1. La diffusa convinzione della sostanziale inesistenza di una politica culturale socialista autonoma e rilevante ha mantenuto a lungo inesplorato il carattere specifico del rapporto tra intellettuali e PSI nel secondo dopoguerra, se si esclude qualche cenno in alcune delle poche sintesi di storia del partito nell’Italia repubblicana (cfr. Degl’Innocenti 1993; Mattera 2004; Scroccu 2011), pochissime ricerche di lungo periodo sulla cultura socialista e una serie, nutrita in verità, di saggi dedicati a singoli intellettuali o a esperienze culturali specifiche. Si tratta, in quest’ultimo caso, di una letteratura a carattere perlopiù politico e memorialistico, che ha conosciuto una certa fortuna una prima volta nel corso degli anni Settanta e in seguito, dopo il 1989, quando si è ricercato, tra gli intellettuali della sinistra socialista, il filo rosso di un’«Italia antimoderata» in qualche modo estranea e alternativa alla tradizione intellettuale comunista. Una letteratura che, per quanto si sia arricchita recentemente di contributi storiografici originali, si è concentrata soprattutto su alcuni esponenti di spicco della cultura e della politica socialiste piuttosto che sulla funzione ricoperta dal PSI come primo contenitore di un dissenso che avrebbe trovato, negli anni Sessanta, il proprio liberatorio sbocco in una militanza al di fuori dei partiti.
2. Come spiegare che
molti dei “padri” della Nuova sinistra (Raniero Panzieri, Franco
Fortini, Gianni Bosio, Luciano Della Mea) avessero militato tra le
file di un partito che dalla fine degli anni Cinquanta aveva
cominciato una progressiva trasformazione in partito riformista e di
governo? Dove cercare le ragioni per cui molti dei giovani che si
impegnarono, nei primi anni Sessanta, nella costruzione di una
sinistra alternativa alle organizzazioni storiche del movimento
operaio (Vittorio Rieser, Pino Ferraris, Gianni Alasia, Emilio Soave
tra gli altri) avessero intrapreso il loro apprendistato politico,
tra la fine degli anni Cinquanta e i primissimi Sessanta, proprio
nell’orbita socialista?
3. Rispondere a questi
interrogativi significa misurarsi con un paradosso che consenta di
andare oltre il semplice riconoscimento del carattere pluralista del
PSI del dopoguerra. Un paradosso che ha a che fare con la
declinazione politica e culturale della parola «autonomia».
Luciano Della Mea |
4. Come è noto, il PSI
degli anni Cinquanta fece dell’«autonomia» la parola d’ordine
che l’avrebbe condotto, nell’arco di un decennio e attraverso
alterne vicende, dalla politica frontista all’elaborazione della
strategia di centro-sinistra. Questa stessa parola, variamente intesa
e declinata, fu agitata in quegli stessi anni da alcuni intellettuali
militanti all’interno o ai margini del PSI, insofferenti nei
confronti della politica di unità d’azione con il PCI e, in
particolare, delle sue ricadute nel campo dell’organizzazione della
cultura. Per costoro quella di autonomia era però una nozione carica
di contenuti diversi – autonomia della cultura dalla politica,
degli intellettuali dai dirigenti, della classe dal partito – e
mirava a un’uscita “a sinistra” dallo stalinismo, che non aveva
come esito necessario il nuovo modello di riformismo sul quale si
stava orientando la maggioranza del partito. Fu anche in virtù di
questo malinteso intorno alla definizione di autonomia che essi
poterono restare tra le file del PSI almeno fino alla fine del
decennio, trovando tribune e interlocutori per discutere argomenti e
approcci che sarebbero diventati centrali nel clima
politico-culturale degli anni Sessanta. Si trattava, infatti, solo in
apparenza di un malinteso: fu piuttosto un’ambivalenza
consapevolmente e abilmente sfruttata dalle correnti autonomiste del
partito, e in più di un’occasione cavalcata dagli stessi
intellettuali per ottenere spazi e visibilità nel dibattito
politico-culturale.
