Pablo Picasso con il suo celebre ritratto di Stalin |
I.
Sulla superficie del mare, sopra le
cordigliere,
attraverso le valli, i boschi e i
fiumi,
al di sopra delle oasi e dei deserti di
sabbia,
al di sopra dei taciti orizzonti
sconfinati
e le disabitate regioni della neve
passa la voce, a noi giunge
triste è la voce che ce lo annuncia.
Giuseppe Stalin è morto.
Attraverso le strade e le piazze delle
grandi città,
per le larghe strade frequentate e per
gli sperduti sentieri
sopra gli attoniti villaggi, gli
stupiti campi,
le pianure solitarie, le sotterranee
gallerie delle miniere, le dimenticate
isole e i battuti, nudi litorali
passa la voce, a noi giunge
triste è la voce che ce lo annuncia.
Giuseppe Stalin è morto.
Passa attraverso le ore oscure della
notte,
l’alba, il giorno, e
i prolungati crepuscoli,
attraverso tutto ciò che di australe
e di nordico comprende la terra,
e non ci sono razze, né popoli, né
angoli lontani,
né particelle minime del mondo
dove non penetri la voce che a noi
giunge,
la voce triste che ce lo annuncia.
Giuseppe Stalin è morto.
II.
(a due voci)
1
Padre e maestro e compagno
voglio piangere, voglio cantare
che l’acqua chiara mi illumini,
che la tua anima chiara mi illumini
in questa notte in cui tu te ne vai.
2
Si è fermato un cuore.
Si è fermato un pensiero.
Un grande albero s’è reclinato.
Un grande albero s’è ammutolito.
Ma già si ode nel silenzio.
1
Padre maestro e compagno;
sembra che sia solo il mare.
Ma le onde si innalzano,
ma dalle onde t’innalzi
e già governi sull’immensità.
2
Ha chiuso gli occhi la saldezza,
la foglia più pura dell’acciaio.
Sopra la sua terra s’è addormentato.
Sopra la Terra s’è addormentato.
Ma già si erge nel silenzio.
1
Padre maestro e compagno:
vola nell’oscurità uno sparviere.
Ma sulla tua barca una colomba,
ma nella tua mano una colomba
si apre ai cieli della pace.
2
Tacciono le incudini e i martelli.
La campagna tace e tace il vento.
Muto il suo popolo lo veglia.
Muti i popoli lo vegliano.
Ma egli già cammina nel silenzio.
1
Padre e maestro e compagno
forti ci lasci, Maresciallo.
Come sulle punte della stella,
come sulle punte della tua stella
brucia in noi l’unità.
2
L’amore vince in questo giorno.
L’odio latra prigioniero.
L’oscurità chiude le braccia.
L’eternità apre le braccia.
E scrive un nome nel silenzio.
III.
Non è morto Stalin. Non sei morto.
Che ogni lacrima canti
la tua memoria.
Che ogni gemito canti
la tua memoria.
Il tuo popolo ha la tua forma,
la sua voce il tuo accento virile.
Non sei morto.
Parlano per te le sue officine,
la donna e l’uomo nuovi.
Non sei morto.
Non ci sono mari dove tu non sia,
fiumi dove tu non scorra dentro.
Non sei morto.
Campi dove le tue mani
aperte non siano posate.
Non sei morto.
Cieli dove non passi
come un sole il tuo pensiero.
Non sei morto.
Non c’è città che non ricordi
il tuo nome quand’era fuoco.
Non sei morto.
Gli allori di Stalingrado
diranno che non sei morto.
I bambini nelle loro canzoni
ti canteranno che non sei morto.
I bambini poveri del mondo,
che non sei morto.
E nelle carceri di Spagna
e nei suoi villaggi più sperduti
diranno che non sei morto.
E gli schiavi oppressi,
i gialli, i negri,
i più dimenticati e mesti,
i più disfatti e senza consolazione,
diranno che tu non sei morto.
E la Terra che tutta gira,
che non sei morto.
