore di Fratelli d’Italia, creatore di nuovi linguaggi e nuovi miti, prosecutore di una feconda linea lombarda della letteratura italiana. L'opera prima di Arbasino era fortemente caldeggiata da Italo Calvino che lo volle nei Coralli einaudiani accompagnato da questa riflessione: «Non si può mettere in una collana per debuttanti, ha già ventisette anni».
Ma qual era stato il nutrimento intellettuale del ragazzo di Voghera fino all'estate del '55, quando aveva terminato di scrivere questi racconti? «Innanzitutto tanta poesia. Ecco un assaggio: “Distesa estate,/ stagione dei densi climi/ dei grandi mattini”, recitava l'incipit di una lirica, all'epoca notissima, di Vincenzo Cardarelli», ricorda Arbasino. «I dialoghi derivavano dal Portrait of Lady dell'amato Eliot e poi da Wystan Hugh Auden e Paul Valéry».
Se per i colori e i «toni» del paesaggio il giovane Arbasino si rifaceva a poeti come Montale e Ungaretti, il metodo di composizione lo aveva tratto dalla «ricetta» suggerita dal grande critico Marcel Raymond. Quest'ultimo in Da Baudelaire al surrealismo si era occupato dell'enfant gàté della cultura francese, Raymond Radiguet. «Il segreto di Radiguet era di “usar pochi colori e unire l'eleganza al libertinaggio”». E di libertinaggio Arbasino - sul modello del discolaccio geniale Radiguet, che a quindici anni abbandonò definitivamente la scuola, intraprese una vita bohémienne ricca di amori, primo tra tutti quello con il suo tutore spirituale e seduttore Jean Cocteau - ne racconterà abbondantemente, a partire da Le piccole vacanze, per proseguire con l'Anonimo lombardo, con Super-Eliogabalo e così via.
Adolescente, Arbasino era sfollato a la Rivetta, vicino a Casteggio. Nell'Oltrepò Pavese le serate punteggiate dal rombo degli aerei in volo, pronti a colpire senza mira «chirurgica», erano lunghe. Di giorno, le strade erano infide e ghiacciate, meglio trascorrere il tempo leggendo. Cosa in particolare? «C'erano le varie collane di classici, dalla Corona di Bompiani all'Universale di Einaudi alla Medusa di Mondadori. Mi cimentavo con Ernst Hoffmann e con Jean Paul Richter, Ernst Junger, Ludwig von Arnim, Friedrich Holderlin, Heinrich von Kleist, Nicolaj Leskov, Somerset Maugham. E poi c'erano tante biblioteche a cui attingere, da quelle delle case dei miei compagni di scuola a quella del medico che mi controllava le tonsille. Il mio dottore era fratello di Franco Antonicelli, che aveva tra l'altro dato vita alla "Biblioteca Europea" dell'editore Frassinelli e in sala d'attesa invece di qualche rotocalco si sfogliava Kaflka e Eugene O'Neill».
Insomma è proprio vero quello che Arbasino ha poi raccontato in Fratelli d’Italia: «L'ultima generazione che sul serio a vent'anni aveva lu tous les livres: uno al giorno, e magari due o tre. Interamente, normalmente, anche divertendosi. Facendolo pesare, mai».
Letture attuali ma degne di stare sullo scaffale a fianco di quelle dei dorati vent'anni? «Non ho dubbi, lo splendido Ravel di Jean Echenoz, tradotto in maniera eccellente da Giorgio Pinotti per Adelphi. Ne è protagonista Maurice Ravel. Personaggio chicchissimo, un vero dandy del Novecento, Ravel riceve da Paul Wittgenstein, fratello del filosofo Ludwig, che ha perso il braccio destro in guerra, la commissione di un Concerto per sola mano sinistra. Da qui prende avvio un conflitto, una sfida tra Ravel, che si cimenta in una partitura non eccessivamente difficile, e l'orgoglioso Wittgenstein che, al momento dell'esecuzione, propone come un simbolico schiaffo all'amico, una musica piena di virtuosismi, di trilli, difficilissima. Una storia veramente attraente che oscilla tra il nouveau roman e il minimalismo più recente, tra suggestione della trama e indagine del carattere». Ma quando si ha a che fare con Arbasino, magnifico snob, le sorprese certo non mancano: lo scrittore si cimenta, per diletto, con un monumentale Paolo Giovio, Elogi degli uomini illustri (Einaudi) il più completo who's who del mondo medievale e rinascimentale. «Giovio fu sicuramente uno degli uomini più spiritosi e brillanti del suo secolo, malizioso, a volte perfido, mai agiografico, capace di tracciare dei magnifici ritratti. Nella sua leggendaria villa sul lago di Como, aveva allestito un museo privato con dipinti di grandissimi artisti e vi ospitava i personaggi più importanti dell'epoca, come Carlo V. Collegati alla sua famosa galleria di ritratti nascono gli Elogia ovvero il progetto di un pantheon dei grandi uomini, da Dante a Boccaccio, dal Saladino a Carlo d'Angiò, dal Poliziano all'Ariosto, da Galeazzo Sforza a Cesare Borgia. L'unica cosa che mi dispiace è che non sia stato riportato il testo latino a fronte come in una vecchia edizione dello stesso libro pubblicata da Sellerio. E poi ho con me altri libri che uso come repertori. Un altro esempio? A cura di Margaret Bradham Thomton, Notebooks di Tennessee Williams (Yale University Press). Lo sfoglio e leggo le note che mi consentono di ricostruire le vite dei protagonisti degli Anni 40-50».
Londra, New York, Parigi, Vienna: Arbasino è stato un cittadino del mondo quando gli altri scrittori italiani non andavano nemmeno a Chiasso, sempre pronto a frequentare vernissages, teatri, concerti. E non basta, lui stesso era firmatario di regie d'opera e di prosa: a Bologna la Carmen diretta da Pierre Dervaux con cantanti della Scala, La traviata con Franco Mannino; per lo Stabile di Roma, Prova inammissibile di John Osborne. E oggi? A chi va la palma? «Senza andar lontano, alla Scala. Di recente ho assistito a Una Lady Macbeth del distretto di Mcensk con musiche di Dmitrij Sostakovic. È una Bovary di provincia - niente a che vedere con Lady Macbeth, a cui non importava niente del sesso, ma soprattutto del potere e della politica - che si innamora di un bracciante, uccide il suocero e il marito e li seppellisce in cantina. Durante la festa di nozze si scoprono i delitti. L'opera era stata osteggiata dal regime sovietico, definita nevrastenica e piccolo-borghese, e ne era stata vietata la messa in scena. E così fu fino a dopo la morte di Stalin. Certo, l'allestimento è discutibile ma musicalmente l'opera è notevole».

"Tuttolibri La Stampa", 21 luglio 2007

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