5. Ripercorrerò qui
alcune delle traiettorie più significative di questi intellettuali,
usando il controverso richiamo all’«autonomia», declinata secondo
tre diverse prospettive, come filo rosso di un percorso che li
condusse dalla militanza dentro il PSI a immaginare nuove forme di
partecipazione politica al di fuori di esso.
6. La prima declinazione
di autonomia ha a che fare con due argomenti – storia del movimento
operaio e cultura popolare – assai sensibili nel dibattito degli
anni Cinquanta, che mostrano, ancor prima della crisi del ’56,
alcune incrinature tra PSI e PCI.
7. La figura da cui
muovere è quella di Gianni Bosio, mantovano, iscritto al PSI dal
1943, protagonista della riorganizzazione del partito in Lombardia e
dunque esponente di spicco del rinnovamento dei quadri socialisti
avviato da Lelio Basso negli anni della sua segreteria. In virtù dei
suoi interessi di studioso (pur non avendo portato a compimento gli
studi, aveva concordato con Antonio Banfi una tesi sul marxismo in
Italia prima del 1892), Bosio fondò nel 1949 «Movimento operaio»,
bollettino storico-bibliografico inizialmente ciclostilato e
autofinanziato. Cifra della rivista – che in poco tempo attirò
nella sua redazione un buon numero di esponenti della nascente
contemporaneistica italiana – erano il metodo filologico, lo scavo
d’archivio, la pubblicazione di fonti e bibliografie, la cronologia
e la storia locale. Lo scopo era quello di documentare, cominciando
dalla raccolta di un patrimonio disperso di memorie e di carte, una
tradizione rivoluzionaria italiana autoctona, che includesse senza
censure la Prima internazionale come gli anarchici, le varie
organizzazioni della classe prima della nascita del Partito
socialista come le istanze spontanee del proletariato rurale. Era
infatti convinzione di Bosio che «la classe operaia opera,
costruisce, si organizza, pensa e si esprime in maniera propria», ed
è dunque capace di esprimere una propria storia e una propria
cultura, antagoniste ma non necessariamente subalterne. Di
conseguenza è possibile studiare «la storia del movimento operaio
in funzione del movimento operaio». Un approccio che gli attirò
accuse di «filologismo» e «corporativismo» da parte degli storici
comunisti, a cominciare dai redattori di «Movimento operaio». Il
nodo cruciale del dissenso investiva proprio la rivendicazione di
un’autonomia originaria della classe rispetto alla guida (e alla
storia) di partiti e sindacati. Su questo punto gli orientamenti
storiografici del PCI erano allora finalizzati alla ricerca della
continuità del ruolo nazionale ed egemone della classe operaia (che
dal filone democratico-repubblicano del Risorgimento conduceva alla
democrazia repubblicana) e non potevano quindi concedere troppo
spazio a una storiografia che ne accreditasse un’immagine
sovversiva e antistatuale.
Gianni Bosio |
8. Al di là degli esiti
immediati della polemica (che portarono nel 1953 al licenziamento di
Bosio da parte di Giangiacomo Feltrinelli, dal 1952 editore di
«Movimento operaio»), è interessante notare come le posizioni
“autonomiste” di Bosio, minoritarie all’interno del PSI,
trovassero di lì a poco un importante strumento di visibilità nel
rilancio della casa editrice del partito, le Edizioni Avanti!, che la
Direzione gli affidò nel 1953. Questo rappresenta uno degli esempi
più significativi della capacità della dirigenza PSI (che, al
Congresso di Milano, aveva appena lanciato lo slogan
dell’«alternativa socialista») di sfruttare a proprio vantaggio
le iniziative di militanti che esprimevano posizioni critiche quando
non esplicitamente eretiche. La ripresa dell’attività editoriale
di partito, di cui Bosio si fece totalmente carico sia dal punto di
vista organizzativo che finanziario, fu una delle prime occasioni,
per il PSI, per mostrare le proprie intenzioni di rilanciare un
impegno autonomo in campo culturale. D’altra parte le Edizioni
Avanti! furono per Bosio una straordinaria tribuna dalla quale
portare avanti la propria “eresia”, raccogliendo intorno a sé un
gruppo di collaboratori che lo avrebbe seguito nelle future
evoluzioni al di fuori del PSI, fino al cuore degli anni Sessanta e
oltre, con l’attività delle Edizioni del Gallo, dei Dischi del
Sole, del Nuovo Canzoniere Italiano e dell’Istituto Ernesto de
Martino.
