La disuguaglianza del
reddito è uno dei temi più rilevanti dell’agenda politica
globale: la concentrazione della ricchezza nelle mani di una
minoranza di persone è una molla per lo sviluppo o va a scapito
dello stesso? La sperequazione sociale crescente è un volano per
l’economia o impatta negativamente sulla performance delle persone
e delle società?
La domanda è potente e
la risposta non è affatto semplice.
Nel bellissimo libro La
misura dell’anima (Feltrinelli, 2009) i due studiosi Richard
Wilkinson e Kate Pickett raccolgono una mole impressionante di
evidenze a supporto della tesi sugli effetti negativi di una
distribuzione del reddito iniqua. In generale, comunque, il problema
è di grande interesse per la ricerca che, sempre più, si serve di
dati nuovi per indagare la questione.
L’economia è la
scienza che studia gli incentivi, in tutte le forme in cui questi
possono manifestarsi. Ci sono persone che fanno una determinata
scelta perché spinte dal denaro. Altre, ancora, sono invece mosse da
una motivazione intrinseca, per esempio una passione. Il principe
Amleto agisce mosso dalla sete di vendetta, mentre Romeo ha in testa
solo la felicità dell’amata Giulietta. Studiare quanto l’incentivo
monetario si traduca in una molla che, effettivamente, sia in grado
di influenzare il comportamento di un attore economico o di una
società è fondamentale, dunque, ma non per forza deve avvenire
facendo uso esclusivo di dati monetari, che spesso non consentono di
isolare perfettamente il rapporto causale tra due variabili.
Negli ultimi anni, così,
la ricerca di scienze sociali sempre più ha fatto ricorso a un
ambito di analisi molto interessante e che produce una quantità di
dati crescente: le informazioni che vengono dallo sport e, con
particolare riferimento al tema “disuguaglianza”, che si
riferiscono al calcio. Il terreno di gioco, infatti, è un ambiente
controllato, scevro dalle influenze del cosiddetto white noise
(il rumore bianco generato dai fattori di disturbo): le variabili che
agiscono all’interno di una partita sono più o meno sempre le
stesse e i giocatori che si scontrano sul terreno fanno parte di
squadre con lo stesso numero di persone. Le regole del gioco e i
campionati sono molto stabili nel tempo, il che consente a un
ricercatore di utilizzare i dati relativi al calcio come un setting
ideale per poter spiegare, partendo dai risultati di una partita,
relazioni tra variabili che poi vengano generalizzate ed estese anche
ad altri contesti.
Chi di noi non ha mai
pensato, una volta nella vita, a quanto siano strapagati i cosiddetti
top player? A metà tra un sentimento di invidia e di presunta
tensione verso la giustizia sociale, guardiamo al mondo favoloso
della Serie A, o degli altri campionati europei, sentendo cifre
vertiginose davvero. Paul Pogba acquistato per 110 milioni di euro
dal Manchester United (con l’sms solidale sono stati raccolti circa
15 milioni di euro per il terremoto che ha colpito Amatrice); Lionel
Messi che percepisce (tra ingaggio e sponsor) 65 milioni di euro
netti all’anno. Sono numeri da capogiro, ma la domanda giusta da
farsi è: come è possibile che un’industria sia in grado di
generare e sostenere questi stipendi? È economicamente sensato che
un calciatore venga pagato così tanto? E qual è l’effetto di un
simile stipendio sulla prestazione del giocatore, in primis, e della
squadra in cui gioca, in ultima analisi? Tutte queste domande
diventano oggetto di studi economici di grande rilevanza, poiché
partendo dai dati calcistici tali ricerche consentono di fare delle
inferenze utili anche a capire le dinamiche complesse di un ambito
così determinante come l’economia del lavoro.
Il vantaggio di poter
usare dati e statistiche relative al calcio è particolarmente
evidente se si vuole studiare un tema quale la produttività e la sua
relazione con la distribuzione del reddito in un dato contesto. In
che modo reagisce un giocatore quando confronta il proprio ingaggio
con quello dei compagni di squadra? Una distribuzione iniqua degli
stipendi impatta negativamente sulla performance?
