Leggo
solo ora, in ritardo, la recensione del libro di Deaglio, che non ho
letto. Campus lascia intravedere il racconto fattuale di un passaggio
storico che a me, come a tanti, appare assai importante. Ho
l'impressione che l'approccio di Deaglio ben si raccordi alla più
convincente e sintetica interpretazione che mi è accaduto di leggere
sul periodo, gli Anni Settanta di
Giovanni Moro (Einaudi 2007). Penso che mi procurerò questo Patria.
(S.L.L.)
È
divenuto senso comune considerare gli anni Settanta l’anticamera
dell’oggi. Un decennio che si caratterizza per la sua “lunghezza”
coincidendo il suo inizio con la contestazione studentesca del ’68
e la sua coda con i primi anni Ottanta e, quindi, con l’avvio del
cosiddetto reflusso: il distacco dalle passioni che avevano
caratterizzato il periodo precedente.
Di
questo tratto di storia si sono date molte definizioni e si è
provato a impacchettarlo in formule che non riescono a restituirne la
complessità dal punto di vista internazionale e forse ancor meno per
quel che riguarda la vicenda italiana. L’elenco delle straordinarie
conquiste sociali che arrivarono a maturazione in quegli anni e la
loro diffusione non sarebbe completo senza aggiungere quanto essi
furono tormentati. Lo furono in un Occidente che sperimentava le
conseguenze di una ricchezza inedita, e l’estensione di nuove forme
di scontro sociale e militanza civile; e lo furono in teatri che
facevano intravvedere i segni del cambiamento globale che si sarebbe
verificato nei successivi decenni. L’esperienza italiana
compendiata in Patria 1967 – 1977 di
Enrico Deaglio è per molti versi antonomastica del dinamismo di tali
trasformazioni, e dell’urto che esse provocarono su assetti che
parevano incrollabili.
Un
titolo orgoglioso e per certi aspetti provocatorio, se è vero che in
molti continuano a riconoscersi nell’affermazione di Ceronetti
«l’Italia è più un archetipo che nazione». Eppure da queste
pagine che definiscono la portata del conflitto generazionale,
dell’evoluzione della cultura popolare e della sua saldatura con
contesti che parevano distanti, del modo di percepire e vivere la
politica, emerge qualcosa di più che un archetipo. Non si tratta di
un saggio interpretativo o di un’analisi costruita su una delle
tante tesi-contenitore che la storiografia ha prodotto (spesso in
maniera poco originale) per riassumere il decennio. È piuttosto una
ricostruzione di fatti pazientemente allineati che ambiscono alla
formazione di un “quasi almanacco” in presa diretta e
restituiscono il ritmo dei cambiamenti, la partecipazione degli
attori, il contributo degli intellettuali, la resistenza degli
elementi più retrivi, l’affermazione della coscienza operaia, la
gioia della sperimentazione e il buio della violenza.
Ciò
che punteggia la narrazione di Deaglio, dunque, non è la pretesa
della neutralità – che del resto sarebbe velleitaria specie se
proclamata da chi in quel periodo era non solo adulto ma attivo – o
il compiaciuto reducismo della “meglio gioventù”, quanto la
fiducia che un’ampia selezione di fatti possa comporre un quadro
verosimile di come l’Italia visse in quell’epoca. Ciò che
colpisce di un esperimento come questo è la cognizione che l’autore
ha nel combinare elementi alti e bassi (ammesso che una distinzione
del genere abbia senso in un caso come questo) e l’immunità da
prosaici rimpianti: una cognizione che dà forza all’eccezionalità
di quegli avvenimenti riuscendo a contestualizzarli come qualcosa di
non slegato da ciò che li precedette e ciò che venne dopo. Se c’è
un tratto che emerge netto nella moltitudine di fatti anche minori di
una quotidianità crivellata dalla conta dei morti, è l’energia
che trasuda dalla partecipazione al cambiamento dei protagonisti.
Come se la catena di avvenimenti descritti suggerisse che la
composizione dell’indole politica del Paese fosse assai più vivace
rispetto alle formule e ai paesaggi tartarei che lo definirono in
seguito. E se è inevitabile pensare a quanto, rispetto ad allora, la
società italiana appaia oggi ripiegata in uno stato comatoso,
analogamente è possibile individuare in quell’intervallo di date
una linea d’ombra della Repubblica: un confine che sarebbe stato
varcato l’anno successivo al momento in cui si arresta il libro, il
1978 della strage di via Fani e dell’uccisione di Moro. Ma quel
passaggio che è stato interiorizzato come un transito verso l’età
adulta o, peggio, come un passo prima (e per alcuni dopo) delle
Malebolge, appare consequenziale agli avvenimenti riportati in queste
pagine.
Bisogna
poi dire che i dieci anni qui descritti riportano a un clima nel
quale si rafforzarono al centro della vita nazionale tendenze e
figure che determinarono la consunta modernità di cartapesta del
decennio successivo. Quasi come se il drammatico cambiamento dovesse
necessariamente essere immolato, dissipato, nel linguaggio
sfumatamente patologico e congenitamente distorto della politica
nazionale. Un elemento che affiora più di altri dal libro è il
superamento degli stereotipi più convenzionali con cui il decennio è
stato descritto dai suoi contemporanei e dagli scimmiottamenti degli
epigoni. Si tratta della definizione di “crisi italiana”, la cui
lugubre cifra ha regnato per descrivere un Paese tragico che ignora
di esserlo. Quella crisi fu, è vero, profonda e segnata dalla matta
bestialità delle comparse italiane, ma fu il tempo nel quale si
svilupparono diritti che fanno parte del nostro patrimonio. Fu quello
il tempo nel quale, anche a causa dello stato endemico di conflitto
fra vari pezzi dello Stato, si mobilitarono le coscienze di una parte
della società che fino ad allora aveva vissuto nel fatalismo
sentimentale e cinico che è poi tornato al centro della scena
pubblica. Così come quel decennio provò un innesto (fallito) in una
modernità di cui si percepivano i potenziali salvifici ancoraggi.
Una scena che da allora si è vertiginosamente trasformata nello
sconcio carnevale di lazzi e smorfie che trionfa oggi. Quell’Italia
più ingenua aveva – e questo la lettura di Patria
lo suggerisce – una forma di pudore a mostrarsi amabile e festevole
a tutti i costi, a seppellire sotto un’ignoranza bieca e diffusa
l’assenza di orizzonti.
“Il Sole 24 ore – Domenica”, 25 febbraio 2018
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