9. La sensibilità per il
tema dell’autonomia operaia e contadina e, più in generale, la
valorizzazione del momento spontaneo di iniziativa rivoluzionaria
“dal basso” (con la conseguenza di mettere se non altro in
discussione il ruolo del partito nel suo rapporto con le masse)
riguarda in realtà più in generale una larga parte
dell’intellettualità socialista (soprattutto “a sinistra”).
10. Si consideri il
contributo originale fornito dagli intellettuali socialisti (Bosio,
certamente, ma anche Alberto Mario Cirese) al dibattito sulla
“cultura popolare”, che aveva trovato una prima occasione di
verifica nel 1950, in seguito alla pubblicazione del saggio di
Ernesto de Martino Intorno ad una storia del mondo popolare
subalterno. Fin da allora la discussione si era polarizzata
intorno al nodo dell’alternativa tra spontaneismo e organizzazione,
e molti intellettuali socialisti avevano mostrato nei confronti di De
Martino un atteggiamento più aperto e interlocutorio di quello dei
comunisti, di cui si era fatto portavoce, sulle pagine di «Società»,
Cesare Luporini, con la critica alle nozioni di «irruzione» delle
masse popolari nella storia e di «imbarbarimento» della cultura
marxista.
11. Il dibattito proseguì
tra 1954 e 1955 intorno alla figura di Rocco Scotellaro,
sindaco-poeta socialista di Tricarico morto nel 1953 a soli 30 anni.
La pubblicazione delle opere di Scotellaro avvenne, postuma, per
volontà di Carlo Levi e Manlio Rossi Doria, suoi amici e maestri.
Non è possibile ricostruire qui il dibattito che si scatenò sulle
riviste comuniste intorno al corpus poetico e letterario di
Scotellaro, ma occorre almeno rilevare come la discussione sia stata
soprattutto un pretesto per colpire la corrente meridionalista di
terza forza (Levi e Rossi Doria, ma anche la rivista «Nord e Sud»
di Francesco Compagna), accusata di congelare le masse contadine del
sud in un’immobilità culturale fuori dalla storia, che non
prendeva atto del cambiamento inaugurato nel secondo dopoguerra da
una nuova stagione di lotte, con la conseguenza di rendere il
Mezzogiorno incomprensibile «più che l’India e la Cina».
12. L’atteggiamento del
PSI fu del tutto differente: nel febbraio 1955 si fece promotore, a
Matera, del convegno Rocco Scotellaro intellettuale del Mezzogiorno,
con il quale ascrisse di fatto il poeta lucano al proprio pantheon e
aprì una finestra di dialogo con quello stesso meridionalismo
criticato dai comunisti9. A dispetto degli intenti celebrativi, gli
interventi dei relatori socialisti non si limitarono a rivendicare il
valore esemplare dell’opera e della parabola esistenziale di
Scotellaro, ma affrontarono di petto proprio il tema della «civiltà
contadina meridionale», con coloriture certamente varie ma tutte
ugualmente orientate a valorizzare il momento autonomo della
formazione di una cultura che aveva fatto della propria miseria e
arretratezza uno strumento di resistenza all’egemonia della cultura
nazionale. Così scrisse Panzieri sull’«Avanti!», rivendicando
come «nel “perire dei tempi” di cui parla Rocco, la stessa
ripetizione di forme di esistenza barbare e pagane, la ripetizione
del rifiuto alla civiltà e alla presenza cristiana producono, poiché
esse non avvengono nel vuoto ma nella storia, l’accrescersi della
protesta, della energia liberatrice». Nello stesso articolo Panzieri
faceva un passo in avanti, fino a rivalutare le correnti
“autonomiste” del meridionalismo («da Colajanni a Salvemini a
Dorso»), la cui eredità politica era stata raccolta in parte
proprio dal PSI, soprattutto nelle regioni del sud, grazie alla
confluenza di molti ex azionisti nel partito.