Il tema è stato oggetto,
e ancora lo è, di numerosi indagini empiriche, che hanno fornito
risposte molto interessanti. Uno studio del 2014, firmato da Egon
Franck e Stephan Nuesch, contiene un’analisi condotta sui dati
della Bundesliga (stagioni dal 1995-1996 al 2006-2007). 5.316 salari
individuali servono ai ricercatori per calcolare, innanzitutto,
alcuni indicatori di disuguaglianza. Il più celebre in letteratura è
il coefficiente di Gini: un parametro con valori compresi tra 0 e 1
che indica quanto equa è la distribuzione dei redditi in una
popolazione. Più è basso e vicino allo 0, più le risorse sono
distribuite equamente; viceversa, invece, per quanto riguarda valori
elevati. Il valore massimo 1 è associato all’ipotetica situazione
in cui una sola persona detiene il totale delle risorse prodotte in
un’economia. I ricercatori correlano questi indicatori di
disuguaglianza con la percentuale di vittorie ottenute da una squadra
e la posizione in classifica. Il risultato è interessante, perché
la disuguaglianza dei redditi sembra migliorare la prestazione delle
squadre sia quando è molto bassa, sia quando è molto alta, con un
effetto negativo solo per valori intermedi dell’indicatore
considerato. È probabile, infatti, che valori elevati dell’indice
di Gini identifichino quelle squadre che sono in grado di ingaggiare
il top player e, in generale, i migliori talenti, il che ovviamente
si traduce in un monte salari più elevato per le star in squadra.
Valori molto bassi, invece, impattano positivamente sulle prestazioni
attraverso un altro canale: un’ipotesi è che squadre con stipendi
più equi giochino in modo coeso e collaborativo, con poche
individualità e un maggiore spirito collettivo.
Un articolo del 2006
aveva affrontato lo stesso problema, ma concentrandosi sull’effetto
della distribuzione del reddito in termini di prestazioni individuali
e non di squadra: come reagisce, quindi, il singolo, a ingaggi molto
diseguali nella sua squadra? Anche qui i ricercatori usano i dati
della Bundesliga, negli anni dal 1995 al 2003, e identificano un
chiaro effetto negativo. Considerando come misure di performance il
numero di goal, di tiri, di passaggi e di tackle, emerge che la
disuguaglianza si traduce, infatti, in un peggioramento della
prestazione. Il singolo cerca forse la giocata personale o, comunque,
non coopera con i compagni di squadra. Questi risultati sono in linea
con una delle evidenze sperimentali più forti dell’economia
comportamentale: il confronto relativo del reddito all’interno di
un team di lavoro riduce il benessere soggettivo di chi è pagato
meno, spesso determinando comportamenti sul lavoro che riducono
l’attaccamento all’azienda e, conseguentemente, la produttività.
C’è infine un altro
studio, del 2014, pubblicato sulla prestigiosa rivista “PLoS ONE”,
a opera di Alessandro Bucciol, Nicolai J. Foss e Marco Piovesan, che
concentra la propria attenzione sulla Serie A (per le due stagioni
2009-2010 e 2010-2011). L’articolo è interessante perché offre
un’ulteriore approfondimento sul tema: l’effetto della
disuguaglianza, infatti, cambia a seconda di come si definisce una
squadra. Se, infatti, si considera l’intera rosa a disposizione di
un mister, allora pare emergere un effetto neutro o addirittura
positivo della distribuzione degli ingaggi. Se, però, si restringe
il campo ai soli giocatori di una squadra che scendono in campo
regolarmente, allora il confronto di redditi si traduce in un effetto
negativo. È come se la prossimità nella disparità, o il contatto
diretto, fossero la vera leva, un disincentivo da questo punto di
vista, che spingono il giocatore a un comportamento egoistico e meno
cooperativo.
Sono evidenze assai
utili, ancora una volta, non solo per una disamina del mondo
calcistico, ma anche e soprattutto per le possibili implicazioni di
politica economica che si può cercare di trarre da dati inusuali. È
una metodologia che, se permettete l’espressione, entra in tackle
all’interno del mondo accademico offrendo evidenza nuova e di
grande impatto.
"Pagina99", 8 ottobre 2016
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