Tommaso Landolfi |
Sarà pur vero che Tommaso Landolfi «si specchia» in questi due racconti di Cechov, come recita il retro di copertina del volumetto uscito nella «Minima» Adelphi (La lettura. Kaštanka, nota di Giovanni Maccari, pp. 72, euro 6). Ma è uno specchiarsi meno quieto di quel che sembri, anche astraendo dal fatto che (parole sue) «per me il tradurre o appena il rileggere un qualunque scrittore è rendermelo come dire avverso»; a pelle, si potrebbe aggiungere recependo il successivo paragone landolfiano con le gigantesse di Gulliver.
Dopo il Dostoevskij del
sottosuolo, Tolstoj e Turgenev, già riapparsi da Adelphi, ecco
ulteriori disjecta membra dall’antologia Narratori russi
proposta a Landolfi da Elio Vittorini per l’editore Bompiani e
uscita nel 1948. Landolfi traduttore veniva dai Racconti di
Pietroburgo, che gli avevano fruttato anche una polemica con
Vitaliano Brancati sulla curvatura antirealistica impressa a Gogol’,
e da scrittore nutriva da sempre ammirazione per i russi: tanto
modelli di stile comportamentale (nottivago, ozioso, dissipatore)
quanto suscitatori in letteratura di un’indocile libertà di fronte
al reale: visto non come un dato pacifico sancito in via univoca dal
senso comune, ma quale estensione indefinita di possibilità da cui
far scaturire l’eccezione che apre le porte dell’universale. Solo
ricreando ogni volta se stessa e le proprie condizioni, la scrittura,
come quella del prediletto Dostoevskij, potrà essere un’arte del
possibile, convogliando nella propria energia l’abbandono al caso e
a un errore necessario, ma anche una paradossale fiducia in un senso
a venire.
A Cechov, «alquanto
enigmatico per costituzione», Landolfi dedicherà negli anni ’50,
sulle pagine del «Mondo», ben cinque articoli e recensioni (poi
raccolti in Gogol’ a Roma) mettendone in luce l’indifferenza
ai proclami e la renitenza alle prese di posizione immediatamente
utilizzabili: «Cechov ci racconta e dice tante cose, e anzi in forma
piana, suasiva, irresistibile, tuttavia non ci comunica né intende
comunicarci nulla», poi per giunta «si guarda bene dal trarre
conclusioni finali». E quel grande romanzo che soffrì di non aver
scritto è in realtà la sua intera opera, in tutti i minuzzoli
sparsi che gettano uno sguardo sul mondo composito come quello di un
insetto (chissà che anche qui Landolfi non stesse pensando in parte
a se stesso).
Malgrado il riserbo,
malgrado il rifiuto di esaurirsi in una posizione dichiarativa,
Cechov a parere di Landolfi «tutto quel che gli stava a cuore lo
disse». E la sua vita va osservata come un mistero in piena luce,
mediante la stessa via negati-va che si riserva a un altro grande
nato «sotto altra stella», quel Poe in cui il raziocinio non ha
fatto che aggiungere potenza alla visione.
Narratore «prestigioso»
e imprendibile, traduttore d’eccezione, cosa ritrova, se qualcosa
intende ritrovare, Landolfi in questo Cechov giovanile? Il primo
testo, nello schizzare gli esiti calamitosi della lettura di romanzi
fra un gruppo di impiegati, rovescia nel comico le tendenze
edificanti che vedevano nella diffusione della lettura un segno di
progresso, e si può dire che nel suo estro bozzettistico,
condizionato negli spazi e nei toni dalle costrizioni giornalistiche,
ci sia qualche sintonia con aspetti dell’opera del conte giocatore,
clown admirable del nostro ’900: si pensi a certe scene con
fumo di parodia della Pietra lunare o ad alcune pagine più
feriali di Ombre.
Di qui parte per Landolfi
una direttrice che sigla l’imperterrito stile di chi si sentì
sempre lontano dal marciare alle parole d’ordine del presente.
Mentre i temi inscenati da Cechov nella storia della cagna Kaštanka,
che si perde per le vie del mondo scoprendo esperienze e personaggi
con suprema freschezza di sguardo, riporta, come segnala l’ottimo
Maccari, a quella Favola che chiude la raccolta Il Mar
delle Blatte: ma con una virata metafisica, di allegoria
inconclusa, laddove l’autore russo si attesta sull’aneddotico nel
segno di una calda tenerezza. E non serve ricordare l’importanza
assunta da un bestiario quantomai polimorfo (dai cani ai ragni, ad
altri «animalini») in un’opera tra le più magnetiche della
nostra letteratura. In una borgesiana coincidenza a ritroso, in cui
lo scrittore italiano quasi crea il proprio predecessore, il curatore
evidenzia tra una lettera di Cechov e un eccelso racconto
landolfiano, La beccaccia, una situazio-ne esattamente
parallela: dove lo sguardo non si sa se implorante o alieno
dell’animale che non riesce a morire scatena una tensione
lancinante.
Come la scrittura è
affetta da «mal di vuoto», la traduzione vive di per sé di
insufficienza: «che farci», scriverà altrove Landolfi, «se la
poesia è cosa tanto universale da restare in larga misura avvinta
alle particolarità di una lingua?». Non è il solo caso in cui
l’impossibile si configuri come per ciò stesso necessario. Più
che interrogarsi su agonismo o discepolato nel cimento traduttivo,
non va trascurato (e Maccari lo sottolinea) che forse Cechov
rappresentava per Landolfi una possibilità di vivere e di essere
scrittore, per via dell’«estrema pulizia della sua posizione
artistica», assorbita solo dalla verità poetica del proprio fare,
intrinsecamente morale.
Quanto alla lezione che
di quell’esperienza permane viva, sarebbe riduttivo identificarla
nel torcere il collo al realismo. È stato Landolfi stesso, in quella
straordinaria soglia indiretta che è la sua introduzione a Narratori
russi, a dirci che quegli scrittori hanno avuto il coraggio di
guardare i fantasmi ridicoli o minacciosi del reale nei loro volti
senza volto. La letteratura, giova ricordarcene oggi, è meno in
quanto si dà di risolto e comunicabile che nella tensione verso
qualcos’altro che contesta ma è duramente infitto nel reale –
sull’onda di una lingua congegnata come un’armatura, condensata e
catafratta in parole-bestie, parole-fantasmi.
“il manifesto”, 11
agosto 2012
Nessun commento:
Posta un commento