13. Ma chi più di tutti
seppe sfruttare il “caso Scotellaro” per promuovere le scelte
politiche del PSI fu Pietro Nenni, che difese sull’«Avanti!» il
valore esemplare delle storie di vita di Contadini del Sud
(sulle quali si erano attestate particolarmente le critiche
comuniste), ma non mancò di leggerle in un’ottica attenta alle
strategie del partito in termini di alleanze: “Il contadino Di
Grazia è iscritto all’Azione Cattolica ma non gli sfugge che dopo
la liberazione i «caporioni del fascio sono andati nella d.c.».
L’istinto di classe lo guida verso i socialisti. «Ora noi che
siamo rimasti dobbiamo fare accordi con i socialisti veri, non con i
comunisti, che vogliono essere tutti eguali […] (Deve trattarsi di
un elettore del giovane onorevole Colombo che al congresso
democristiano di Napoli portò il grido di disperazione dei contadini
del Sud; deve trattarsi di uno tra le centinaia di migliaia di
elettori che da Fanfani attendono fatti e non parole, fatti dei quali
l’accordo “con i socialisti veri” costituisce la premessa
necessaria ed ineluttabile).
Si tratta di un esempio
tipico del paradosso da cui abbiamo preso le mosse: Nenni si
appropriava di un dibattito i cui temi sarebbero stati raccolti negli
anni Sessanta da uno dei filoni più vivi del socialismo di sinistra
(Bosio e l’Istituto Ernesto de Martino in particolare) per dare
voce alla neonata politica del dialogo con i cattolici, che avrebbe
condotto il PSI in una direzione che quello stesso socialismo di
sinistra avrebbe rifiutato, trovandosi infine fuori da esso.
14. La seconda accezione
di autonomia investe più direttamente il tema dei rapporti tra
cultura e politica o, più precisamente, tra intellettuali e partito.
Un tema che fu il leit motiv quasi ossessivo del dibattito
politico-culturale del 1956, ma che nella prima metà degli anni
Cinquanta fu patrimonio pressoché esclusivo di alcuni gruppi
minoritari di intellettuali militanti all’interno o nell’orbita
del PSI, ovvero di quei marxisti critici che mantennero viva, negli
anni del frontismo, la polemica contro le interferenze della politica
nel campo della cultura e coltivarono – quasi clandestinamente –
interessi e relazioni intellettuali aperti alle correnti più
innovative della cultura europea, allora ignorate o tenute in
sospetto dalla cultura di partito (l’esistenzialismo, la Scuola di
Francoforte, le nascenti scienze sociali, ecc.). Combattuti tra la
volontà di dare voce alla propria critica e la necessità di non
nuocere alle forze di sinistra negli anni più duri della guerra
fredda, si riunirono in un primo tempo (tra il 1949 e il 1953)
intorno al bollettino «Discussioni» (una piccolissima pubblicazione
destinata a circolare tra pochi amici, quasi in forma di «lettere
aperte») e, più tardi, dal 1955, nella rivista «Ragionamenti»:
Roberto e Armanda Guiducci, Renato Solmi, Sergio Caprioglio, Luciano
Amodio, Emanuele Tortoreto, Franco Momigliano, Alessandro Pizzorno,
Gianni Scalia. Una posizione al tempo stesso originale e di maggior
rilievo ebbe, all’interno di questo gruppo, Franco Fortini,
marxista critico per antonomasia. Socialista dal 1944, avrebbe
giustificato in più occasioni la stessa scelta di militare
all’interno del PSI con la difficoltà di accettare la disciplina
richiesta agli intellettuali all’interno del PCI. Fu però
soprattutto dopo la sconfitta elettorale del Fronte che la sua
critica alla politica culturale comunista (e socialista) si fece più
radicale, con la denuncia della «via di vergogna» intrapresa dai
partiti del movimento operaio italiano, pronti a replicare, in scala
minima, «tutta la teratologia stalinista». Una posizione che lo
espose a critiche e censure, che culminarono, nel 1951, in un duro
scontro con il vice segretario del PSI Rodolfo Morandi e, nel 1954,
addirittura in un provvedimento di deplorazione da parte della
Federazione milanese per l’articolo Appunti su comunismo e
occidente, con il quale aveva negato l’identità di comunismo e
stalinismo e rivendicato agli intellettuali il compito di elaborare
un progetto di «comunismo occidentale» autonomo e originale.