E Lenin, addormentato accanto a te,
anche lui dirà che non sei morto.
Rinascita, n.2, 1953
Nota
Questa poesia,
nell'originario testo spagnolo e in questa traduzione di Dario
Puccini, venne pubblicata nel numero 2 di "Rinascita" del
1953, che evidentemente uscì, con qualche ritardo, dopo il 5 marzo,
giorno della morte di Giuseppe Stalin.
Alberti è un poeta
grande, ma questa non mi pare una bella poesia. Alberti è capace di
grande retorica, ma qui il meccanismo delle apostrofi, delle anafore,
delle iterazioni non seduce e non commuove. L'impressione è di un
omaggio rituale.
Eppure la poesia di
Alberti, come lo Stalin che Picasso dipinse, come le tante pagine, le
tante immagini, che scrittori, poeti e artisti del mondo intero,
grandi e meno grandi, dedicarono all'uomo e alla sua morte, meritano
qualche spiegazione in più. E non sono (o comunque non sono solo) un
omaggio servile, cosa che, del resto, si presta più ai vivi che ai
morti.
Il "culto della
personalità" tipico di tutte le dittature? Io eviterei la
generalizzazione. Hitler, Mussolini, grazie ad un uso sapiente del
mezzi di comunicazione, riuscirono ad ottenere l'amore dei propri
sottoposti, non solo dei seguaci in senso stretto, ma anche di una
gran parte del proprio popolo. Fu un vero lavaggio del cervello.
Per il fhurer c'erano
ragazzi tredicenni che "si sacrificavano" felici anche
negli ultimi terribili giorni della sconfitta, nella Berlino messa a
ferro e a fuoco.
Per il duce non fu così.
Tante cose ne avevano offuscato la luce: "l'amor di Petacci"
e la collaborazione con i tedeschi occupanti, in primo luogo, oltre
che la colpa suprema di aver condotto l'Italia in una guerra lunga e
sanguinosa dopo aver promesso facile vittoria e pingue bottino.
Eppure anche per lui, il giorno di Piazzale Loreto, non mancò la
prova d'amore: a fronte delle tantissime e dei tantissimi che
baciavano la terra che se l'era ripreso, c'erano altri, pochi ma non
pochissimi, che lo piangevano come si piange un padre.
Tutto uguale dunque? Una
dittatura vale l'altra?
Stupidaggini. A piangere
Stalin non erano infatti solo i russi cresciuti e formati nel suo
regime: erano davvero i popoli della terra. Io - ne ho scritto in un
racconto autobiografico, un inedito che un giorno o l'altro posterò
- ho un ricordo preciso, forse uno dei più remoti della vita (avevo
5 anni): nella sezione del Pci, al mio paese, vedevo piangere uomini
e donne con un'intensità che m'è rimasta impressa. E Stalin
piansero non solo russi e italiani, ma neri, rossi e gialli in tutto
il mondo. Perché? Perché era l'emblema della speranza dei poveri e
degli oppressi, di una religione che non mobilitava (come il fascismo
o come il nazismo) gli egoismi di nazione e di razza, ma affermava
l'uguaglianza e la giustizia tra tutte le donne e tutti gli uomini
dell'intero pianeta. Perché era visto come l'uomo che, a
Stalingrado, in condizioni terrificanti e indescrivibili, aveva
guidato la riscossa contro il mostro che si stava impadronendo del
mondo intero.
Era illusione? Frutto di
una propaganda che usava l'internazionalismo proletario per
avvantaggiare lo Stato russo e sovietico e l'oligarchia burocratica
che lo reggeva? È possibile, ma aveva comunque un segno diverso dai
nazifascismi che confermavano l'oppressione. Conteneva un segno di
liberazione. E per questo alle manifestazioni di artisti e poeti
(anche a quelle poco riuscite, come questa di Alberti) con le quali
volevano dare voce al dolore dei tanti operai e contadini che ebbero
fede nel Baffone, l'uomo che aboliva l'ingiustizia, bisogna portare
rispetto. (S.L.L.)
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