15. A partire da quello
stesso 1954 i marxisti critici sembrarono trovare una sponda,
all’interno del PSI, in Raniero Panzieri, che dal luglio 1955
avrebbe ricoperto la carica di Responsabile della Sezione cultura e
Studi, mettendo mano a una radicale riorganizzazione del lavoro
culturale del Partito. Un primo passo in questa direzione si era
avuto nel settembre 1954, a Bologna, con il convegno Per la
libertà della cultura, quando per la prima volta, in una
manifestazione organizzata dal PSI, si era parlato di libertà della
cultura non solo in termini di “lotta all’oscurantismo e al
clericalismo” ma anche come rifiuto della sua partiticità,
lanciando un primo segnale della volontà di rifondare il rapporto
tra intellettuali e PSI su basi polemiche quando non apertamente
concorrenziali rispetto all’alleato-avversario comunista. Il
progetto di Panzieri si basava tuttavia su un’ambigua dinamica tra
«autonomia» e «organizzazione», secondo la quale il partito
avrebbe dovuto svolgere una funzione prevalentemente organizzativa e
di coordinamento, fornendo gli strumenti necessari alla discussione
(case editrici, riviste, istituti, convegni) senza influenzarne i
contenuti. Parafrasando il discorso con cui Nenni chiuse l’assise
di Bologna (e che a dispetto delle intenzioni dichiarate fu un vero e
proprio concentrato di paternalismo) il PSI voleva infondere negli
intellettuali fiducia nelle proprie possibilità, senza nessuna
«speculazione» di propaganda o di guida politica diretta.
Nonostante l’apparente consonanza con le richieste di autonomia
avanzate da Fortini e da «Ragionamenti», l’obiettivo di questo
appello erano non tanto i marxisti critici quanto una platea più
vasta di intellettuali (per usare una formula allora in voga)
«genericamente democratici». Questo non sfuggì a Fortini, che in
una lunga lettera a Panzieri si mostrò «sconcertato» di fronte
all’«appello ad una libera ricerca culturale [che] sembra
proclamato in linea di principio ma diretto verso l’esterno e
assume dei caratteri di liberismo difficilmente accettabili», quasi
una riproposizione, in termini nuovi, del vecchio frontismo.
16. Le divergenze si
fecero ancora più stridenti nel 1956, quando gli stravolgimenti
delle vicende del comunismo internazionale e le loro ripercussioni
sui rapporti interni tra i due partiti del movimento operaio italiano
strapparono i marxisti critici alla loro marginalità e li posero al
centro di un dibattito di cui erano stati precursori (basti ricordare
come la celeberrima discussione sul marxismo in Italia, che occupò
per settimane le pagine de «Il Contemporaneo», fu scatenata dalla
stroncatura del pamphlet di Roberto Guiducci Socialismo e verità).
17. In questo clima di
«insensato ottimismo» (Fortini, a cui si deve questa formula,
pretese nei giorni della pubblicazione del Rapporto Kruscev
che il provvedimento disciplinare del 1954 fosse ritirato, dal
momento che la storia aveva finito per dargli ragione) si inserisce
la pubblicazione, su «Ragionamenti», delle Proposte per
l’organizzazione della cultura marxista, manifesto con cui i
marxisti critici si candidavano a guidare quel processo di “rinascita
della cultura marxista” che potevano finalmente pubblicamente
invocare come necessario e urgente. Un processo che avrebbe dovuto a
loro giudizio addirittura capovolgere il rapporto di gerarchia tra
politica e cultura, affidando agli intellettuali la verifica delle
scelte della politica.
18. I fatti d’Ungheria
precipitarono gli eventi, accelerarono lo strappo del PSI dal PCI ed
ebbero importanti ripercussioni tra gli intellettuali della sinistra
italiana. Una buona parte di coloro che decisero di uscire dal PCI
cominciarono a guardare con interesse al PSI e anche gli
intellettuali «democratici» accolsero con entusiasmo lo strappo
socialista. Proprio questo «darsi all’acquisto delle liquidazioni
comuniste» fu una delle principali ragioni di frizione tra Panzieri
e i marxisti critici, e in particolare Fortini, che si sentì
scavalcato da quelli che giudicava antistalinisti dell’ultima ora
(si pensi che cosa dovesse significare per lui l’adesione al PSI di
Carlo Muscetta, che corso nel dibattito sul «Contemporaneo» lo
aveva attaccato violentemente sul piano personale). A questo si
aggiungeva, più ingombrante, la questione della funzione del
partito, che Panzieri giudicava affrontata in maniera insoddisfacente
dalle Proposte di «Ragionamenti» (che avevano vagheggiato la
possibilità di un rapporto diretto tra intellettuali e masse e che i
marxisti critici consideravano risolta da Panzieri ancora nei termini
di «guida» e «direzione».
19. Proprio quando
l’autonomia della cultura divenne una delle parole d’ordine del
cosiddetto disgelo, l’apparente unità di quelle forze che per
prime l’avevano rivendicata finì per sfaldarsi. I marxisti critici
disertarono i tentativi panzieriani di discutere le prospettive della
politica del PSI in chiave di salvaguardia della “politica
unitaria” (a cominciare dal progetto di Istituto di Studi
Socialisti da lui immaginato sul modello di quello fondato da Rodolfo
Morandi a Milano nel 1946); nel 1957 «Ragionamenti» si sciolse in
seguito alla spaccatura della redazione intorno al nodo della
necessità di intervenire in politica in maniera più diretta;
Guiducci, Momigliano e Pizzorno fondarono insieme a un gruppo di ex
comunisti (Antonio Giolitti, Alberto Caracciolo, Carlo Ripa di Meana,
Lucio Colletti) la rivista «Passato e Presente»; Fortini,
profondamente offeso dalla scarsa attenzione dedicata dalla stampa
socialista al suo Dieci inverni (con l’eccezione di una
recensione critica di Luciano Della Mea, che lo fece infuriare)
presentò nel dicembre 1957 le sue dimissioni dal PSI. “Ho tradotto
– scriveva a Panzieri in quei giorni – una ventina di volumi, ne
ho scritti cinque, ho cercato di capire tutto quel che potevo, di
fare del mio meglio; e ho il classico pugno di mosche. Basta, non ho
e non voglio avere la forza di battermi ancora […]. Oggi, per me,
non c’è posto. Quando ci fosse, non mancherei di occuparlo.
Patisco come un cane, puoi crederlo, ma non ho diritto di togliermi
questa spina. Il Socialismo mi reggeva; oggi gli son caduto di mano”.
Un vero e proprio grido
di dolore che testimonia la sofferenza per la perdita di identità
che rappresentava ancora alla fine degli anni Cinquanta l’abbandono
di un partito politico. Un sistema di valori che presto sarebbe
entrato in crisi, grazie alla nascita di nuove forme di
partecipazione politica, che avrebbero in qualche modo portato alle
estreme conseguenze il tema dell’autonomia della cultura dalla
politica dei partiti.
20. L’ultima
declinazione di autonomia ha più direttamente a che fare con Raniero
Panzieri e con la sua personale riflessione sulla fabbrica e sulla
condizione operaia come contributo al dibattito interno al PSI dopo
la svolta del ’56. Una riflessione che troverà i suoi esiti più
fruttuosi nella stagione dei «Quaderni rossi», ma che affonda le
radici negli ultimi anni della militanza socialista di Panzieri e
favorisce dunque la comprensione di come il PSI, proprio nel momento
in cui cominciava a intraprendere il percorso che l’avrebbe
condotto al centrosinistra, ebbe la funzione di traghettare un buon
numero di giovani verso un nuovo modo di fare politica.
21. Estromesso dalla
Direzione nel corso del Congresso di Venezia (6-10 febbraio 1957),
Panzieri riuscì a ottenere l’incarico di condirettore della
rivista «Mondo operaio», dando inizio a un lavoro di elaborazione
culturale e politica che è stato da molti giudicato il suo
capolavoro, «una delle stagioni più belle ed entusiasmanti di
autentico rinnovamento del socialismo italiano» (Mangano 1992, p.
115). Tra 1957 e 1958 Panzieri riuscì a fare della rivista
ideologica del PSI un vero e proprio laboratorio di idee, nel quale
le diverse posizioni interne (ed esterne) al partito si confrontarono
intorno ai temi più scottanti del dibattito, per contribuire a
sciogliere il nodo della futura politica del PSI. È questo, per
esempio, il caso del dibattito sul «neocapitalismo», cartina
tornasole della capacità di partiti e di sindacati di adeguare le
proprie strategie alle mutate condizioni socio-economiche del Paese
(dopo lo choc della sconfitta della CGIL alle elezioni per le
Commissioni interne alla Fiat del 1955).
22. Certamente «Mondo
operaio» fu per Panzieri anche lo strumento con il quale elaborare e
dare voce al proprio dissenso nei confronti delle scelte politiche
della maggioranza (e dell’opposizione della sinistra di corrente),
con la difesa di una politica unitaria di classe e la ricerca di una
«terza via socialista» (alternativa tanto allo stalinismo quanto al
riformismo). Questo impegno si esplicitò in due direzioni: una,
verticale, che ricercava nel passato del movimento operaio i momenti
in cui si era tentato un innesto tra rivoluzione e democrazia diretta
(il soviettismo della rivoluzione d’Ottobre, il Lenin di Stato e
Rivoluzione, il movimento torinese dei consigli di fabbrica, il
Gramsci dell’«Ordine Nuovo», la rivoluzione dei consigli in
Germania, lo spartachismo); un’altra, orizzontale, che guardava con
attenzione agli esperimenti di democrazia diretta allora in atto in
paesi socialisti come Polonia e Jugoslavia. La ricomposizione di
queste riflessioni in proposta politica si concretizzò nella
pubblicazione, nel febbraio 1958, delle Sette tesi sulla questione
del controllo operaio, scritte da Panzieri insieme a Lucio
Libertini. Presentate come contributo alla discussione sulla «via
democratica e pacifica al socialismo» (declinata come «via della
democrazia operaia» piuttosto che come «via parlamentare»), le
Tesi ponevano la questione della «autonomia rivoluzionaria del
proletariato», auspicando (in polemica con la “teoria dei due
tempi”) la creazione di istituti di democrazia diretta «non già
dopo il salto rivoluzionario, ma nel corso stesso di tutta la lotta
del movimento operaio per il potere». Tali istituti sarebbero dovuti
nascere «nella sfera economica, laddove è la fonte reale del
potere, e rappresentare perciò l’uomo non solo come cittadino ma
anche come produttore». Essi dunque sarebbero dovuti nascere in
fabbrica e partire dall’esperienza concreta degli operai.
23. Non è possibile in
questa sede indugiare sul dibattito scatenato dalle Tesi (che in
verità lo stesso Panzieri giudicò deludente, a dispetto del suo
desiderio di farne, come aveva scritto a Giovanni Pirelli, «il
reagente immediato per la chiarificazione delle varie posizioni
socialiste di fronte alla fase di cambiamento»): ciò che conta
sottolineare, tuttavia, è come proprio il dibattito sul controllo
avvicinò a Panzieri (e, per un brevissimo periodo, al PSI) alcuni
giovani, ai quali le Tesi sembrarono uno dei pochi tentativi di
immaginare nuovi strumenti per la politica del movimento operaio. È
questo il caso di alcuni giovani comunisti dissidenti come Alberto
Asor Rosa, Lucio Colletti, Mario Tronti, ma anche di quel gruppo di
studenti torinesi che manifestò il desiderio di aderire al PSI
indicando tra le ragioni di questa scelta «la lotta iniziata e
portata avanti sugli organi di stampa del Partito per diffondere
nella coscienza di tutti i lavoratori il problema del “controllo
operaio». A questi vanno senz’altro aggiunti quei giovani che
Panzieri conobbe in giro per l’Italia viaggiando per pruomovere il
dibattito sul “controllo” e che coinvolse in un lavoro collettivo
che avrebbe dovuto sfociare in una serie di inchieste di fabbrica
(proprio sulle pagine di «Mondo operaio» e di quello straordinario
esperimento che fu il suo «Supplemento scientifico-letterario»
comparvero le prime riflessioni sulla necessità di rimettere la
fabbrica al centro degli studi e delle analisi, nonché alcuni primi
tentativi in questa direzione, come il lavoro di Aris Accornero sulla
RIV o quello di Alasia e Tarizzo sulla Savigliano). Un progetto nato
su stimolo di Maria Adelaide Salvaco e nel quale Panzieri si gettò
con passione coinvolgendo gruppi di militanti in diverse città del
nord Italia (tra i quali spiccano già i nomi di Gianni Alasia a
Torino e di Dario e Liliana Lanzardo a La Spezia). Nel settembre 1958
– grazie alla collaborazione di Giovanni Carocci (autore della nota
inchiesta sulla Fiat pubblicata da «Nuovi Argomenti») – i
questionari erano pronti, ma il progetto falliva a causa delle
difficoltà sorte nel PSI e della mancata collaborazione dei
comunisti. Ciò che però è particolarmente interessante è come il
primo tentativo di rimettere la fabbrica al centro dell’interesse
della politica del movimento operaio con il metodo dell’inchiesta –
che sarebbe stato in seguito patrimonio del gruppo dei «Quaderni
rossi» – si consumi ancora una volta all’interno del PSI,
seppure ormai ai suoi margini.
Nel 1959, con il
trasferimento a Torino, si aprì per Panzieri una nuova fase
politica, che – a dispetto della sua brevità – resta ancora oggi
la più indagata dagli studiosi. I fatti di Piazza Statuto – che
nel luglio 1962 colsero di sopresa partiti e sindacati – diedero di
lì a poco un primo importante segnale di apertura di una nuova
stagione di conflittualità e il dibattito sull’autonomia operaia
fu raccolto e rielaborato in forme originali da una «nuova
generazione di sovversivi». I primi governi di centrosinistra e la
scissione del PSIUP (1964) avrebbero di lì a poco forzatamente
chiuso una delle stagioni più intense del dibattito
politico-culturale interno al Partito socialista. Bosio, Fortini,
Panzieri e molti altri esponenti del socialismo di sinistra avrebbero
scelto di non aderire alla nuova formazione politica. Il modello fino
ad allora dominante nella relazione tra intellettuali e partito (e
tra classe e partito, e tra classe e intellettuali) entrava
definitivamente in crisi, aprendo le porte a nuovi scenari e nuove
possibilità.
Dal portale di risorse
per gli studi storici e sociali “Open editio”, cui rimando per
annotazioni e bibliografia.
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